Né ballo né maschere per Verdi alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti, libretto di Antonio Somma
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo  MARCELO ÁLVAREZ
Renato  ZELJKO LUCIC
Amelia  SONDRA RADVANOVSKY
Ulrica  MARIANNE CORNETTI
Oscar  SERENA GAMBERONI
Silvano  ALESSIO ARDUINI
Samuel  FERNANDO RADO
Tom  SIMON LIM
Un giudice  ANDRZEJ GLOWIENKA
Un servo d’Amelia  GIUSEPPE BELLANCA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Nuova produzione del Teatro alla Scala, in collaborazione con il Teatro Comunale di Bologna
Milano, 22 luglio 2013
Un ballo in maschera
mancava sul palcoscenico scaligero dal precedente anno verdiano, allorché fu diretto da Riccardo Muti nel maggio 2001, in uno spettacolo affidato a Liliana Cavani. A dodici anni di distanza quell’allestimento, molto tradizionale e tutto sommato prevedibile, non si fa certo rimpiangere, ma fa risaltare ancor più la differenza stridente con la nuova produzione, curata da Damiano Michieletto, che cerca invece di svecchiare l’opera (obbiettivo importante e condivisibile) senza però un’idea unitaria, che crei coesione tra tutti i personaggi; il regista, in altri termini, tenta di attualizzare sulla base di un’argomentazione forte (per Riccardo e per Renato, è intenderli rispettivamente come uno scalpitante candidato politico e il suo fido bodyguard); non sempre, però, tale argomentazione si trova, e allora Michieletto si accontenta del puro gusto di attualizzare (e magari anche di stupire e di divertire).
Occorre comunque iniziare dal comparto musicale, e dalla prova di orchestra e direttore; per Daniele Rustioni vale quanto già annotato in merito alla seconda compagnia: la direzione è accurata, la concertazione molto precisa, tesa a valorizzare contrasti, colori, ritmi. È stato rimproverato al direttore di concedere troppa libertà alle esigenze dei cantanti; forse è vero, in particolare per i tempi un po’ dilatati della parte tenorile, ma va anche detto che tali concessioni sono risolte in modo intelligente e funzionale alla drammaturgia.
Il quintetto vocale dei personaggi principali è del tutto nuovo rispetto a quelli già recensiti, e si rivela nel complesso molto interessante, ma con una particolarità curiosa: i quattro personaggi principali forniscono una prova “in crescendo”, raggiungendo il meglio delle loro possibilità vocali ed espressive soltanto nell’ultimo atto, come se in precedenza desiderassero risparmiare le forze per il momento conclusivo. In effetti, le migliori esecuzioni della serata sono concentrate proprio nel III atto, dal cantabile di Amelia «Morrò, ma prima in grazia» alla cabaletta di Renato «Eri tu che macchiavi quell’anima», dalla stretta di Oscar «Di che fulgor, che musiche» alla romanza «Ma se m’è forza perderti» di Riccardo. In un’analisi a tutto campo va dunque precisato che Marcelo Álvarez è un Riccardo assai convincente sul piano scenico, mentre su quello vocale qualche perplessità è adombrata sin dall’esordio: il cantante pare a corto di fiati, con un’emissione a tratti affaticata e con acuti forzati (il tutto ricorda la prestazione in Andrea Chénier al Teatro Regio di Torino lo scorso gennaio). Anche nel cantabile del secondo quadro del I atto, «Di’ tu se fedele il flutto m’aspetta», gli irti intervalli sulle parole «irati sfidar» e «le forze del cor» sono motivo di defaillance, a causa della estrema debolezza delle note basse; ed è un peccato, nell’ambito della recitazione e dell’attenzione alla “parola scenica” verdiana, che l’espressione antica “saper grado” («Se sul campo d’onor, ti so grado», esclama Riccardo a Ulrica) sia banalizzata in “ti son grato” (come per lo più si sente; ma Piero Pretti aveva pronunciato secondo la giusta lezione). Álvarez canta molto bene nel duetto d’amore del II atto, fa di tutto per essere appassionato ed elegante, anche se con tempi un po’ rallentati, e sfoggia alcune mezze voci molto apprezzabili; il pubblico, in effetti, inizia ad apprezzarlo soltanto nella seconda metà dell’opera, e con maggiore entusiasmo nel III atto.
