Omaggio verdiano a Pesaro con Marina Rebeka

Pesaro, Rossini Opera Festival, XXXIV Edizione, Teatro Rossini, Concerti di belcanto 
«D’amor sull’ali rosee». Omaggio a Verdi
Orchestra Sinfonica “G.Rossini”
Direttore, Daniele Agiman
Soprano, Marina Rebeka  
Giuseppe Verdi: Sinfonia da Oberto, conte di San Bonifacio; «Gualtier Maldè … Caro nome che al mio cor» (da Rigoletto); Preludio da I Masnadieri; «Tu del mio Carlo al seno» (da I Masnadieri); Preludio da Il Corsaro; «Egli non riede ancora … Non so le tetre immagini» (da Il Corsaro); Sinfonia da Giovanna d’Arco; «È strano! è strano! … Sempre libera degg’io» (da La Traviata).
Pesaro, 19 agosto 2013

Che il Rossini Opera Festival abbia deciso di ritagliare all’interno del proprio calendario un momento di omaggio a Verdi, in occasione del bicentenario della nascita, è certamente un arricchimento per il programma, e un’occasione per far risuonare le armonie verdiane all’interno del bellissimo Teatro Rossini. Anche la confezione di tale omaggio segue una modalità interessante, non puramente vocale, in quanto alterna una pagina sinfonica (scelta tra le meno eseguite dal catalogo) e un’aria solistica per soprano.
Protagonista del versante strumentale è Daniele Agiman con l’Orchestra “G. Rossini”, la formazione nata a Pesaro, che collabora con il ROF sin dal 2001, e di cui lo stesso Agiman è ora direttore principale. Protagonista del versante vocale è invece il soprano lettone Marina Rebeka, impegnata in questa edizione del festival nel ruolo di Mathilde del Guillaume Tell. Fa il suo ingresso a concerto in elegante abito nero e lungo, trapuntato di grandi paillettes dorate dalle maliose iridescenze, e stretto in vita da un cinto dello stesso tessuto: toilette de soirée senza dubbio (sebbene siano le 16.30 del pomeriggio).
Il concerto si svolge senza intervalli, e scorre rapidamente di ouverture in aria. Agiman valorizza gli archi della sua compagine, sia nell’Oberto sia nel tremulo di violini e viole che apre la Giovanna d’Arco; il piglio direttoriale è deciso, adatto ad affrontare la plasticità sinfonica anche di gusto bandistico, tipica del primo Verdi (peccato, dunque, che le trombe siano leggermente disallineate nell’enunciazione del tema dell’Oberto). Apprezzabili anche i momenti in cui uno strumento emerge sugli altri (come il violoncello nei Masnadieri, che sostiene abbastanza bene suono e melodia dell’assolo) e le rispondenze interne all’orchestra (come quella tra flauto, clarinetto e oboe nella Giovanna d’Arco; l’ottima mimesi dei toni corruschi e temporaleschi rende questa pagina la più emozionante dell’intero concerto).
Marina Rebeka sembra affrontare le quattro pagine in programma senza un preciso intendimento interpretativo, e forse senza neppure particolare approfondimento dei vari stili. Gilda, Amalia, Medora, Violetta: non si potrebbe pensare a un quartetto di eroine verdiane più disparato, sia sul piano letterario sia su quello vocale; e dunque sarebbe sufficiente giocare sulla differenziazione dei tratti espressivi per sortire un risultato apprezzabile, ossia per presentare un campionario di personaggi femminili ben ritagliati. La Rebeka non coglie affatto questo o altri spunti analoghi, e preferisce adattare alla sua voce senza troppo impegno i vari ruoli, che finiscono così per assomigliarsi tutti tra di loro. A partire da Rigoletto, le sillabe di «Caro nome che il mio cor» sono spezzate, interrotte da un fiato che sembra quasi ansimante (ad avvio di concerto!), e che denota in realtà un difetto di respirazione (percepibile soprattutto in corrispondenza dello staccato). La voce in maschera risulta abbastanza gradevole, ma impostata troppo “in avanti”, e così ogni acuto risuona sempre puntuto e secco, privo di armonici. Nessuna sfumatura caratterizza l’emissione, tranne un tentativo di smorzatura del fiato nel finale.
Rispetto alla desolazione del Rigoletto, l’emissione si presenta più omogenea nella scena dei Masnadieri, e per un semplice motivo: sin dal recitativo, la scrittura verdiana per Amalia è caratterizzata dal legato, in cui la Rebeka si trova più a suo agio, e per cui respira più facilmente. Nel complesso, però, la qualità vocale resta problematica, perché quando aumenta il volume sonoro il timbro si sfalsa, diventando intubato (riprova di un difetto nella pressione diaframmatica). Nella cabaletta «Carlo vive? O caro accento», che segue la romanza (e che sarebbe stato più giudizioso omettere), ritornano le incertezze di sillabazione e se ne affacciano altre d’intonazione (non clamorose, ma sicuramente percepibili nei passaggi di agilità); a realizzare la cadenza è poi una voce completamente secca e dal timbro opacizzato.
La scena dal Corsaro è senza dubbio la meglio eseguita (ed è curioso che tale numero sia annunciato soltanto poco prima dell’inizio del concerto a sostituzione dell’originariamente prevista aria di Elena, «Mercè, dilette amiche», dai Vespri siciliani). Per la prima volta si coglie qualche sforzo di intensità nel recitativo accompagnato dall’arpa (nuovamente protagonista, come già nell’aria dai Masnadieri). Nelle frasi struggenti di «Non so le tetre immagini» c’è la disperazione del personaggio, ma manca del tutto il porgere carezzevole che deve caratterizzare la pagina: e poi, negli abbellimenti, la solita frettolosa superficialità fa sfumare un risultato che avrebbe potuto essere davvero più soddisfacente.
Il recitativo di Traviata è invece aggredito con sonorità troppo forti da parte del soprano: le parole sono quasi gridate, eppure risuonano per lo più incomprensibili (la Rebeka canta il brano a memoria, a differenza dei precedenti; con lo spartito di fronte la lettura testuale era più attenta). Un altro briciolo di espressività connota la sezione «Follie! follie!», mentre le agilità ascendenti che seguono riescono correttamente soltanto in parte, perché gli acuti sono aperti (come le vocali del nesso «sempre libera», esageratamente dilatate nell’ultima ripresa). S’incrina l’intonazione – come al solito – nei gruppetti discendenti, e tendono al grido le puntature conclusive (mentre dal fondo dell’orchestra un giovane tenore, del cui nome non è traccia in programma, completa garbatamente la parte di Alfredo); fortunatamente, nessun azzardo di sovracuto in clausola.
Il programma si chiude tra calorosi applausi del pubblico del Teatro Rossini (invero non gremito). Ma l’usuale sorpresa del bis si tramuta in una caduta di stile, allorché il direttore attacca l’enfatica, bellissima introduzione dell’aria dai Vespri siciliani, già prevista all’interno del programma, poi cassata, ora recuperata come unico brano hors d’oeuvre. In «Mercè, dilette amiche» la voce appare impostata bene, favorita di nuovo dalle frasi legate; senza un minimo di fraseggio e di applicazione espressiva, però, l’esito è sempre generico, e perfino nella cadenza finale la mancanza di finezza e di diligenza trasforma lo scintillio di Verdi in una girandola operettistica di second’ordine. Gli applausi sono prolungati e unanimi, per festeggiare l’orchestra, il direttore, il soprano. L’unico che sul piano vocale non è festeggiato come meriterebbe è proprio Verdi. Foto Studio Amati & Bacciardi