Due volte Vienna, e poi Budapest, tra Schubert, Beethoven e Brahms

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Yefim Bronfman
Franz Schubert: Die Zauberharfe. Ouverture D 644
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36
Johannes Brahms: Concerto n. 2 in si bemolle maggiore op. 83 per pianoforte e orchestra
Torino, 21 marzo 2013

Circa vent’anni separano la composizione della sfortunata opera Die Zauberharfe di Franz Schubert (1820) e la II Sinfonia di Ludwig van Beethoven (1800/1802). La breve ouverture schubertiana, estrapolata dalle scene per cui fu composta in origine, divenne pagina da concerto, ma non poi così diffusa; basti dire che alla RAI di Torino non si eseguiva dal dicembre 1968 (quando fu diretta dal grande Mario Rossi). Eppure, ad ascoltarle di seguito, e nell’ordine anti-cronologico, parrebbe che le date dovessero scambiarsi, perché Juraj Valčuha sembra proporre Schubert come un anticipatore di Beethoven, con sonorità vigorose e potenti, colori scuri e inflessioni brunite: ogni accordo – in particolare quelli degli archi – è scandito in maniera marcata, e l’equilibrio è raggiunto quando, all’attacco dell’Allegro vivace dopo l’introduzione in Andante, i disegni dei fiati, dei violini (cui compete l’enunciazione del tema) e delle viole (cui compete la scansione del ritmo) sono trattati con pari importanza. Anche il timpano scandisce inesorabilmente ogni tempo forte dei vari periodi, ed è come il resto incisivo, ma forse un po’ troppo beethoveniano, ossia affrontato secondo il filtro interpretativo della più corposa pagina che segue.
Come tipico delle composizioni strumentali a cavallo tra Sette- e Ottocento, anche la II Sinfonia si apre con un tratto vago e misterioso (Adagio molto, quel che in Schubert è un Andante), per poi sciogliersi in Allegro con brio che accerta del passaggio da un clima haydniano allo stile marcatamente beethoveniano. Le intensità, il peso degli accenti, i colori bruniti che nella breve ouverture melodrammatica potevano anche parere eccessivi, ora sono perfettamente adeguati. In particolare, il timpano (Claudio Romano) nel I movimento guida la dinamica ritmica e provvede alla collocazione degli accenti secondo una metrica inderogabile. Risulta dunque molto suggestivo il contrasto con il Larghetto che segue, eseguito con molta delicatezza e dolcezza. Lo Scherzo (Allegro – Trio) e il finale (Allegro molto) sono concatenati da un ritmo nuovamente inflessibile, sostenuto, tutto tramato dai guizzi degli archi e dai sussulti dei fiati, fino al completamento luminosissimo della stretta conclusiva.
Accostarsi alle sinfonie beethoveniane è certamente per un direttore d’orchestra un momento mai banale o di routine; anzi, torna alla mente l’imperativo di un titolo di Gianandrea Gavazzeni (rivolto prima di tutto a se stesso) per un libro del 1974, Non eseguire Beethoven, quale sintomo di un disagio da parte dell’artista di fronte a pagine mille volte studiate, rivisitate, ascoltate e apprezzate, che un’ennesima esecuzione rischia soltanto di semplificare, quando non di banalizzare. Forse anche un pubblico così competente e attento come quello torinese nutre il dubbio gavazzeniano? Non è parso affatto, considerato il grande entusiasmo con cui ha salutato il termine dell’esecuzione. Del resto, la scelta di Valčuha è stata apprezzabile, sia per l’opera in sé (la II è, insieme alla IV, la meno popolare e conosciuta delle nove sinfonie) e le sue implicazioni storiche (la prima a Vienna nel 1803, come la musica schubertiana degli anni successivi) sia per le modalità interpretative con cui l’ha affrontata, di grande accuratezza nella lettura, e di grande eleganza stilistica. L’ascoltatore, dunque, anziché dubbioso, resta colpito dalla duttilità dell’OSN RAI e dai risultati sempre più positivi che di volta in volta essa raggiunge grazie alle diverse scuole direttoriali con cui si confronta: gli esiti lusinghieri, ma spesso di altissimo livello, delle prove dei mesi scorsi costituiscono l’argomentazione del giudizio.
Nella seconda parte del concerto fa il suo ingresso il pianista di origine sovietica, poi emigrato in Israele, poi divenuto cittadino americano, Yefim Bronfman per eseguire il Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Brahms. Opera monumentale, a mezza via tra il concerto tardo-romantico (la composizione risale al 1881 ed ebbe la prima esecuzione a Budapest nel novembre dello stesso anno) e la sinfonia concertante (o addirittura la sinfonia tout court), si apre con una frase del corno (Ettore Bongiovanni), che dà avvio a un pacato dialogo con il pianoforte: due degli strumenti che il compositore suonava da bambino, e che costituiscono la cifra ricorrente di un tentato ritorno all’infanzia e ai suoi miti. Forse perché è impossibile recuperare subito l’innocenza e la gioia della fanciullezza, il tono ripiega sul solenne, sull’epico, sul magniloquente, sia negli interventi del solista sia nelle frasi dell’orchestra (così si snoda l’Allegro non troppo del I movimento). Nella seconda sezione, molto più articolata (Allegro appassionato – Largamente – [Tempo I] – Sempre più agitato) l’attenzione è attirata dalla breve cadenza solistica eseguita in pianissimo per ottenere un meraviglioso effetto, come di sordina. E forse la serenità dell’infanzia è recuperabile all’inizio dell’Andante (che diviene Più adagio – Tempo I – Più adagio) grazie all’intervento solistico di un caldissimo violoncello (Massimo Macrì), che suggerisce al pianoforte riflessioni sempre più commosse e struggenti. Ma anche il III movimento va irrobustendosi, e torna massiccio il dialogo tra pianoforte e corni (quattro in totale), come nell’avvio, a costruire sempre più la struttura sinfonico-concertante. Il finale (Allegretto grazioso – Un poco più presto) costituisce una sezione narrativa, gaia, spensierata, alternata a momenti di “musica notturna” che più brahmsiana non potrebbe essere, e che conduce il concerto alla sua conclusione, in un’ondata di sentimenti e di reminiscenze emotive. Bronfman dimostra un controllo tecnico straordinario, unitamente alla capacità di originare sonorità molto diverse a seconda dell’intensità o della leggerezza del tocco; grazie a tali virtuosismi ogni sezione del complesso concerto brahmsiano risuona di colore differente, come una grandiosa rapsodia sinfonica, appunto, più che come usuale e coerente concerto solistico. Peccato soltanto che l’inopinata rottura di una corda del pianoforte abbia provocato delle risonanze e dei leggeri disturbi nelle battute finali della partitura. Forse proprio per questo motivo il solista, pur molto acclamato dal pubblico, non ha concesso alcun bis: una sorta di pudore a utilizzare uno strumento in condizioni non del tutto perfette. Ma è più che sufficiente la meraviglia di quanto ascoltato poco prima.