“Der Ring des Nibelungen” alla Scala (4.“Götterdämmerung”)

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“DER RING DES NIBELUNGEN”
Sagra scenica in tre giornate e una vigilia
Libretto e musica di Richard Wagner
4.” GÖTTERDÄMMERUNG”
Terza giornata, in un prologo e tre atti
Siegfried  ANDREAS SCHAGER
Gunther  GERD GROCHOWSKI
Alberich  JOHANNES MARTIN KRÄNZLE
Hagen  MIKHAIL PETRENKO
Brünnhilde  IRÉNE THEORIN
Gutrune, Die dritte Norn  ANNA SAMUIL
Waltraute, Die zweite Norn  MARINA PRUDENSKAYA
Die erste Norn  MARGARITA NEKRASOVA
Woglinde  AGA MIKOLAJ
Wellgunde  MARIA GORTSEVSKAYA
Flosshilde  ANNA LAPROVSKAJA
Danzatori della compagnia di balletto Eastman (Antwerpen)
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia e scene Guy Cassiers
Scene e luci Enrico Bagnoli
Costumi Tim Van Steenbergen
Video Arjen Klerkx, Kurt d’Haeseleer
Coreografia Sidi Larbi Cherkaoui
In coproduzione con Staatsoper Unter den Linden, Berlino
In collaborazione con Toneelhuis (Antwerpen)
Milano, 29 giugno 2013

La musica della fine
A distanza di pochi giorni la produzione della Götterdämmerung va in scena alla Scala, prima quale titolo che completa il Ring iniziato nel 2010, e poi nei due cicli completi della Tetralogia. Ma tra le esecuzioni (sei recite a fine di maggio e primi giorni di giugno; due nelle settimane dedicate al Ring completo, il 22 e il 29 giugno) sono alcune differenze importanti: a maggio Daniel Barenboim non aveva potuto dirigere le prime tre rappresentazioni (e neppure sovraintendere alle prove e alla concertazione; era stato sostituito da Karl-Heinz Steffens); mutano poi due interpreti importanti nella compagnia di canto: il protagonista, Siegfried, a maggio Lance Ryan, ora Andreas Schager, e Waltraute, a maggio Waltraud Meier, ora Marina Prudenskaya.
Grazie alla peculiare impostazione musicale di alcuni momenti, come già accaduto nelle precedenti giornate, è possibile cogliere il taglio interpretativo che Barenboim ha conferito a questo Ring, allestito registicamente da Guy Cassiers. Per esempio, alla fine del prologo, prima dell’enfatico attacco di Brünnhilde, l’orchestra si abbandona a un empito sonoro in corrispondenza di una leggera accelerazione del tempo: l’accorgimento potrebbe essere inteso quale celebrazione eroica, e invece si tratta di esaltazione dell’amore dei due personaggi (e dei rispettivi Leitmotive, naturalmente). Altro stringendo ritmico al termine del duetto tra Siegfried e Brünnhilde, allorché il direttore fa rullare i timpani che preludono alla Rheinfahrt dell’eroe; e nel corso del viaggio sul Reno l’agogica direttoriale diventa quasi frenetica, tanto da stupire l’ascoltatore per la sua bellezza e plausibilità. Percussioni e archi sono in simbiosi perfetta; il triangolo canta addirittura, e le arpe s’impongono all’attenzione ancor più degli ottoni (quelle sei arpe che sin dalla vigilia di Rheingold accompagnano la memoria dell’ascoltatore, soprattutto con gli accordi del canto doloroso delle figlie del Reno). Ritorna anche quella “fedeltà nibelungica” di cui si è detto per il Siegfried: nel meraviglioso duetto tra Alberich e Hagen Barenboim rende in modo chiarissimo, quasi didascalico, la ripresa dei temi musicali del primo nel canto del secondo; ed è infatti doverosa attenzione, poiché la trama che conduce all’epilogo tragico è ordita dai due antagonisti (padre e figlio, capaci di presentarsi come il parallelo della coppia Wotan-Siegfried). Più che la narrazione, procede la rivelazione nel duetto tra Brünnhilde e Waltraute, altro tentativo di persuasione finalizzata a evitare il destino rovinoso; il direttore, ben consapevole dell’importanza di tale duetto per la caratterizzazione del personaggio di Brünnhilde, divenuto “troppo umano”, raggiunge il vertice dell’introspezione grazie a un suono orchestrale di mirabile trasparenza e calligrafia. Con tutt’altra funzione – ma con eguale esito artistico – Barenboim concerta la grandiosa scena nuziale del II atto, dove è l’unica comparsa del coro maschile in tutta la Tetralogia; al solito, però, non si tratta di esaltazione nazionalistica ed eroica, ma di gioia un po’ greve di popolani che festeggiano il matrimonio dei loro principi. Il III atto è poi il momento delle inattese sorprese ritmiche: come se fosse in debito di tempo, a causa delle precedenti distensioni, Barenboim sorprende gli ascoltatori con ritmi piuttosto sostenuti, con una serie di abbrivi e impennate che presagiscono l’inesorabilità della fine (nuovamente, come già detto in Walküre, motus in fine velocior: un broccardo medioevale che si adatta perfettamente alle necessità drammatiche).
