Venezia: La “Butterfly” secondo Mariko Mori alla Fenice

Teatro La Fenice di Venezia Stagione lirica e di balletto 2012-2013 nell’ambito del Festival “Lo spirito della musica di Venezia”
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal racconto Madame Butterfly di John L. Long e dalla tragedia giapponese Madame Butterfly di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini 
Cio-Cio-San
AMARILLI NIZZA
F. B. Pinkerton ANDEKA GORROTXATEGUI
Kate Pinkerton JULIE MELLOR
Sharpless VLADIMIR STOYANOV
Suzuki MANUELA CUSTER
Goro NICOLA PAMIO
Zio Bonzo RICCARDO FERRARI
Il principe Yamadori WILLIAM CORRÒ
Yakusidé CIRO PASSILONGO
Il commissario imperiale EMANUELE PEDRINI
L’ufficiale del registro ENZO BORGHETTI
La madre di Cio-Cio-San MISUZU OZAWA
La zia MARTA CODOGNOLA
La cugina
SABRINA MAZZAMUTO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro concertatore e direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Claudio Marino Morettii
Regia Àlex Rigola
Scene e Costumi Mariko Mori
Light designer  Albert Faura
Head design milliner by Kamo
Ballerini Inma Asensio, Elia Lopez Gonzalez, Sau-Ching Wong
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 19 giugno 2013

Dal 21 giugno fino al 24 agosto 2013 si svolgerà nella Città dei Dogi la prima edizione del Festival “Lo spirito della musica di Venezia”, ideato e curato dalla Fondazione Teatro La Fenice in collaborazione con la Regione del Veneto, il Comune di Venezia e la Camera di Commercio di Venezia, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il progetto coinvolgerà solisti, orchestre e gruppi da camera locali e internazionali e promuoverà la valorizzazione dell’enorme tradizione propria della città lagunare, che si è contraddistinta in ogni tempo per il coraggio delle proposte in ambito musicale e scenico, sia in termini produttivi che per quanto riguarda l’inesausta ricerca di novità. All’insegna del nuovo appare anche l’evento d’apertura di questo festival: un’inedita produzione di Madama Butterfly, frutto della collaborazione tra due istituzioni particolarmente prestigiose nel panorama cittadino e internazionale come la Fenice e la Biennale Arte. L’allestimento è stato realizzato con il sostegno del Circolo La Fenice e affidato alle cure del regista Álex Rigola (che per tre anni ha diretto con successo la sezione teatro della Biennale) e del direttore israeliano Omer Meir Wellber (una delle più promettenti bacchette del momento). Nel ruolo, per lei inconsueto, di scenografa e costumista – ed è questa la vera chicca dello spettacolo – troviamo Mariko Mori, attualmente tra le maggiori esponenti giapponesi di Visual Art, dopo essere stata modella ed aver conseguito la laurea in Fashion Design presso il Bunka Fashion College di Tokyo. In questo allestimento l’artista giapponese coniuga le tecniche visuali più moderne – materiali d’avanguardia, strumenti multimediali e tecniche di modellizzazione e stampa 3D, oltre all’originalissimo head design di milliner by Kamo – con la tradizione giapponese.
La sua concezione, cifra distintiva di questa Butterfly, influenza anche la regia, sobria e discreta dal punto di vista gestuale, in linea con l’astrattezza dominante nella scenografia e nei costumi, con lo scopo di non sviare l’attenzione del pubblico dal percorso psicologico, verso una sempre maggiore consapevolezza, compiuto dalla protagonista, che dal suo piccolo mondo di fanciulla appena adolescente semplice di vita e di oggetti  (“Fazzoletti.-La pipa.-Una cintura./-Un piccolo fermaglio./-Uno specchio.-Un ventaglio.”, in questo e poco altro consiste la sua dote) è gettata in una realtà crudele, dominata dall’egoismo arrogante e bugiardo di uno “yankee vagabondo” a rappresentare quello dell’intero colonialismo occidentale. O meglio, nella lettura proposta da Mariko Mori – come vedremo fra un momento – l’egoismo di tutti gli sfruttatori che si annidano in ogni parte del mondo. In questo come in numerosi altri lavori dell’artista nipponica, l’idea-base è la comunanza di valori (e disvalori) tra Oriente e Occidente: sia nella cultura occidentale che in quella orientale, vige la concezione che la vita non ha mai fine, così l’eroina pucciniana, dopo essersi data la morte per sfuggire al disonore secondo il rituale hara-kiri, riappare – nell’ultima delle diverse proiezioni che arricchiscono lo spettacolo –  come stupenda farfalla che spicca il volo. Oltre a ciò, come abbiamo detto, nessuna distinzione tra giapponesi e americani, semmai tra sfruttati e sfruttatori, appartenenti, gli uni e gli altri, alla stessa umanità. E sul piano visivo, nessuna concessione al verismo, nessuna trasposizione in tempi moderni, come troppe volte si è visto, ma unicamente elementi simbolici, e per ciò stesso dal valore universale, per esprimere, tra l’altro, il nesso tra bellezza e natura, sempre stilizzato e lontano anni luce dall’impatto visivo oleografico di gran parte degli allestimenti del capolavoro di Puccini. Assolutamente bianchi i fondali come i sobri costumi, con poche concessioni a delicati colori pastello, a rendere universale la tragedia dell’ingenua Geisha, che comincia in una sorta di giardino Zen, come suggeriscono le tre grosse pietre levigate sulla scena, un luogo per definizione essenziale ed astratto, dove grida vendetta l’edonismo superficiale del tenente Pinkerton. Funzionale all’azione scenica l’uso delle luci ad opera del light designer Albert Faura: diffusamente bianche, esse si colorano delicatamente nei momenti più intimi del dramma come nel duetto d’amore del primo atto o nel celeberrimo coro a bocca chiusa, che il regista ha voluto far cantare in platea con un significativo effetto di spazialità del suono, cui ha contribuito anche la coesione di cui hanno dato prova i coristi.
Protagonista assoluta di questo “dramma giapponese” è stata, com’era prevedibile, Amarilli Nizza, che ha certamente convinto il pubblico, meritandosi in più occasioni scroscianti applausi. Tuttavia, a nostro avviso, il soprano milanese (romano d’adozione) è risultato più convincente nel secondo atto, dove si compie quel processo psicologico, rapido quanto straziante, che da ingenua fanciulla la farà divenire una donna tragicamente consapevole del proprio destino. In effetti, nel primo atto la sua grande voce, increspata da un certo vibrato, non ha saputo rendere appieno il candore, la freschezza d’una Geisha-bambina, anche perché l’artista ha un po’ esagerato nel cantare, come si dice, “spingendo”: così in “Io seguo il mio destino”, cui si addiceva anche un maggiore uso del legato, così nel duetto d’amore (“Butterfly rinnegata…”, “Vogliatemi bene”), dove non si è apprezzata del tutto la contrapposizione – che invece Puccini intende evidenziare –  tra il puro sentimento della vereconda fanciulla e il “subito desìo”, pur travestito di romantico lirismo, dell’ardente Pinkerton.  Decisamente più adatta la sua voce, che si è rivelata duttile ed estesa, a rendere il climax drammatico, che nel secondo atto conduce l’eroina pucciniana dall’ingenua fiducia, al dubbio, alla lacerante scoperta della verità. In “Un bel dì, vedremo” il soprano ha sfoggiato un fraseggio incisivo e una vocalità modellata sulle esigenze della musica e del testo fino ad intonare con rara intensità l’enunciato conclusivo (“l’aspetto”) di questa popolarissima romanza, accompagnata in modo esemplare dall’orchestra, che peraltro si è dimostrata impeccabile in tutta l’opera. Capace di far sentire un’ampia gamma espressiva, Amarilli Nizza nella scena insieme a Sharpless ha interpretato con indimenticabile espressività ed assoluto controllo dei propri mezzi vocali l’incalzare di quel processo psicologico cui poco prima si è fatto cenno (“ Due cose potrei fare” … “Ah!… mi ha scordata?”). Di pari livello tecnico e interpretativo si è dimostrata, del resto, in tutto il declamato drammatico che percorre l’atto fino alla pantomima dei fiori, come nel tragico epilogo.
Tecnicamente all’altezza, grazie ad una voce che non ha difficoltà a salire nel registro acuto, il Pinkerton di Andeka Gorrotxategui non ci ha del tutto convinto sul piano espressivo. Certamente il tenente della Marina Americana non brilla per finezza di sentimenti, rivelando fin da subito la sua mentalità da colonialista senza scrupoli e risultando francamente antipatico, nondimeno nel primo atto la sua parte richiede una spigliatezza, una verve che il tenore basco non ha saputo efficacemente comunicare, soprattutto nelle pagine più impegnative da questo punto di vista (“Dovunque al mondo”, “Amore o grillo”). Analogamente nel duetto ha ricalcato troppo l’indole irruenta e superficiale dello yankee in cerca di avventure erotiche, anziché stemperarla in un seppur manierato lirismo, come, a nostro parere, esigerebbe questa pagina di struggente bellezza.
Giustamente beffardo Nicola Pamio, nel ruolo di Goro, che si presenta in una sorta di tonaca bianca inforcando degli occhiali da sole dal fusto del medesimo colore. Nobile lo Sharpless di Vladimir Stoyanov, di cui si è apprezzato il fraseggio incisivo, oltre alle buone capacità interpretative. Ridicolmente enfatico lo Zio Bonzo offerto dalla voce un po’ malferma di Riccardo Ferrari. Autorevole e ricca di pathos Suzuki (affidata alla voce e al gesto di Manuela Custer) soprattutto nel secondo atto, in particolare nell’iniziale preghiera. Stucchevole come dev’essere il principe Yamadori di William Corrò. Di adeguata professionalità tutti gli altri componenti del cast.
Calibratissima la direzione di Omer Meir Wellber, che ha saputo accompagnare i cantanti facendo cogliere ogni sfumatura anche nei passaggi in cui l’intervento dell’orchestra era imponente. La sua lettura, nitida, ricca di pathos, capace di mettere in valore le sottigliezze della preziosa orchestrazione pucciniana, è risultata di straordinaria efficacia espressiva nell’intermezzo, una straordinaria pagina  strumentale, che traduce in musica la lunga veglia di Butterfly, in apertura della seconda parte del secondo atto. Ma anche l’intensità con cui ha interpretato il commento orchestrale all’angosciosa domanda che nella parte precedente, lacera il cuore dell’infelice fanciulla giapponese (“Ah!… mi ha scordata?”) credo non sarà facilmente dimenticata dagli spettatori. Che hanno applaudito con convinzione, tributando, in particolare, ad Amarilli Nizza una vera e propria ovazione.