“La Traviata” al Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry PATRIZIA CIOFI
Alfredo Germont PIERO PRETTI
Giorgio Germont NICOLA ALAIMO
Flora Bervoix SILVIA BELTRAMI
Annina FRANCESCA ROTONDO
Gastone ENRICO IVIGLIA
Il barone Douphol PAOLO MARIA ORECCHIA
Il marchese D’Obigny SCOTT JOHNSON
Il dottor Grenvil DAVIDE MOTTA FRÉ
Giuseppe DARIO PROLA
Un domestico di Flora ENRICO SPERONI
Un commissionario ENRICO BAVA
Ballerini SIMONA TOSCO, LUCA MARTINI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Corrado Rovaris
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia e costumi Laurent Pelly
Regia ripresa da Anna Maria Bruzzese
Scene Chantal Thomas
Luci Gary Marder
riprese da Andrea Anfossi 
Allestimento del Teatro Regio di Torino in coproduzione con Santa Fe Opera Festival
Torino, 13 marzo 2013

Quattro recite fuori abbonamento della Traviata segnano il passaggio forte nella stagione del Teatro Regio di Torino dal Don Giovanni di Mozart al Matrimonio segreto di Cimarosa. Ripresa di uno spettacolo risalente alla primavera del 2011, l’opera verdiana ha riscosso un grandissimo successo, sia per la scorrevolissima coerenza dell’allestimento scenico sia per l’intensa prova interpretativa della cantante protagonista, Patrizia Ciofi, molto amata a Torino per essere cresciuta con la storia recente del Teatro Regio e per aver interpretato con grande intelligenza numerosissimi e disparati ruoli vocali.
Poiché la voce di quest’artista costituisce un piccolo mistero, una sorta di enigma, o di caso-limite tra le voci verdiane, sarà opportuno dedicarle subito attenzione specifica. Patrizia Ciofi debutta in Traviata al Teatro Verdi di Pisa nel 1993, all’età di 26 anni; oggi vanta dunque un’esperienza ventennale della parte, e si può dire che sia una delle Violette italiane più apprezzate. Difficilmente, però, si potrebbe sostenere che la sua voce sia naturalmente adatta a tale ruolo (o a Verdi in genere); eppure la cantante è così abile da trasformare i difetti (nel senso etimologico di “mancanze”, non certo di errori) in pregi, e le anomalie dell’emissione in virtù interpretative. Va poi aggiunta la straordinaria vitalità attoriale della Ciofi, che la rende – alla fine – interprete persuasiva della sua progressiva identificazione con Violetta Valéry. Nelle frasi iniziali del I atto la voce è così priva di armonici e spoggiata da suscitare preoccupazione; poi, riscaldandosi, gli armonici si rivelano nel brindisi e nella grande scena solistica; a questo punto l’opacità dell’emissione, la voce stessa – che è tutta screpolature e venature (cifra genuina della Ciofi) – diventano adattissime all’espressione dolorosa dell’animo di una donna perduta. A dispetto del piano strettamente vocale, la Ciofi rende in modo plausibile un personaggio votato alla morte, grazie all’innato carattere elegiaco e doloroso del timbro e dell’emissione. Sulla base di tale considerazione si comprende come talune pagine siano destinate a riuscire assai meglio di altre: il cantabile dal tono angosciato «Ah, fors’è lui che l’anima» è molto più convincente della cabaletta che segue, «Sempre libera degg’io»; il duetto con Germont padre, essendo per eccellenza scena di rinuncia e di sofferenza, è momento in cui la Ciofi si trasfigura completamente nel personaggio (molto intensa e commovente la quartina del «Dite alla giovine – sì bella e pura», cantata con alternanza di mezza voce e di pianissimo).
Che dire, invece, delle scene di frivola mondanità, di agilità più propriamente belcantistiche, dei passaggi gai e brillanti, frequenti soprattutto nel I atto? La Ciofi li risolve con ferrea determinazione (che un tempo ci si compiaceva di chiamare, con una certa qual genericità, il “temperamento” di un soprano), senza preoccuparsi delle emissioni opache, decisamente brutte e scabre, degli acuti striduli, dei fiati insufficienti, di piccoli mancamenti nell’intonazione e del frequente ricorso al parlato. In fondo, quella della festa a casa di Flora non è la vera Violetta, autentica soltanto quando soffre, quando si sacrifica e si redime, e soprattutto quando muore. Per questo la prestazione della Ciofi è un continuo crescendo, fino al III atto e a quella sorta di congedo dalla vita che è la romanza «Addio, del passato bei sogni ridenti»: ogni parola del fraseggio della Ciofi trasuda un dolore inconsolabile, vivido e straziante nella metamorfosi completa dell’artista nel personaggio; forse, identificazione più naturale e convincente di questa non si potrebbe richiedere.