Nelle dinamiche interne alla Götterdämmerung il direttore accentua una tecnica sperimentata in Walküre e ripresa in Siegfried: staccare tempi rilassati nelle grandi scene di canto solistico e di “conversazione canora” tra i personaggi, e stringerli invece negli snodi strumentali, e nelle sezioni sinfoniche copiosamente presenti nella Terza giornata (il trapasso dal prologo delle Norne alla rupe di Brünnhilde, il viaggio di Siegfried sul Reno, la marcia funebre dell’eroe, per non citare che i più estesi). Il primo accorgimento è funzionale alla qualità esecutiva, perché permette ai cantanti una respirazione naturale e non affannosa; il secondo sortisce sicuro effetto drammatico, perché incalza il susseguirsi degli eventi di scena in scena (non da ultimo, nella concezione musicale di Barenboim l’accelerazione delle sezioni sinfoniche sottrae quell’impressione celebrativa, solenne e magniloquente che per troppi decenni ha caratterizzato la percezione della musica di Wagner in generale, e del Ring in particolare).
Compagnia e orchestra
Corre l’obbligo di render conto della prestazione di Andreas Schager, tenore dalla voce brunita, che in certi colori ricorda Jonas Kaufmann, anche se con meno armonici. Molto bravo sul piano attoriale, Schager è uno di quei cantanti così spigliati sulla scena da entrare subito in empatia con il pubblico, sebbene non abbia una ‘personalità vocale’ marcata: l’emissione non è di per sé né eroica né carezzevole, ma è corretta; Ryan – il cui paragone è inevitabile, visto che ha interpretato lo stesso ruolo pochi giorni prima – ha più squillo e più volume, ma Schager è decisamente più plausibile quanto a ‘fisionomia vocale’: non risulta mai ridicolo o farsesco; il camuffamento della voce quando indossa i panni di Gunther è convincente; buono il do di risposta al saluto dei Ghibicunghi nel III atto, e assai espressivo il racconto finale prima dell’uccisione (a differenza di Ryan, Schager non tenta di imitare i gorgheggi flautati dell’uccellino; ed è molto meglio così). Marina Prudenskaya è sia Waltraute sia la seconda Norna: voce abbastanza potente e sicura nelle note di passaggio, anche se si stimbra appena in quelle acute; ottima tecnica e registro omogeneo; il timbro ricorda quello di Anna Larsson (Erda in questa edizione), ma l’emissione è molto più corretta. I soli difetti derivano da alcuni suoni fissi in attacco (che nella parte della Norna si percepiscono molto meno), e dalla poca musicalità (in questo Waltraud Meier era insuperabile). Per il resto della compagnia (così come per le soluzioni registiche) si conferma quanto già annotato nella recensione di maggio, con alcune peculiarità: il Gunther di Gerd Grochowski è ancora più elegante, nonostante una certa difficoltà nell’affrontare gli acuti, un po’ forzati e secchi. Mikhail Petrenko è un ottimo Hagen, anche se rivela i segni della stanchezza (in quanto interprete anche di Hunding in Walküre: per questo nel III atto rientra in scena senza l’abituale eleganza). Altresì stanca – e comprensibilmente – è Iréne Theorin, costretta a forzare più del solito nelle note alte; ma la sua Brünnhilde resta comunque molto convincente, e procede in crescendo fino all’olocausto finale: all’enfasi eroica si sostituisce piuttosto il Lied doloroso, e infatti la sezione che comincia dalla frase «Ruhe, Ruhe, du Gott!» (Pace ora, pace, o dio!) risuona indimenticabile.
Il pubblico
Una notazione sull’interazione tra artisti e pubblico è necessaria in ogni recensione musicale; lo è tanto più al termine di un ciclo impegnativo e complesso come il Ring. È presumibile che, trattandosi di rappresentazioni fuori abbonamento rispetto al cartellone della stagione scaligera, e in più collegate tra loro, in modo da rendere sensata la fruizione di tutti e quattro i drammi, il pubblico fosse costituito di appassionati wagneriani (e per più del 40 % stranieri). Ogni serata il direttore d’orchestra è accolto da un applauso particolarmente sentito: è come un ringraziamento per aver riportato alla Scala L’anello del nibelungo in esecuzione continuata. Al termine del Rheingold l’approvazione è totale e prolungata, ma si percepisce che gli spettatori non sono ancora entrati appieno nel meccanismo della Tetralogia (e poi va ricordato che, per le sue forme inusitate, la vigilia del Ring è quanto di più lontano possa esistere rispetto a un melodramma italiano; tanto più giustificato, dunque, il senso di smarrimento di molti spettatori). L’atmosfera diventa molto più coinvolgente ed entusiastica al termine del I atto di Walküre, perfettamente riuscito sotto ogni profilo; e prima del II atto della stessa opera, quando Barenboim ritorna sul podio, il pubblico gli tributa una grande, appassionata ovazione. Nei finali I e II di Siegfried gli applausi sono prolungati e convinti, ma si unisce qualche isolata contestazione (molto probabilmente all’indirizzo del tenore protagonista), al punto da far temere dell’esito complessivo; al contrario, alla fine del III atto il teatro si produce soltanto in apprezzamenti e grida di ammirazione. Con Il crepuscolo degli dèi, da ultimo, si raggiunge l’apoteosi: a ogni ingresso Barenboim è clamorosamente festeggiato, e alla fine, dopo un lunghissimo applauso per figuranti, coro e cantanti, l’intera platea si alza in piedi commossa per onorare il direttore d’orchestra.
Conclusione del Ring
Chi ha avuto la pazienza di leggere le quattro puntate della cronaca del Ring scaligero si sarà certamente accorto della centralità del ruolo di Barenboim; ed è ovvio, essendo egli il maestro concertatore e direttore d’orchestra. Meno ovvia è invece la simbiosi tra direzione e regia di Cassiers, che si profila meglio soltanto al termine del ciclo, non soltanto per l’impostazione del tutto anti-eroica e anti-retorica (di per sé non una novità), ma anche per la visione critica della civiltà tecnologica ed elettronica dell’uomo postmoderno. Offrono tale prospettiva, tutt’altro che lieta, sia il regista (con il suo gruppo di geniali collaboratori) sia il direttore d’orchestra; la lettura di Barenboim è infatti un’ininterrotta disamina del tessuto orchestrale e della trama di cui il suono si compone. Senza mai frammentare l’eterna melodia wagneriana, il direttore ne mette a nudo la testura, la grana microscopica, esattamente come accade nella ricerca della fisica atomica o nell’ingrandimento dei pixel di uno schermo video: appunto, un disvelamento della “tecnologia musicale” coniata da Wagner, sulla scorta dei vari Motive, delle loro famiglie, della loro qualità positiva o nefasta.
Il presupposto forse più significativo che direttore e regista condividono, per concludere, è che l’arte musicale e teatrale wagneriana possa indurre gli spettatori a modificare la loro azione nei confronti del mondo, o quanto meno a riflettere su tale possibilità; l’allestimento di Cassiers si propone di rivelare il valore pragmatico del Ring: questa saga non si limiterebbe a esprimere, ma spingerebbe ad agire o a modificare l’azione. E il trait d’union tra linguaggio musicale e narrazione drammatica consisterebbe proprio nell’elemento artistico-simbolico comune ai quattro allestimenti: il bassorilievo delle Passions humaines di Jef Lambeaux, imposto all’osservazione degli spettatori negli ultimi istanti della Götterdämmerung. Il pubblico si concentra sulla frontalità luminosa dell’opera d’arte, ed essa, «a sua volta, ci guarda, con un semplice messaggio: voi siete così, ma dovete cambiare la vostra vita» (come scrive Erwin Jans a conclusione del suo saggio nel programma di sala, Into the Twilight Zone). L’arte è (o dovrebbe essere) il bene più importante in una società moderna e democratica; il Gesamtkunstwerk wagneriano, “l’opera d’arte totale”, dovrebbe esserlo a maggior ragione, a tutela della libertà di ogni uomo. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala