“Der Fliegende Holländer” al teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica in tre atti
Libretto e Musica di Richard Wagner
Daland AIN ANGER
Senta ANJA KAMPE
Erik KLAUS FLORIAN VOGT
Mary ROSALIND PLOWRIGHT
Der Steuermann Dalands DOMINIK WORTIG
Der Holländer BRYN TERFEL
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Hartmut Haenchen
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Andreas Homoki
Scene e Costumi Wolfgang Gussmann
Collaboratore del regista Aglaja Nicolet
Luci Franck Evin
In coproduzione con Opernhaus di Zurigo e Den Norske Opera & Ballet di Oslo
Milano, 12 marzo 2013

Se Lohengrin, inaugurando sia la stagione scaligera sia l’anno wagneriano, era stato un trionfo completo della musica, quella del Fliegende Holländer in corso a Milano è una produzione meno incisiva, forse anche meno attenta alla complessità leggendaria e psicologica del mito raccontato.
La direzione d’orchestra è certamente l’elemento più interessante dell’allestimento, perché Hartmut Haenchen compie scelte originali – quando non anticonformistiche – di perfetta coerenza. In primo luogo stacca tempi piuttosto pacati, e resta fedele a tale impostazione, realizzata sin dal preludio: alla ricerca non di solennità o di tono epico, bensì dei disegni e soprattutto dei colori orchestrali. La distensione dei tempi permette infatti al direttore di analizzare il dettaglio dei temi e delle figurazioni musicali, di far enunciare agli archi le loro parti in maniera calligrafica, e di far risaltare l’apporto di strumenti per lo più offuscati dal clamore degli ottoni, come i legni. Non l’immane tempesta risalta quindi nel preludio, ma un delicato tema di ondeggiamento marino, appunto affidato a oboe e clarinetto. Un grande merito del direttore è inoltre presentare tutte quelle eleganze di strumentazione e quei compiacimenti ritmici (nei pezzi d’insieme e nei canti popolari) che apparentano il Fliegende al Rienzi (prima ancora della cui première quasi tutta la musica della nuova “opera romantica” era già ultimata) e alla tradizione del grand-opéra francese, tanto quanto alla scrittura leitmotivica, alle sonorità telluriche e nibelungiche dei drammi a seguire. Non a caso è a firma dello stesso Haenchen un saggio del programma di sala, Sfinito da una vita insonne (Nota del direttore d’orchestra), sulla complicata questione filologica del Fliegende, sui sette periodi di composizione e di revisioni, sulle sostanziali quattro versioni del testo; il direttore si è avvalso della “Nuova Edizione Wagner” (NWA), che propone «la partitura della versione del 1860 e con le modifiche del 1864 (Monaco di Baviera)». L’esecuzione è una sorta di compromesso tra la “leggenda senza soluzione di continuità” (l’atto unico della Urfassung parigina, senza pause, come per lo più oggi si esegue) e l’opera in tre atti con le interruzioni tradizionali, perché l’atto I è isolato e seguito da intervallo; non è invece alcuna cesura tra II e III.
Bryn Terfel, reduce dalle recite scaligere di Falstaff tra gennaio e febbraio scorsi, è un Olandese di scaltrita esperienza, uno di quei protagonisti in cui lo spettatore ripone piena fiducia. La sua voce è solida, abbastanza omogenea nella varietà di registro, e il personaggio, avvolto in una spessa pelliccia nera, risulta credibile sul piano scenico. Eppure la prova vocale di Terfel non convince del tutto; non affascina; non dice nulla del dramma di dannazione dell’Olandese. Non è il caso di difetti macroscopici nell’emissione (anche se la tendenza al portamento  – già rilevata nel Falstaff – e i suoni fissi sono a volte alquanto fastidiosi); si tratta di impegno vocale e di fraseggio piuttosto trascurati, nonostante la professionalità e del cantante e del direttore, che in più momenti si rivela attento concertatore di voci e orchestra. Forse – e in particolare nel I atto – Terfel gioca tutta la sua interpretazione su un’aura gotica e tenebrosa che (per colpa di un’ambientazione bislacca) proprio non persuade: vorrebbe essere misterioso, e riesce invece un po’ monotono. Nella seconda parte (gli atti II e III agglutinati insieme) la resa espressiva migliora, in particolare nel corso del duetto con Senta e poi nel finale.
Paradossalmente, l’avido e opportunista padre di Senta finisce per determinare una presenza più netta rispetto a quella del protagonista, pur non essendo l’artista in questione, Ain Anger, dotato di mezzi vocali ragguardevoli; nel duetto del I atto, comunque, è apprezzabile il contrasto tra le due voci maschili, molto diverse nel timbro e nella tinta.
La Senta di Anja Kampe è il personaggio vocalmente più convincente: la celebre ballata in apertura del II atto riesce bellissima e intensa, poiché la tessitura si adatta perfettamente alla voce dell’interprete, calda e omogenea sin dai vocalizzi dell’attacco; le sue note migliori sono infatti quelle centrali. Nel duetto con l’Olandese gli acuti risuonano invece un po’ forzati, come quelli del III atto e del finale, tendenti al grido stridulo poiché non abbastanza sostenuti dal fiato né curati nell’intonazione.
Molto buona anche la prova del tenore Klaus Florian Vogt, espressivo nei toni dolorosi dell’amante deluso Erik, sicuro anche nei passaggi più disagevoli e acuti della sua parte. Rosalind Plowright è una Mary di altissimo livello: la cantante, ben nota per una illustre carriera di soprano, dal 1999 ha deciso di cimentarsi in ruoli dal timbro più scuro, e quello della nutrice di Senta le calza alla perfezione. Un po’ troppo leggera (oltre che poco armoniosa) è parsa invece la voce di Dominik Wortig, il Timoniere di Daland.
Il coro della Scala si è disimpegnato molto bene nelle scene in cui è protagonista; nel dettaglio, il gruppo vocale maschile è stato più preciso e convincente di quello femminile, che nel II atto non sempre era perfettamente allineato all’orchestra.
Quanto alle soluzioni registiche, va detto che la rappresentazione è fatalmente compromessa da un’impostazione scenica aberrante: niente mare, niente vascelli, niente marinai; una ressa di impiegatucci e piccoli burocrati si agita all’interno di uno spazio a metà tra l’ottocentesco ufficio centrale di una compagnia di navigazione (ma potrebbe anche essere una multinazionale del cibo in scatola, e non cambierebbe nulla) e un gabinetto cartografico popolato da svogliati archivisti. Unico elemento che ricordi (a patto di forte impegno dello spettatore) la vicenda leggendaria dell’Olandese maledetto è una riproduzione cartografica dell’Africa del Sud, e dunque del fantomatico Capo di Buona Speranza, sormontata da un orologio le cui lancette corrono all’impazzata. Nel 2013 non si pretende certo dai registi un’adesione mimetica e byronianamente romantica allo spirito Sturm und Drang o all’ambientazione marina dell’opera; omettere però del tutto qualsivoglia indizio allusivo al mare (l’elemento liquido primordiale che in gran parte di Wagner assume un ruolo essenziale) è fortemente controproducente. I cantanti stessi paiono disorientati e impacciati sulla scena, in un contesto del tutto avulso rispetto al loro canto: lo Steuermann di Daland utilizza telegrafo e telefono di bachelite per comunicare con la nave dell’Olandese, e lo stesso Daland, anziché un capitano di vascello, è un convenzionale capo-ufficio detestato dai suoi sottoposti. Nel II atto le compagne di Senta, anch’esse impiegate in camicia bianca e cravattino nero, anziché filare dattiloscrivono e sbrigano pratiche commerciali. Il mare e le imbarcazioni sono limitati a un quadro, dalla grafica mobile, che compare in alcune scene degli atti II-III, come se fosse un completamento accessorio, un orpello decorativo. Ma la tempesta di mare per Wagner non è affatto un motivo letterario, come per tanti altri compositori; è invece un dato biografico che lo ha traumatizzato nel 1839, quando la goletta Thetis resta per tre giorni in balìa delle onde dello Skagerrak, rischia di fare naufragio, e alla fine approda in un fiordo norvegese di Sandvingen, presso Boraya. Ed è in quell’occasione che Wagner, in compagnia di Minna, ascolta le grida dei marinai impegnati nelle varie manovre, e le trasforma nell’idea prima dei cori del Fliegende.
Comunque, al termine dell’opera, il pubblico scaligero ha applaudito sonoramente tutti gli interpreti vocali, il coro e il direttore d’orchestra; a loro spetta il merito di aver tratto in salvo lo spettacolo da possibile naufragio (scenico-registico), e in particolare di aver teso la drammaticità dell’esecuzione a mano a mano che si avvicinava il finale: il terzetto che precede la tragedia ha fatto finalmente esplodere i conflitti insanabili tra l’Olandese, Senta ed Erik, dopo le titubanze interpretative della prima parte; sul piano musicale, è stato il momento più intenso di tutta l’esecuzione. Ancor più dell’ipotetica (ma immancabile) redenzione finale, è dunque la crisi dei personaggi ad affascinare l’ascoltatore wagneriano di oggi. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala