Firenze, Teatro Goldoni: Anna Caterina Antonacci in concerto

Firenze, Teatro Goldoni, 80° Festival del Maggio Musicale Fiorentino (1933-2013)
Soprano
Anna Caterina Antonacci
Pianoforte Donald Sulzen
Claude Debussy: “Mandoline” (Verlaine) Da Ariettes oubliées:” C’est l’extase” –” Il pleure dans mon coeur” – “Green”  (Verlaine)
Henri Duparc: “L’invitation au voyage” (Baudelaire)
Ernest Chausson:” Le temps des lilas” (Bouchor)
Claude Debussy:” Le promenoir des deux amants” (L’Hermite)
Gabriel Fauré: “Au bord de l’eau” (Sully-Prudhomme), “Après un rêve” (Bussine), “Tristesse” (Gautier)
Francesco Paolo Tosti: Quattro Canzoni d’Amaranta (D’Annunzio)
Hector Berlioz: “La mort d’Ophélie” (Legouvé, da Shakespeare)
Claude Debussy: “Chansons de Bilitis” (Louÿs)
Richard Wagner: Fünf Gedichte für eine Frauenstimme und Klavierbegleitung (M. Wesendonck)
Firenze, 22 maggio 2013

Per dare il mio resoconto di questa serata prendo spunto dall’ottima introduzione nel programma di sala, firmata da Roberto Brusotti: per cercare una ragione dell’accostamento con Wagner della lunga prima parte composta dalla mélodie francese e dalla lirica da salotto italiana, Brusotti trova la sua chiave di lettura nel paragone con il romanzo giallo, nel quale tutto si spiega nell’epilogo. Sceglierò dunque anch’io una prospettiva “à rebours”, a ritroso. La cornice del concerto di stasera è stato un Teatro Goldoni gremito da un pubblico particolarmente partecipe ed entusiasta, letteralmente in adorazione della brava e carismatica artista, a cui ha tributato calorosi e lunghi applausi finali (anche se non erano certo mancati quelli altrettanto fragorosi alla fine di ogni gruppo, a volte pure in mezzo al gruppo che  in maniera molto inopportuna veniva interrotto nella sua narrazione o nella sua forma ciclica…). Anna Caterina Antonacci, nonostante fosse alla conclusione di un programma davvero lungo e difficile, in gran forma vocale, ha dimostrato una tenuta ed un’energia davvero straordinarie regalando al suo pubblico ben quattro bis: nell’ordine, la canzone napoletana classica di autore anonimo “Lu cardillo”, il divertentissimo arie de zapateado tratto dalla zarzuela “La Tempranica” di Gimenez, una versione molto originale (specie nella rivisitazione della parte pianistica) di “Marechiare” di Tosti e, infine, una dolcissima e intensa esecuzione di “Moon River” di Mercer e Mancini (dalla colonna sonora di “Colazione da Tiffany”). In tutti e quattro i brani la Antonacci ha dimostrato tutta la sua straordinaria capacità di interpretazione di ogni singola parola con una profondità quasi “teatrale”, sia nelle corde più drammatiche e scure come in quelle brillanti e dinamiche. Sentire queste quattro canzoni dopo il lungo e impegnativo programma avrà molto sorpreso qualcuno di noi più abituati alle classiche Liederabende, nelle quali il bis si porta in una naturale “continuazione” del tema costitutivo del programma. Tuttavia, all’interno di questo concerto non erano mancati i toni legati alla tradizione più chansonnier o alla canzone popolare in alcuni brani decisamente “contaminati”. A mio avviso, questi toni sono stati un po’ troppo frequenti anche laddove non sarebbero stati “di casa”, ed hanno fatto sì che alcuni brani, nell’interpretazione del duo Antonacci-Sulzen, si manifestassero sotto una luce che li ha mostrati per quello che effettivamente non sarebbero.
In più forme era stato comunicato che il programma rappresentava il tributo dato dal Maggio Musicale Fiorentino al bicentenario wagneriano nel giorno in cui ricorreva anche la data di nascita del compositore tedesco. Mi permetto di esprimere qui una mia personale idiosincrasia nei confronti di tutto questo “feticismo” delle date e delle ricorrenze, che tendono a diventare ormai un modus costruttivo costante della programmazione musicale classica. Se la ricorrenza ha un senso, secondo me, è per far apparire in cartellone gli autori meno consueti a favore di una loro riscoperta: Verdi e Wagner non ne hanno certo bisogno. Chiusa la parentesi.
Il giorno del 200° compleanno di Richard Wagner (tanti auguri!), dunque, abbiamo sentito a Firenze le sue composizioni più celebri per voce e pianoforte: i cinque Lieder per voce femminile e pianoforte su testi di Mathilde Wesendonck. A parte questo bellissimo ciclo, le altre composizioni vocali da camera di Wagner si limitano a pochi esempi di valore artistico minore, in lingua tedesca (tra cui alcuni testi dal Faust di Goethe) e in lingua francese. La scelta interpretativa di Anna Caterina Antonacci e Donald Sulzen mi ha lasciato un poco perplesso: non ho sentito né una lettura tipicamente “operistica” (in virtù dei collegamenti tematici con la composizione del Tristan e altre opere in cantiere in quegli anni) con una espansione vocale di grande fraseggio e volume, che sostiene ed esprime le più variegate  emozioni su una parte pianistica che già anticipa la sua futura orchestrazione, né una versione intima e interiorizzata, più “cameristica”, in cui si privilegiano i dettagli timbrici e le dinamiche più delicate, in una articolazione del testo che narra le emozioni più che incarnarle. Ho trovato che la via di mezzo percorsa dagli artisti abbia lasciato parte della musica dentro la partitura, anche se la bella qualità del registro grave e centrale della cantante ha comunque offerto al pubblico italiano una buona prova di esecuzione vocale e di belcanto, più condotti dal fraseggio musicale della melodia che da una profonda connessione tra canto e poesia.
Prima del ciclo di Lieder, in apertura della seconda parte del concerto, una straordinaria composizione vocale di Hector Berlioz, “la morte di Ofelia” (ispirata, ovviamente, dalla sventurata figura femminile dell’Amleto shakespeariano). In questo brano la Antonacci ha davvero dimostrato di essere la grande artista che conosciamo: notevole la sua capacità di variare il fraseggio del melisma che incornicia le stanze della narrazione della morte per annegamento della fanciulla ormai fuori di senno per la delusione amorosa. In semplici esitazioni e rapidissime variazioni di colore il soprano ha saputo farci entrare dentro un vasto labirinto di pensieri degno di una vera “scena della pazzia”.  Il pianista ha seguito la drammaturgia musicale così ben costruita dal canto, assecondandola sempre con un suono di buona qualità, delicato e cristallino. Inoltre, la dizione francese quasi perfetta permette alla Antonacci di cesellare con precisione e grande efficacia ogni sfumatura del testo. Capacità questa risultata un poco assente nella parte tedesca.
Anche l’esecuzione delle canzoni di Bilits, una figura femminile di grande fascino nei testi delicatamente erotici di Louÿs, è stata molto convincente e il duo ha saputo incarnare le tre diverse situazioni psicologiche della fanciulla (dall’innamoramento al primo amplesso e poi alla separazione) con alcuni interessanti cambiamenti di colore e buoni esempi fraseggio. La musica di Debussy è particolarmente densa di questo tipo di occasioni, alcune non sono state ben colte soprattutto da Sulzen che è più spesso rimasto “sotto” la voce in posizione di accompagnamento, mentre avrei desiderato qui avere qualche colpo d’ala da protagonista anche da parte sua. Per esempio l’imitazione onomatopeica del suono del canto delle rane all’arrivo della sera nel primo brano, o la contorsione sensuale di alcuni passaggi di accordi nel secondo e le perfette atmosfere glaciali del paesaggio del terzo.
A conclusione della prima parte del concerto abbiamo ascoltato il famoso ciclo di quattro romanze da salotto di Francesco Paolo Tosti su poesie di Gabriele D’Annunzio: una sorta riflessione poetica in musica, – di chiaro stile “decadente,” – sull’amore e sulla morte, tema quanto di più wagneriano possibile, anche se la creatività del compositore abruzzese non si eleva mai oltre la sua solita facilità melodica. Anna Caterina Antonacci ha saputo estrarre da questi brani tutto quello che di buono ci può essere, soprattutto nel primo e nell’ultimo: questi due pezzi hanno struttura musicale simile a quella di una scena in cui lo stile recitativo e quello arioso si alternano con grande fluidità. Così come la stanca e dolorosa melodia in sol minore del terzo pezzo è uscita bene con il piglio drammatico scelto dal duo. Ho trovato, invece, un po’ “affrettata” l’esecuzione del più celebre di tutti, “L’alba sepàra dalla luce l’ombra”, nonostante la gloriosa energia finale abbia strappato l’applauso dalla platea.
Un ponte ideale tra le composizioni dell’inizio del programma, di ispirazione e struttura più tradizionale, e questo stile melodico “all’italian” tostiano si trovava proprio un gruppo di tre brani di Gabriel Fauré (l’antiwagneriano per eccellenza), tutta musica del suo periodo giovanile. Il programma di sala riportava un “Clair de lune” (poesia di Verlaine) che non è stato eseguito ma sostituito da “Tristesse” (poesia molto pessimista di Téophile Gautier). Posso osservare che non essendo stata annunciata la sostituzione, nemmeno a voce, forse solo pochi di noi l’hanno riconosciuto. Tuttavia, con il nuovo pezzo il gruppo di tre mèlodies risultava più coerente all’interno del programma. Infatti, si tratta di brani che non hanno ancora il carattere tipico del compositore francese del periodo più maturo (di cui “Clair de lune” è il primo esempio in senso cronologico): queste tre composizioni sono tre modi diversi di intendere la forma della chanson nell’ambito del panorama francese di metà Ottocento. Ho trovato che i due artisti hanno un po’ forzato la scrittura di “Au bord de l’eau” con un eccesso di rubati (elemento sempre molto raro nello stile di Fauré giovane, quasi inesistente, poi, in quello maturo) che l’ha resa quasi una canzone parigina del secolo successivo. Anche il celeberrimo “Après un rêve” mancava della compostezza e dell’equilibrio del canto settecentesco a cui si ispira. Il brano più riuscito dei tre è stato proprio “Tristesse” in cui le armonie e l’agogica scelte dall’autore sembrerebbero davvero presagire ad una canzone alla Piaf e in cui sia la Antonacci che Sulzen sono stati bravissimi a scolpire le quattro strofe con tutti i chiaroscuri necessari a rendere questa discesa verso la tristezza più terribile.
Nella prima parte del programma si trovavano i gruppi di mélodies più coerenti ai fenomeni di adesione alla poetica wagneriana della musica francese di fine Ottocento. Il più wagneriano di tutti era stato Henri Duparc, un compositore che ha conquistato la sua meritata reputazione grazie al gruppo di soltanto quattordici composizioni vocali da camera che da sempre sono nel repertorio concertistico dei più grandi cantanti. E una delle più belle e riuscite è decisamente questa melodia su alcune parti di un altrettanto celebre testo di Baudelaire, “L’invitation au voyage”. La linea vocale galleggia con leggerezza su un movimento quasi perpetuo e ipnotico della parte pianistica che si arresta su un impianto di solidi accordi solo per enunciare il motto “Là tutto non è che ordine, bellezza, calma e voluttà”. L’esecuzione di questo brano da parte del duo Antonacci-Sulzen è risultata monocolore e con delle difficoltà di insieme, mentre sono stati decisamente migliori nella resa del drammatico addio all’estate, come simbolo della fine dell’amore, nell’estratto dal “Poème de l’amour et de la mer” di Ernest Chausson. Questo bellissimo brano, il solo di questo programma nato espressamente con l’accompagnamento d’orchestra e presente nel repertorio anche in questa trascrizione per pianoforte, richiede una vocalità molto omogenea e operistica: la Antonacci ha reso con energia e convinzione sia i passaggi più lirici che quelli drammatici, e  Sulzen l’ha sostenuta bene creando un suono pieno e denso.
Incorniciavano questi brani i due gruppi di epoche diverse tratti dal vasto corpus di melodie composte da Debussy, decisamente più di Wagner il vero protagonista di questo concerto. Il primo gruppo si componeva della versione di Debussy del “Mandoline” di Verlaine (di cui esistono svariate liriche da camera di autori diversi) seguita da tre dei sei titoli che costituiscono la raccolta delle “Ariettes oubliées” su testi dello stesso poeta. Il secondo gruppo era il breve e intenso ciclo del “Promenoir des deux amants” dalle poesie di Tristan l’Hermite, poeta barocco francese. La caratteristica principale del rapporto di Debussy con la poesia è sempre la ricerca e la valorizzazione della musicalità intrinseca dei versi: a parte le primissime melodie di stampo ottocentesco, la creazione melodica di Debussy alterna momenti di grande lirismo ed espansione vocale a declamati sostenuti sul ribattere una nota o su una formula intervallare regolare: da questo binomio nascerà poi la cifra vocale tipica del Pelléas. Il problema, nell’ambito cameristico, è di evitare di trascendere questa delicata alternanza portando l’apparente opposizione tra i due caratteri verso un contrasto nell’impostazione dello stile e del fraseggio. Infatti, quando non si canta una vera e propria melodia, è la poesia (in un ritorno al passato del recitar-cantando) che porge la sua musicalità al suono della voce, in “coro di piccole voci” che dalla natura passano alla poesia e che la musica restituisce sublimate alla natura stessa. Se nel ciclo dell’epoca più tarda sulle dolci e raffinate poesie seicentesche dell’Hermite il duo Antonacci-Sulzen ha dato prova di un grande stile e rigore non disgiunto ad una interessante e delicata qualità del suono, sono rimasto perplesso dal loro approccio del gruppo sui testi di Verlaine. Il primo brano, “Mandoline” risultava paradossalmente pesante, nonostante le numerose richieste in partitura di suono leggero, dolce, “perdendosi”. C’era una bella e dolce atmosfera languida nella prima ariette, e anche il sottile senso di grigiore dello spleen depressivo della seconda: la voce calda del soprano ha reso con maggior efficacia la tessitura grave di “C’est l’extase” trasportato in una tonalità per voce media rispetto alla vocalità molto più sopranile de “Il pleure dans mon coeur” che richiede grande padronanza del suono filato. Anche “Green” aveva qualche suono teso, ma soprattutto non ho trovato appropriata l’interpretazione del duo della frase finale così piena di rubati irregolari e accenti, in cui l’accenno delicato al coté più sensuale di questa poesia in Debussy, così come in Verlaine, non dovrebbe diventare una dichiarazione di intenti così esplicita. Una intrusione del mondo della chanson moderna dentro la costellazione delle ariette dimenticate, chiamate così proprio perché figlie di una tradizione poetica e uno stile musicale che guardano al passato, nonostante tutto. Tuttavia, sentiti Tosti, quel Fauré e soprattutto i bis, ho compreso meglio il percorso di stili complessivo condotto da Anna Caterina Antonacci e le scelte interpretative di entrambi gli artisti: non condivido tutto ma riconosco una loro precisa coerenza.