Piero Pretti è un Alfredo dalla bella voce lirica, omogenea, equilibrata, armonica, non potentissima ma dotata di un certo squillo: un esempio di vero tenore lirico italiano. In questa Traviata la sua gradevole uniformità vocale è il perfetto contrasto con le disomogeneità della voce di Violetta (per cui i due cantanti si integrano bene: molto commovente, a questo proposito, l’ingenuo trasporto del duettino cantabile «Parigi, o cara, noi lasceremo»). E poi Pretti è tenore generoso, capace di gratificare il pubblico sia con un canto appassionato (nel cantabile «De’ miei bollenti spiriti» o nel rimpianto nel concertato finale II) sia con un bel do di petto nella stretta della cabaletta del II atto («Oh mio rimorso! Oh infamia!»). Nicola Alaimo, nel ruolo di Giorgio Germont, è baritono dalla voce chiara e dall’impostazione corretta, molto dignitosa; il cantante punta tutto sull’eleganza del porgere, e per questo il fraseggio è molto curato, anche se la tessitura medio-acuta risulta appena compromessa da una debolezza di fondo (la voce si stimbra negli acuti, diventa un po’ troppo leggera, ed è anche soggetta a lievi inflessioni nasali). La compostezza borghese di celebri pagine («Pura siccome un angelo», «Di Provenza il mar, il suol», «No, non udrai rimproveri») è rivitalizzata dalla raffinatezza di stile grand-seigneur di Alaimo, che comunque sa anche commuoversi nel finale, di fronte a Violetta morente.
Molto corretti i numerosi comprimari della compagnia, tra cui si sono apprezzati in particolare Silvia Beltrami (dalla voce vigorosa, ha reso bene la sostanziale volgarità del personaggio di Flora), Paolo Maria Orecchia (il barone Douphol), e Davide Motta Frè (ottimo basso nella parte del Dottor Grenvil). Pregevolissimo nella parte musicale e spigliato in quella scenica, come sempre, il coro del Teatro Regio, istruito da Claudio Fenoglio. La direzione orchestrale di Corrado Rovaris è stata magnifica: il direttore si dimostra accompagnatore raffinato sin dal Preludio, affrontato con eleganza e leggerezza (ma non con frivolezza, come hanno lasciato intendere i moderati ritenendo nel motivo conduttore a ritmo danzante). E nel corso di tutta l’opera Rovaris è attento a favorire il più possibile i cantanti, senza indulgere a effetti patetici (nelle scene dolorose) o a frenesie ritmiche (come solitamente accade in più passaggi del I e della seconda parte del II atto). In particolare il concertato del finale II è stato un modello d’intensità espressiva per tutti gli interpreti, a partire appunto dall’orchestra. Ma quella di Rovaris non è semplice routine direttoriale, perché da ogni pagina della partitura trapelavano fremiti e trasparenze che non possono essere se non frutto di uno studio analitico e approfondito della scrittura verdiana (e se questa è la routine, la vorremmo sempre, e la definiremmo – orazianamente – aurea).
L’allestimento scenico di Laurent Pelly è basato su un presupposto (che ben si adatta allo stile interpretativo della protagonista): Violetta e le sue frequentazioni sociali sono fin dall’inizio destinate alla morte; per questo nel corso del Preludio si assiste già all’epilogo della storia, al corteo funebre con la bara della protagonista; i parallelepipedi e i blocchi squadrati che simulano sepolcri e tombe restano sempre in scena, fornendo il piano di calpestio delle feste, della casa suburbana dei due amanti, della stanza in cui Violetta spira. La simbologia della lapide funeraria è dunque sempre presente agli occhi dello spettatore, e suggerisce che il vitalismo sciocco e nottambulo del demi-monde parigino altro non sia se non un’espressione della morte che già incombe, del disfacimento inevitabile di ogni gioia dietro le maschere del perbenismo borghese o di un’aristocrazia insulsa.