Bologna, Teatro Comunale: “Norma”

Norma (atto II)

Bologna, Teatro Comunale, Stagione Lirica 2013
“NORMA”
Tragedia Lirica in due atti su libretto di Felice Romani, dalla tragedia L’infanticide di Alexandre Soumet
Musica di Vincenzo Bellini
Oroveso SERGEY ARTAMONOV
Norma MARIELLA DEVIA
Pollione AQUILES MACHADO
Adalgisa CARMELA REMIGIO
Flavio GIANLUCA FLORIS
Clotilde ALENA SAUTIER
Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Federico Tiezzi
Scene Pier Paolo Bisleri Sipari e fondali Mario Schifano Costumi Giovanna Buzzi
Luci Gianni Pollini
AllestimentoTeatro Comunale di Bologna in coproduzione con Fondazione Teatro Verdi di Trieste e Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari
Bologna, 21 aprile 2013

Temo che non importi a nessuno, ma prima di ogni altra considerazione è necessario constatare che ancora una volta si è trattato del solito concerto in costume tipico dei teatri d’opera taliani e ribadire, ancora una volta, che il melodramma sarebbe un’altra cosa. Se i direttori artistici credono che questo è ciò che vogliono vedere gli spettatori, potrebbero almeno fare a meno di pagare un regista e lasciare gli attori liberi di improvvisare, con risultati sicuramente più artisticamente ragguardevoli.

Mariella Devia

Questo allestimento di Norma, nato nel 1991 per il Petruzzelli di Bari, andato in fumo insieme al teatro e riportato in vita nel 2008 a Bologna, sembra in buona sostanza uno spettacolo di Pier Luigi Pizzi, cioè una serie di tableaux vivants (o, piuttosto, mourants) privi di qualsivoglia valore teatrale o attenzione alla recitazione, tra colonne neoclassiche, figuranti disposti geometricamente, belle scene e belle luci. Con la differenza che qui le luci erano molto sporche e le scene sostituite da alcuni disegnini estorti a Mario Schifano, che, come avviene quasi sempre in questi casi di pittori coinvolti in scenografie teatrali, riprodotti in formato gigante come fondali sono risultati di pessimo gusto, e ancora di più quando messi a stridere con colonne neoclassiche e sedie stile impero di pizziana memoria. Peraltro, Pizzi almeno non sostiene nel suo curriculum di essere un “esponente di spicco della neoavanguardia” come Federico Tiezzi. (Come pubblicato dal Comunale di Bologna, il curriculum di Tiezzi è decisamente surreale: “Regista, drammaturgo e attore è tra gli esponenti di punta della neoavanguardia. Successivamente [successivamente a che cosa?] affronta una ricerca sul linguaggio drammaturgico da cui scaturiscono spettacoli dichiaratamente aperti a uno sguardo sulla contemporaneità [?], e che segnano, tra il 1978 e il1982, l’affermazione della sua compagnia a livello europeo.”. Come se fosse antani.) In tempi di vacche magre, si può lodare la volontà del Teatro Comunale di Bologna, di recuperare allestimenti anziché porne in scena nuovi (tanto per non fare largo ai giovani), ma in ogni caso questo sarebbe proprio uno spettacolo da sotterrare definitivamente.

Sergey Artamonov (Oroveso) e Coro (Atto I)

Forse il lettore è tra coloro che pensano che “con queste opere di belcanto un regista non può fare niente”. Chi scrive, al contrario, pensa che il soggetto di Norma, la fine di un amore e di una famiglia clandestina collocata all’interno di un conflitto tra il nazionalismo di un popolo occupato e il colonialismo di un esercito occupante, sia ricchissimo di spunti e che la raffinata drammaturgia musicale di Bellini, pur se ingabbiata per lo più dalle forme fisse del melodramma italiano romantico, avanzi lentamente sì, ma inesorabilmente. Da fare ce ne sarebbe.  Fatta questa doverosa premessa, si sa benissimo che nessuno è venuto a vedere questo spettacolo per la regia di Tiezzie che questa sarà ricordata come “la Norma della Devia” (o, c’è ragione di pensare, “la prima Norma della Devia”). Ad ogni replica del primo cast, giovani melomani da ogni parte d’Italia si sono accampati davanti alla biglietteria fin dalla mezzanotte pur di assicurarsi un biglietto di loggione, sfidando gli eccessi delle fan di Justin Bieber. Personalmente, non so bene come valutare questo processo di santificazione che Mariella Devia ha conosciuto in Italia negli ultimi 10 o 15 anni. Priva di un timbro di particolare bellezza o personalità e interprete intelligente sì ma notoriamente algida, quello che la Devia ha sempre potuto vantare è una grande ortodossia tecnica, evidente soprattutto nei suoi fiati prodigiosi. Ma perché questo passaggio da cantante universalmente stimata a icona miracolosa è avvenuto solo in questi ultimi anni, quando la voce ha, per forza di cose, perso un po’ della sua purezza (acquisendo un vibrato non bellissimo, quantunque sempre sorvegliato)?

Carmela Remigio

Forse perché negli ultimi anni ha debuttato ruoli più “drammatici” che aveva sempre evitato in precedenza (Violetta, Maria Stuarda, Anna Bolena e ora Norma) per mantenersi in un repertorio più schiettamente lirico-leggero? Forse i melomani non hanno molto a cuore le sorti di Lucia ed Elvira? Oppure si potrebbe credere che si tratti di un ritorno del gusto ai precetti belcantistici come reazione a certe inortodossie che si sentono frequentemente osannate di questi tempi. Sarebbe bello pensarlo, ma quando ascoltiamo gli adoratori della Devia andare in brodo di giuggiole anche per altre (o altri) cantanti con tutt’altro gusto (e tecnica) dobbiamo accantonare questa ipotesi. Forse incide il fatto che, mentre tante altre colleghe hanno sfasciato la loro voce, la Devia, grazie ad un superiore dominio tecnico, conserva la sua integrità artistica anche all’età di 65 anni (come i suoi fan amano sempre ricordare, in barba alle più consolidate tradizioni di buona educazione). Perché questo dovrebbe dare un maggiore piacere all’ascoltatore (rispetto ad artiste più giovani) però mi sfugge. Sembra un po’ di sentire i fan di Madonna lodarne la forma fisica che le permette a 55 anni di sgambettare come una giovinetta. Forse alcune persone amano avere questi modelli come ispirazione per la loro lotta contro le rughe del contorno occhi. Santa o mortale, non c’è alcun dubbio che Mariella Devia sia un interprete di primissimo piano del repertorio belcantistico. Da decenni i fan la imploravano di affrontare l’iconico ruolo di Norma, ma finora il soprano aveva sempre rimandato, per timore dei velenosi attacchi dei “vedovi” della Callas, della Sutherland, della Caballé, della Gencer. Dobbiamo alla determinazione di Michele Mariotti, che ha saputo assicurarle un supporto orchestrale adeguato e un cast all’altezza, se finalmente la Devia si è concessa questo ruolo temibile.

Mareilla Devia  e Carmela Remigio (atto II)
Mareilla Devia e Carmela Remigio (atto II)

Naturalmente, in mezzo ai cori estatici di fanatismo isterico, le critiche non sono mancate. (Mi sono anzi stupito che nessuno abbia avuto l’infelice idea di titolare qualche recensione “Mariella devia dalla Norma” o simili…) Senza pretendere di dare lezioni a nessuno, approfitto di questa occasione per porgere alla riflessione del lettore alcune considerazioni su come si dovrebbe o non si dovrebbe ascoltare un cantante. È stato scritto che la Devia è un soprano leggero e che quindi non può fare Norma perché Norma non è un soprano leggero, ma un “drammatico d’agilità“. Questo è esattamente il tipo di feticismo che, soprattutto da quando esiste il disco, impedisce molte volte ai melomani di godersi la musica e di esserne giudici attendibili. A parer mio l’ascoltatore, e massimamente il critico, dovrebbe sempre cercare di ricreare quello stato mentale che Husserl chiamava “epoché”, ovvero, nel nostro caso, dimenticarsi dei dischi e aprire le orecchie. Per quanto mi riguarda, io, come in ogni altro caso, mi pongo questa serie di domande: Era intonata (primo parametro per giudicare un cantante)? Assolutamente sì. Ha fatto tutte le note?

Mariella Devia (Norma, atto I)

Tutte (talora, anzi, con fin troppa cautela). Ha cantato con una dizione corretta e comprensibile? Decisamente sì. (La stessa cosa che non si può dire di alcune delle colleghe citate poc’anzi e, a parer mio, la comprensibilità della parola è un elemento assolutamente indispensabile per creare un’emozione nello spettatore. Purtroppo i melomani, che hanno ascoltato le stesso dieci opere centinaia di volte, ormai non sentono più parole, ma fonemi.) Ha cantato con una consapevolezza della stile e con un giusto fraseggio? Certo che sì! E l’impressionante padronanza del fiato le ha permesso di non spezzare nessuna frase che andrebbe legata, come ad esempio le cadenze. Si sentiva? Sì, sempre. Anche nelle note gravi? Anche nelle note gravi. La voce era bella? Nei cantabili la voce, come si diceva, ha perso un po’ di quella freschezza originaria, ma è sempre morbida. C’era omogeneità di timbro (ideale invocato da tutta la trattatistica classica, a dispetto di quel che ne possano scrivere moderni musicologi improvvisatisi foniatri)? Il passaggio al petto (giusto e doveroso) per le note sotto al Fa o al Mi o al Re è sempre stato calcolato con intelligenza in base a motivazioni drammatiche e musicali. Pur tuttavia bisogna confessare che nel caso della Devia (e in questo senso, sì, può essere definita “un leggero”) questo registro, seppure correttamente impiegato, suona innaturale e forzato e, in ultima analisi, spesso troppo poco gradevole anche per essere chiamato ad esprimere sentimenti dichiaratamente sgradevoli. Sia chiaro che questo è un problema del tutto marginale: si sta parlando di quattro o cinque note in una parte molto lunga, quattro o cinque note che avrebbero potuto essere cambiate a maggior gloria dell’interprete e quindi della musica (come indubbiamente sarebbe stato fatto nell’Ottocento), se non ci fosse tutto questo clima di feticismo intorno a partiture così note.

Mariella Devia (atto I)

Similmente, mi sarei aspettato che la Devia eseguisse “Casta Diva” un tono più in alto, come pare che Bellini avesse previsto inizialmente. Infine, ha creato un personaggio credibile e coinvolgente? Alla sua maniera, sì. Norma è un personaggio molto sfaccettato: nel suo ambiente sociale riveste una posizione di grande potere e autorità, ma nel suo privato è una donna molto fragile davanti all’uomo che ama, un uomo che apertamente disprezza la sua cultura e il suo credo religioso e che non si sente minimamente colpevole nell’opprimere il suo popolo. Quando quest’uomo si innamora di una sua amica più giovane, l’equilibrio che aveva saputo mantenere tra il suo ruolo pubblico e la sua realtà privata clandestina si rompe, rischiando di travolgere anche i suoi figli, la sua amica e il suo popolo (spinto ad una guerra per cui probabilmente non è pronto). Un ruolo così estremo si presta alle interpretazioni più diverse.
Mariella Devia sfrutta la sua nota “anaffettività” (sulla scena, s’intende) per suggerire un rovello tutto interiore, per espirmere una donna che cerca innanzi tutto di dominare sé stessa. In quest’ottica anche la studiata cautela nelle agilità delle cabalette (musicalmente discutibile) acquisisce tutto un suo senso psicologico.  È stato scritto che “per  guidare  e  convincere  un’orda  di  barbari  si  supporrebbe  una  autorità [vocale] diversa.” Forse chi l’ha scritto ha più coraggio del sottoscritto. Personalmente, leggera o pesante che sia la sua voce, io non oserei contrariarela signora Devia senza temere di essere incenerito all’istante. E quando il personaggio si rivela in tutto il suo egoismo infantile alla frase “Ed io fidarmi di lei dovea? Di mano uscirmi, e bella del suo dolore, presentarsi all’empio ella tramava”, la Devia sa rivelare una cattiveria scatenata, per poi riguadagnare l’autocontrollo nel finale (“Qual cor tradisti…”).
Merito ancora più grande di Michele Mariotti è di non aver lasciato la Devia primeggiare in mezzo al nulla (come nelle recenti Marie Stuarde viste in giro per l’Italia), ma di averla collocata al centro di un cast coerente ed uniformemente solido. Ridicole sono le pretese del Teatro Comunale di Bologna (avallate da un comico saggio di Giorgio Gualerzi sul programma di sala) di aver riscoperto la “versione originale con due soprani” affidando il ruolo di Adalgisa a Carmela Remigio, quando una delle principali edizioni discografiche affianca in questi due ruoli la Sutherland e la Caballé (per non dire poi della coppia Eaglen-Mei) e quando la stessa Remigio ha già cantato Adalgisa in diverse occasioni (e anche Norma).  In effetti, a prescindere dal fatto che quando donne cantano insieme Adalgisa canti una terza sotto a Norma, ha molto più senso che la giovane ingenua ministra possieda un colore di voce più chiaro rispetto alla scafata e autoritaria druidessa. Ma il punto è che, contrariamente a quanto pensano i melomani disco-dipendenti, in teatro il colore della voce è solo uno dei tanti mezzi per caratterizzare un personaggio. A prescindere dal fatto che la Devia e la Remigio siano entrambi due soprani (e delle due è la Remigio a possedere il timbro più corposo), non si può immaginare contrasto più grande tra il personaggio duro e autodisciplinato (ma capace di esercitare un fascino magnetico) dalla Devia e la ragazza sensuale, sensibile e tenera dipinta dalla più giovane Remigio, tanto nel fisico quanto nella voce. Si comprende perfettamente comemai Pollione tentenni fra queste due donne, che offrono attrattive così diverse. Anche io confesso di avere ammirato di più la veterana di ferro ma amato molto di più la giovane di carne. La voce della Remigio si sposa alla perfezione con quella della Devia nei duetti (“Mira, o Norma” è stato decisamente il punto più alto di questa produzione) e dimostra di possedere tutto il bagaglio necessario a Bellini (messe di voce, agilità, morbidezze, temperamento drammatico…). Senza nulla togliere al suo Mozart, sarebbe bello se i teatri italiani la impiegassero un po’ di più anche in questo repertorio.
Nel ruolo di Pollione, il venezuelano Aquiles Machado ha l’unico inconveniente di essere molto spaventato dagli acuti. Nel cantabile “Meco all’altar di Venere”, in particolare, ha cacciato fuori un Do particolarmente sgradevole. Oso suggerire che se lo avesse eseguito sulla I come scritto da Bellini (“rapiti i sensi”), anziché sulla E invertendo l’ordine delle parole (“di voluttade”), il risultato sarebbe stato molto migliore. La paura della vocale I sugli acuti nei tenori è spesso un chiaro segno di scarsa conoscenza della propria vocalità. Ma i Sol e i La sono sempre correttamente girati e la parte di Pollione, in ogni caso, è molto centrale, quindi, per il resto, la performance di Aquiles Machado è stata apprezzabilissima, per la pronuncia adamantina e per il colore caldo della voce, che ha attirato le simpatie del pubblico per questo personaggio che può sembrare solo un superficiale colonialista e che invece è seriamente tormentato nel suo intimo.
Ha completato il quartetto di solisti il basso russo Sergey Artamonov (Oroveso), dal colore scuro di vero basso (ma potrebbe anche adottare un colore leggermente più chiaro e allontanare per sempre ogni tentazione di “ingolamento” che qua e là fa capolino) e dalla pronuncia inaspettatamente buona. In omaggio al bicentenario della nascita Michele Mariotti ha deciso di sostituire “Ah! Del Tebro al giogo indegno” con l’aria sostitutiva “Norma il predisse, O Druidi” Wwv 52 scritta da Wagner per il grande basso Luigi Lablache (e da lui mai eseguita) a Parigi nel 1839, mostruosamente più difficile dell’originale belliniano.
Si può immaginare che Artamonov non sarà stato molto contento del cambio, ma se l’è cavata egregiamente. Nella recita cui ho assistito, i Fa gravi erano presenti ma non bellissimi (si consideri che tutto il resto del ruolo e anche dell’aria è piuttosto in una tessitura da “basso cantante” che da “basso profondo”) ma il Fa acuto finale è stato davvero bello. Per quanto Wagner l’abbia poi definita come una delle tante umiliazioni a cui sottopose il suo proprio genio nella speranza di ottenere l’attezione del grande pubblico a Parigi, l’aria è in sé di grande interesse e non priva di una sua bellezza, una sorta di curioso pastiche tra lo stile belliniano e alcuni accenni di romanticismo tedesco (Spohr, Marschner). Il programma di sala del teatro non riporta nessuna informazione sull’inserimento dell’aria. Forse è stata una decisione dell’ultimo minuto, forse al Comunale di Bologna non si parlano.
Ritengo perciò utile riportare qui ciò che Wagner stesso raccontò nella sua autobiografia (Mein Leben): “Mi venne l’idea di scrivere una grande aria per basso e coro perché Lablache la introducesse nella sua parte di Oroveso nella Norma di Bellini. Lehrs dovette scovare un rifugiato politico italiano per avere da lui un nuovo testo. Io scrissi una efficace composizione nello stile di Bellini (che ancora è conservata fra i miei manoscritti) e io la andai subito a offrire a Lablache. […] Lablache mi ricevette in maniera molto cortese e mi assicurò che la mia aria era eccellente, ma che era impossibile introdurla nell’opera di Bellini dopo che questa era stata rappresentata così spesso. Il mio scivolamento nello stile di Bellini, del quale mi resi colpevole nello scrivere quest’aria, fu dunque inutile e presto mi convinsi dell’infruttuosità dei miei tentativi in questa direzione.” Efficaci il Flavio di Gianluca Floris e la Clotilde di Alena Sautier.
Michele Mariotti si conferma il direttore ideale per l’opera italiana:
attenzione a non coprire la linea del canto, tempi scorrevoli ma sensibili alle ragioni dell’articolazione e dei respiri sono le primarie sue qualità, ben supportato da un’Orchestra e da un Coro eccellenti. I tagli sono stati pochi e giudiziosi. Si segnala che in questa occasione è stata eseguita la maestosa coda lenta del coro “Guerra! Guerra!” (forse tagliata dallo stesso Bellini e comparsa e scomparsa a intermittenza su spartiti e partiture fin dall’Ottocento: compare ad esempio nello spartito ottocentesco della Peters, ma non in quello Ricordi), il cui materiale musicale è anticipato anche nell’Ouverture. In passato alcuni direttori l’hanno eseguita e altri no. Secondo una breve (e non esaustiva) ricognizione delle registrazioni audio o video facilmente reperibili oltre a Mariotti l’hanno eseguita Serafin, Santini, Gavazzeni (1977) e Bonynge mentre l’hanno tagliata Gui (sempre), Cillario, Gracis, Prêtre, Gavazzeni (1965), Levine (sempre), Muti (sempre), Patanè, Carella, Haider, Pidò, Carminati. La chiusa più brusca del coro attira più applausi e forse mantiene meglio il clima di isteria collettiva generato dalla decisione di Norma di dare la stura alla rabbia antiromana del popolo gallo. Ma l’esecuzione sublime di Mariotti di questo difficile punto ha dato pienamente ragione alla prima idea di Bellini di una raffinata sospensione drammatica, dando vita al momento più autenticamente wagneriano della partitura. Questo splendido allestimento, coerente in ogni suo aspetto musicale (seppure menomato dalla mancanza di una regia teatrale), passerà alla storia come “la Norma della Devia”, ma probabilmente “la Norma di Mariotti” sarebbe una definzione più giusta. P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci
Qui l’audio della recita di “Norma” di questa recensione