Atmosfere britanniche con Sol Gabetta e l’OSN della RAI

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore John Axelrod
Violoncello Sol Gabetta 
Edward Elgar: Concerto in mi minore op. 85 per violoncello e orchestra
Antonín Dvořák: Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88 Inglese
Torino, 18 aprile 2013 

Il tratto di storia musicale che collega l’entusiastica fede religiosa degli oratori di Haydn e di Händel al languore tardo-romantico, e sempre un po’ compassato (da età edoardiana), di Edward Elgar è davvero notevole. Ma il compito di una stagione sinfonica è appunto questo: proporre al pubblico il repertorio internazionale senza la preoccupazione di un continuo filo conduttore o di un programma tematico monografico. Del resto, l’OSN della RAI ha ormai abituato i suoi ascoltatori a frequenti “voli pindarici”, tutti spiccati con eleganza e souplesse, di settimana in settimana: premio di duttilità e professionalità.
Questa sera sono una giovane violoncellista di fama internazionale e un direttore ben noto all’Auditorium RAI “Arturo Toscanini” a far sentire immediatamente a suo agio il pubblico torinese. L’incantevole Sol Gabetta, in fiammante abito rosso, entra con un violoncello G. B. Guadagnini del 1759, messole a disposizione dalla Fondazione Rahn. L’attacco e le prime battute del concerto di Elgar (Adagio – Moderato) sembrano quelli d’una sonata per violoncello solo, tanto lo strumento è protagonista; e tanto più si sprigiona il suono straordinario del manufatto settecentesco, dalle risonanze calde e vibranti, davvero inimitabile. Quando l’orchestra riprende il tema principale del solista, Axelrod – al solito – raggiunge subito sonorità eccessive, rischiando di soffocare la nobiltà richiesta dal compositore (l’indicazione Nobilmente accompagna infatti la scrittura d’attacco). Nel seguito del movimento il direttore adotta fortunatamente sonorità più contenute, d’un bel colore piuttosto scuro, a volte anche cupo, molto appropriato a congiungersi con lo strumento solista. Nella cadenza che collega il I al II movimento (Lento – Allegro molto) la violoncellista esalta i pizzicati, enunciandone la successione con grande vigore; risulta così un notevole contrasto con il tema portante del II movimento, nello stile Pomp and Circumstance, per citare l’opera più popolare dello stesso Sir Edward. Sol Gabetta ha modo di sfoggiare la sua straordinaria tecnica anche in tale sezione, sgranando copiosissimi grappoli di note con indefettibile precisione. Il III movimento (Adagio) scorre con grande fluidità, ma non pare intenso quanto i due precedenti; forse perché l’interprete preferisce dedicarsi al IV (Allegro – Moderato – Allegro ma non troppo – Lento – Allegro molto), di certo il più elaborato nell’avvicendamento ritmico. La solista torna a dare il meglio di sé, specie nelle sezioni più narrative, di dialogo con gli archi o con altri singoli strumenti. Bravissima nel declinare il tema secondo ogni modalità stilistica, ora popolareggiante ora grottesca, in una serie di variazioni quasi a sé, la violoncellista presenta tutta la forza della scrittura di Elgar: romantica, ma estremamente vigorosa.
Agli insistenti applausi del pubblico Sol Gabetta risponde con un’esecuzione fuori programma, preparata insieme ad altri strumentisti: su un pedale dei violoncelli dell’orchestra la solista disegna un motivo molto malinconico e nostalgico, che nella sua brevità si conclude con una filatura interminabile: un pezzo per ensemble di violoncelli scritto da Pablo Casals.
Nella seconda parte del concerto resta protagonista l’orchestra, con l’VIII sinfonia di Dvořák, denominata Inglese non certo per affinità stilistiche rispetto al sinfonismo britannico (circa trent’anni, tra l’altro, separano l’opera di Dvořák, del 1889, dal concerto di Elgar, del 1919), ma per diffusione e popolarità che essa ebbe a Londra (nel 1892 fu pubblicata dall’editore Novello, appunto nella capitale britannica, e iniziò a circolare con il soprannome che ancora oggi la identifica, e la collega in modo stringente al repertorio e al gusto d’oltre Manica). Sin dal I movimento (Allegro con spirito) Axelrod è molto a suo agio con le sonorità smaglianti e i molti colori (in particolare del flauto di Monica Berni, che pure attacca con qualche velatura). Nella fanfara – la prima delle tante che percorrono la sinfonia – gli ottoni rivelano piuttosto qualcosa di bruckneriano, e documentano come all’epoca Dvořák avesse interiorizzato le novità musicali della Mitteleuropa, e fosse capace di rimodularle nella sua scrittura. Axelrod rende perfettamente l’agogica del movimento, anche perché le sonorità in crescendo sono del tutto adeguate; i temi s’incastrano l’uno con l’altro a prezzo di un certo lavorio di forme e di volumi: il direttore, in altre parole, esalta quell’alternanza di spazi vuoti e di spazi pieni tipica del sinfonismo tardo-ottocentesco. Inizia a rivelare un’ottima prestazione il compatto gruppo di ottoni formato da trombe (Marco Braito, Roberto Rivellini), tromboni (Joseph Burnam, Devid Ceste), trombone basso (Gianfranco Marchesi) e tuba (Daryl Smith).
Nell’Adagio i colori cambiano del tutto, perché a prendere la parola sono il fagotto, l’oboe, il corno inglese; ma anche l’articolazione musicale cambia, perché si alternano un tema danzante (al centro del movimento e poi nella chiusa, garbatamente evocativo di motivi etnici) e un’altra fanfara, ora maestosa ora smorzata grazie ai legni in pianissimo. Perfetti gli attacchi di tutte le sezioni. L’Allegretto grazioso è il movimento in cui fanno capolino le danze slave, i loro inconfondibili temi, quel sistema ritmico che Dvořák ebbe modo di studiare e raccogliere nell’opera omonima, parallela alle Ungarische Tänze di Brahms. Da un direttore come Axelrod non è opportuno attendere prolungate introspezioni psicologiche o sentimentali; però va detto a suo onore che, se la cifra fondamentale della sinfonia è costituita dai continui e diversificati colori strumentali (oltre alle fanfare, ai passi di danza, alle volumetrie sonore), il direttore li sa rendere benissimo, e in modo nitidissimo. A tratti, è ben profilata anche la malinconia di Dvořák, come dimostrano l’attacco del III movimento e la sua ripresa durante lo sviluppo; Axelrod riesce robusto, ma anche capace di alleggerire le frasi musicali in clausola: una finezza esecutiva struggente e preziosa, accentuata in particolare prima dell’attacco del finale. Anche il tempo staccato in tale movimento conclusivo (Allegro ma non troppo) è moderato e ben sostenuto, perfetto nella sua coerenza, perché Axelrod ha chiara la percezione di come la sinfonia attenda proprio il finale per impennarsi nella più trascinante e marcata delle fanfare. Ma non tutto è reboante; commuove, anzi, il ritorno in primo piano del flauto, nella parte più distesa e rilassata, come in apertura dell’opera; e ciascuna sezione dell’orchestra è in dialogo serrato e impeccabile con le altre: ogni tinta scura della partitura si staglia in superficie all’occorrenza, alternandosi alle frasi così assertive e così sicure delle trombe.
Il successo è grande, l’orchestra e il direttore sono festeggiati con entusiasmo; Axelrod fa alzare tutti i protagonisti della sinfonia, prime parti e sezioni, e poi tutta quanta l’OSN, perché possano ricevere l’apprezzamento diretto del pubblico. Il secondo concerto diretto da Axelrod nella stagione in corso è parso più coeso e convincente rispetto a quello del 28 marzo, con musiche di Bernstein e Gershwin; ma il direttore è atteso ancora il 16 maggio, quando avrà il compito di concludere l’intera rassegna sinfonica 2012-2013 insieme a Gidon Kremer, con un impegnativo programma che avvicenda Schnittke, Čajkovskij, Wagner.