Bari, Teatro Petruzzelli:”Così fan tutte”

Bari, Teatro Petruzzelli, Stagione Lirica 2013
“COSÌ FAN TUTTE” ossia La scuola degli amanti (K 588)
Dramma giocoso in due atti. Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi ANNA KASYAN
Dorabella ANNA BONITATIBUS
Guglielmo MARIO CASSI
Ferrando  YIJIE SHI
Despina VERONICA CANGEMI
Don Alfonso PAOLO BORDOGNA
Coro e Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Direttore Roberto Abbado
Maestro di coro Franco Sebastiani
Regista Davide Livermore
Scene Santi Centineo
Luci Giusi Giustino
Nuovo allestimento della Fondazione Petruzzelli di Bari
Bari, 6 maggio 2013
Con la nuova produzione del Così fan tutte la Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari conferma l’eccellenza degli allestimenti che ha contrassegnato la difficile stagione del commissariamento. Da anni le scelte registiche di Davide Livermore si sono distinte per un ipertrofismo ludico che ha saputo rinvigorire finanche l’opera seria più paludata (memorabili le gags instillate con divertita impertinenza tra le pagine dell’Achille in Sciro di Sarro ripescato al Festival della Valle d’Itria nel 2007). Nel mettere in scena l’ultimo (e forse più complesso) capitolo della trilogia di Mozart-Da Ponte, Livermore non rinuncia alla consueta esaltazione di una vis attoriale trabordante ma raggiunge una misura e una maturità che ancora latitavano. La provocazione di Sellars e l’esprit de géométrie ronconiano coesistono in questa regia che, nella più solida intesa poetica con le scene di Santi Centineo e i costumi di Giusi Giustino, è capace di attualizzare l’ideologia sottesa al Così fan tutte senza stravolgimenti o forzature. La Napoli illuminista e libertina del 1790 trova il suo equivalente in un transatlantico degli anni ’30 (significativamente denominato “Nave scuola-Fedeltà”) dove una società opulenta e corruttibile si gusta il sole, massaggi e bibite fresche. Sul fondale, in proiezione video e per l’intera durata dell’opera, viene mostrato il mare del golfo di Napoli (immancabili il Vesuvio e i faraglioni) che s’increspa o si placa in sintonia con l’attività psichica dei personaggi. La scenografia – che impiega varie scalinate al fine di garantire dinamismo alla concatenazione tra le scene del dramma – e i costumi rimandano all’Art déco, concedendo un divertito omaggio all’esotismo kitsch del sogno coloniale italiano (declinato nello spirito del Kolossal del Ventennio) durante l’ingresso di Ferrando e Guglielmo travestiti da nobili albanesi. Fez, mantelli leopardati, sventolatori neri e danzatrici procaci alludono all’Albania come pure alla Libia o all’Etiopia, ovvero a un alterità geografica e culturale da fagocitare e divorare. In quest’ambientazione Don Alfonso, dismessi i panni da filosofo educatore, appare come un comandante scanzonato mentre Despina si configura come una disinibita escort incline alla bisessualità: dagli oblò della sua camera si affacciano prima (scena I.10) muscolosi marinai, poi (I.13) fumatrici soddisfatte da poco casti amplessi. Proprio in tale scena vengono disposte in compagnia della servetta coppie di amanti etero e omosessuali sovrapponendo così all’idea di amore ‘borghese’ del 1790 quella odierna più sfaccettata che ancora attende un riconoscimento istituzionale. L’idea di arricchire le gags del libretto con l’apporto di comparse è un tratto precipuo di Livermore che qui declina i travestimenti di Despina (fossili della Commedia dell’Arte) con originalità: il ruolo del finto medico è affidato a un mimo il cui defibrillatore (la calamita mesmerica!) si dimostra letale per un cameriere di passaggio, poi gettato a mare; quello del notaio è diviso tra Despina, che presta la voce, e Alfonso che accovacciato sopra di lei muove il corpo come fosse il pupazzo di un ventriloquo (una scelta che rinsalda la complementarietà dei due personaggi). Non mancano poi spunti di sottile metateatralità come, ad esempio, nell’aria di Ferrando (I.12) Un’aura amorosa, cantata in playback da un vocalist di un’orchestrina da crociera per sottolineare l’estraneità di quel brano dal dramma e la sua natura di mera parentesi lirica. Tra i molti divertissements si staglia la citazione dell’incipit di Spaceballs (1987) di Mel Brooks giocato sulla spropositata lunghezza dell’astronave imperiale; qui a non finire mai è la nave militare, proiettata in video, che attende Ferrando e Guglielmo coscritti, il cui scafo accoglie slogan graffitari (tra cui «Forza Toro» in omaggio alla squadra del regista!). Le continue reinterpretazioni del dettato librettistico talvolta sono gratuite – si veda l’allusione al contraccettivo per i versi di Dorabella “che imbroglio nascer deve con tanta precauzion?” – ma nel complesso funzionano. Si veda come il duetto (II.5) tra Guglielmo e Dorabella diventi un’esplicita seduta amatoria che nell’andare incontro alla nostra concezione di erotismo amplifica i gustosi doppi sensi del testo di Da Ponte. Più invasiva la scelta di modificare, seppur limitatamente alla prossemica, il finale. Ad accettare l’amara ricomposizione delle coppie sono soltanto Ferrando e Dorabella, i due più disposti a relativizzare una concezione kantiana di morale; Guglielmo e Fiordiligi, troppo delusi dal crollo delle loro certezze perbenistiche, non si riconciliano bensì vanno a disporsi da lati opposti creando una simmetria sghemba, un’immagine che rende bene l’ambiguità dell’epilogo, assai poco risolutorio (al pari di quelli del Don Giovanni e delle Nozze).
Ci si è dilungati sugli aspetti registici perché risultano essenziali per comprendere lo stato di grazia che ha toccato l’intero cast, compattato all’insegna di una teatralità divertita e divertente. Partito in sordina nel terzetto d’Introduzione, il tenore Yijie Shi (Ferrando) ha presto recuperato brillantezza, purezza d’emissione, pastosità timbrica, poliedricità espressiva. Doti possedute appieno anche dal baritono Mario Cassi (Guglielmo) potente ma mai sopra le righe, composto nell’azione e sospeso, come esige il suo ruolo di ‘mezzo carattere’, tra triviale e sublime. Anna Kasyan (Fiordiligi) e Anna Bonitatibus (Dorabella) si sono mostrate padrone della pluralità di registri espressivi di cui trabocca la loro parte: ottime nelle arie di coloratura e superbe nel dominio della gestualità. Più che pregevole la Despina di Veronica Cangemi anche se a tratti la mimica e la vocalità sconfinavano in eccessi che sarebbe stato opportuno contenere. Autorevole la prova del basso Paolo Bordogna che ha reso tutta l’ambiguità del personaggio di Alfonso, troppo spesso liquidato come cinico régisseur: nei concertati di fine atto la sua voce diveniva un secondo direttore d’orchestra; nei duetti e nei terzetti manteneva misura ed eleganza senza intralciare le altre linee di canto, segno di una raggiunta maturità vocale e attoriale. Come sempre buono il coro diretto da Franco Sebastiani. La bacchetta di Roberto Abbado ha inteso esaltare con opportune sottolineature ritmiche, dinamiche e agogiche la ricchezza di piani stilistici che contrassegna la partitura mozartiana. La giovane orchestra del Petruzzelli è però parsa piuttosto stanca (a ben ragione visti gli impegni dei mesi scorsi) e ha solo in parte inverato le aspirazioni del suo direttore. Al di là dei passaggi concertanti piuttosto imprecisi, specie nel corno, e dell’eccessiva dilatazione dei tempi lenti si è comunque instaurato un ottimo dialogo tra buca e palcoscenico, a tutto beneficio dei cantanti, la cui naturalezza di recitazione ha reso credibili, realistici, emozionanti sei personaggi stilizzati e astratti. In una parola: il trionfo della pura attorialità. Foto Carlo Cofano