Sondra Radvanovsky nel ruolo di Amelia si presenta in evidente difficoltà: nell’antro di Ulrica attacca con voce stridula e con intonazione malferma, nel terzetto risulta assertiva e dura anziché speranzosa e innamorata, come dovrebbe; a parte una leggera inflessione di gola, la voce accusa poi qualche oscillazione, e gli acuti risultano aperti. Nella grande scena che apre il II atto le note di passaggio sono interessate da un’emissione disomogenea, che crea come uno spiacevole effetto di eco, e compromette la stabilità degli acuti («Mezzanotte! Ah, che veggio? Una testa») e della messa di voce («Miserere d’un povero cor»), al punto che parte del pubblico tradisce un certo nervosismo, poi stemperato in un applauso di circostanza alla fine della scena. A partire dal duetto, tutto torna fortunosamente all’ordine, e si ha modo di apprezzare il bellissimo timbro vocale della Radvanovsky, gli splendidi colori delle note centrali e le indubbie doti attoriali; anche per lei, grandi apprezzamenti dopo l’aria della disperazione materna dell’ultimo atto, e poi dopo il duetto finale. Zeljko Lucic attacca «Alla vita che t’arride» con pochi armonici e con qualche incertezza nell’intonazione, ma migliora sensibilmente nel finale del II atto, e soprattutto nel III, cantando molto bene il recitativo che precede «Eri tu che macchiavi quell’anima», e poi tutta la cabaletta, con intensità e correttezza (anche se con qualche acuto un po’ aperto). Molto bene riesce altresì la stretta dei tre congiurati «Dunque l’onta di tutti sol una», grazie alla puntatura dello stesso Lucic e agli ottimi bassi Fernando Rado e Simon Lim.
Serena Gamberoni è Oscar per eccellenza: ha perfettamente interiorizzato la gaiezza e al tempo stesso l’innocente ambiguità del paggio, anche se nel I atto la sua voce non risuona brillante come di solito. Offre comunque il meglio di sé nel concertato del secondo quadro «È scherzo od è follia», in cui si innervano le sue agilità e i suoi acuti, fino a riuscire insuperabile nei due momenti del III atto, sempre in mezzo ai congiurati. Anche Ulrica è affidata a una cantante specialista del personaggio come Marianne Cornetti, buona voce di contralto, che finalmente permette di ascoltare tutte le note della maga. Molto apprezzabile la resa del punto critico «Silenzio, silenzio!», anche se talvolta la voce è soggetta a oscillazioni. Sempre impeccabile Alessio Arduini in Silvano, e perfetto il coro scaligero preparato da Bruno Casoni, tanto corretto nel canto quanto spontaneo nei frequenti movimenti scenici imposti dalla regia.
Nel resoconto di uno spettacolo musicale distinguere in modo ferreo tra componenti sonore e componenti visive sarebbe certamente un errore, ma a volte l’analisi separata è utile a capire meglio, soprattutto quando il rapporto tra drammaturgia musicale e allestimento scenico sia parziale, oppure discontinuo. Nella precedente cronaca mancavano le note su II e III atto per quanto concerne la parte visiva. La rappresentazione dell’orrido campo come squallida strada frequentata da prostitute in abito volgarissimo e in litigio fra loro non è una novità assoluta (a qualcosa del genere aveva già pensato Pier Luigi Pizzi per il Ballo in maschera allo Sferisterio di Macerata nell’estate del 2011); ma perché inscenare un tale degrado sulle battute del preludio, visto che la musica non esprime affatto la degradazione? Il regista ha inteso il II atto come il più greve: gli fanno da cornice la gazzarra delle prostitue, all’inizio, e l’irridente sfottò dei congiurati, alla fine, quando si divertono a simulare l’amplesso tra i coniugi sul cofano dell’automobile di Riccardo (il conte raggiunge infatti Amelia con una fiammante BMW). Al di là di un giudizio soggettivo di tali scelte (volgarità? provocazione?), il vero difetto è un altro, perché la presenza musicale al centro del II atto dell’opera è il luminoso duetto d’amore tra soprano e tenore. Michieletto non fa proprio nulla per valorizzarlo, come se quel momento non gli interessasse. Ed ecco l’errore imperdonabile: considerare l’inibito ardore amoroso dei due protagonisti come non bisognoso di alcuna riflessione registica, fatta eccezione per la più convenzionale gestualità.
La casa di Renato e l’interno privato di Riccardo sono resi dalla stessa scena iniziale del I atto, ossia la sala-stampa/segreteria di partito/quartier generale della campagna elettorale del protagonista; ed ecco una scelta registica funzionante, coerente, molto curata nei dettagli “famigliari” di Amelia e del suo bambino, vezzeggiato prima da una giovane tata e poi da Oscar che gonfia per lui palloncini colorati (invito al «ballo in maschera / splendidissimo!»). Le insegne luminose al neon costituiscono un segnale riconoscibile negli spettacoli di Michieletto, e compaiono prepotenti nella scena conclusiva, illuminando un contesto assai strano, poiché tutto è statico, immobile, ogni corista è nascosto dietro una sagoma elettorale di Riccardo, e non è alcuna maschera (evidentemente la sagoma – rivolta al pubblico dal lato bianco, spettrale, anonimo – sostituisce l’elemento carnevalesco). A questo punto, che Renato minacci scopertamente Oscar con una pistola per estorcergli informazioni su Riccardo, è nuovamente grottesco, così come il doppio del protagonista nelle ultime battute, dopo che Renato lo ha colpito a morte.
Il pubblico scaligero della penultima recita risponde comunque in modo molto positivo: alla freddezza nel corso dei primi due atti, succede al termine della rappresentazione un consenso pieno, unanime, convinto; i cantanti escono uno per volta a sipario ormai chiuso, e gli spettatori li acclamano tutti quanti. Qual è, infine, il giudizio conclusivo su questo Ballo in maschera? Lo spettacolo di Michieletto è davvero così dissacrante e disturbante come le grida scandalistiche dopo la première hanno perentoriamente decretato? Tutto sommato, l’idea che Riccardo sia un uomo politico alla continua ricerca del consenso popolare, soprattutto con i mezzucci che i mass media oggi consentono, non è così lontana da almeno un aspetto del personaggio; che Renato sia il suo fedele bodyguard, è ancora più plausibile; che invece Ulrica sia una guaritrice televisiva, è semplicemente ridicolo. Ma tutto quanto fa i conti con un atteggiamento pregiudiziale di Michieletto nei confronti del melodramma: il regista è fermamente convinto – e lo dimostra in ogni suo spettacolo – che la riproposizione di una sceneggiatura ottocentesca possa vivere nel teatro di oggi soltanto se sottoposta a una rilettura “divertente”. Questa idea, sempre ribadita, comporta sul piano scenico un rischio, e non tenerne conto è il vero, grande e costante errore di Michieletto; se il titolo è comico, infatti, non fa male che alla giocosità si aggiunga altro divertimento. Ma che le varie scene e i drammi intimi e contorti di Un ballo in maschera debbano riuscire “divertenti”, è conclusione un po’ riduttiva. Un regista davvero intelligente, prima o poi, deve prendere atto che la vitalità del teatro non consiste soltanto nel divertimento; il pubblico, dal canto suo, può apprezzare il quadro visivo di uno spettacolo, e ritenerlo adeguato, pertinente, moderno, proprio in quanto “divertente” (anche nel senso etimologico di de-vertere, ossia spostare in altra direzione il messaggio del testo di partenza). Ma l’appagamento estetico deve per forza sostituire una risoluzione bene argomentata dei problemi drammatici? Se così fosse, mettere in scena melodrammi nel XXI secolo sarebbe una pratica di trasposizione e di travestimenti, tanto ingegnosa quanto parziale.