Robert “Bob” Wilson, regista ma anche coreografo, pittore, sculture e drammaturgo. Un personaggio emblematico, discusso, amato, ma anche “odiato”. In ogni caso Wilson è un artista carico di esperienze e che ha segnato alcuni dei momenti più salienti dell’evoluzione espressiva del teatro moderno. Segnano radicalmente la sua vita l’esperienza con i bambini disabili e i laboratori di teatro per l’infanzia in cui Wilson fa tesoro della terapia appresa da Byrd Hoffman e la fondazione, nel 1968 della compagnia di performance sperimentale “Byrd Hoffman School of Byrds” (intitolata a Miss Hoffman, l’insegnante di danza che lo aveva aiutato a superare l’handicap della balbuzie quando era ragazzo stimolandolo ad eseguire movimenti lenti (slow motion), consentirà a Robert di imparare a sciogliere la tensione del proprio corpo). Con questa compagnia crea i suoi primi importanti lavori e lo porterà all’incontro con Philip Glass per il quale realizzerà, nel 1976, Einstein on the Beach, opera che porta alla celebrità i due artisti. In questi giorni Wilson ha portato in scena il Macbeth di Verdi al Teatro Comunale di Bologna. Altre notizie su Bob Wilson le trovate nel suo sito ufficiale.
Come e perchè la sua vita è cambiata dopo l’esperienza con i bambini disabili e i laboratori di teatro per bambini?
Ho imparato molto dal mio lavoro con persone con un handicap – in particolare bambini che sono meno condizionati dalle convenzioni sociali. La loro diversità li porta a trovare altre forme di comunicazione e di espressione, in molti casi non verbali. Nello spettacolo che mi ha fatto conoscere in Europa, Deafman Glance al centro scena c’era Raymond un orfano sordomuto, che avevo adottato per evitare che finisse in riformatorio. Per entrare in comunicazione con lui ho dovuto adattare il mio modo di esprimermi e ho portato questo in scena. è stato un successo enorme. Un’altra collaborazione fondamentale nella mia carriera è stata quella con Christopher Knowles, un ragazzo autistico la cui sensibilità è straordinariamente vicina alla mia. Lui ha collaborato ad alcuni dei miei spettacoli più importanti, come ad esempio, Einstein on the Beach.
Lei è un’artista sempre proiettato verso il nuovo. Come concilia il suo pensiero con l’antica arte dell’opera?
Io credo che l’avanguardia consista nel riscoprire i classici. Il mio è un lavoro formale. Quando mi confronto con l’opera mi domando come la mia regia può aiutare il pubblico ad ascoltare meglio la musica e le voci degli interpreti. Il movimento dei cantanti aiuta loro nella concentrazione e nell’espressione. Il mio modo di lavorare è molto diverso da quello degli altri registi. Credo che questo sia dovuto al fatto che ho inziato a fare teatro senza averlo studiato, senza preconcetti o uno stile a cui rifarmi. E così ne ho creato uno mio.
Ci parli del suo Shakespeare, della sua concezione di quest’opera di Verdi…
Verdi ha rispettato il testo di Shakespeare. Mi piace lavorare con i classici, dar loro una forma. Non credo che si debbano stravolgere o attualizzare (riesce a immaginare Amleto ambientato in un supermercato?), ma nemmeno storicizzare. Quello che mi interessa è la struttura dell’opera, a cui scene, luci e suono possono dare forza.