Verona, Teatro Fialarmonico: “E alla fine arriva Wagner”

Verona, Teatro Filarmonico, XXII edizione del Settembre dell’Accademia 2013
Orchestra Filarmonica di Praga
Direttore Jiří Bělohlávek
Soprano Annalena Persson
Richard Wagner: Addio di Wotan e incantesimo del fuoco (La Walkiria); Marcia funebre di Sigfrido (Il crepuscolo degli dei); Preludio e morte di Isotta (Tristano e Isotta).
Ludwig van Beethoven: Sinfonia nr.7 in la maggiore op.92
Verona, 14 settembre 2013

Prosegue la rassegna del “Settembre dell’Accademia” di Verona, il “colpo di coda” sinfonico di una stagione areniana quasi interamente dedicata alla celebrazione del glorioso bicentenario dalla nascita di Giuseppe Verdi. Ma nel 1813 il nostro Maestro non era il solo genio musicale europeo a muovere, letteralmente, i suoi primi passi. Frau Johanna Rosine Wagner aveva conosciuto appena pochi mesi prima le gioie della (nona) maternità e allevava il piccolo Richard in un torbido quanto breve mènage a trois con Ludwig Geyer, l’ebreo squattrinato, e probabilmente vero padre di Wagner,  che avrebbe sosituito il marito di Johanna dopo la sua morte, avvenuta quando l’autore di capolavori come “Lohengrin”, “Parsifal”, “Tristan und Isolde” aveva appena sei mesi (e Verdi due).
Capolavori che, come il pubblico non risparmia di rilevare, risultano scarsamente rappresentati nel Bel Paese, da una parte per l’asprezza di repertorio e lingua, dall’altra per una sostanziale xenofobia che purtroppo ha spesso condizionato la pur eccellente tradizione teatrale italiana, e che, particolarmente nei confronti di “quell’ antisemita” di Wagner si è espressa in un costante e malcelato scetticismo.
A sedare gli animi è intervenuto col suo gesto preciso ed equilibrato il celebrato Jiří Bělohlávek, che ha diretto la “sua” Prague Philarmonia (fondata, lo ricordiamo, dallo stesso Bělohlávek nel 1994) in un programma imponente e dall’ingente complessità tecnica  e interpretativa, con una prima parte dedicata, finalmente, a Richard Wagner.
Il concerto si è aperto infatti con l’ Addio di Wotan e Incantesimo del fuoco (da “La Walkiria”), una partenza forse meno “infuocata” di quanto ci si potesse aspettare, ma che ha comunque immediatamente convinto il pubblico per l’equilibrio e l’omogeneità con cui Bělohlávek ha saputo condurre una pagina impregnata così fittamente di leit-motiv wagneriani.
Segue la Marcia Funebre di Sigfrido (da “Il crepuscolo degli dei”), forse l’esecuzione meno convincente della serata. Per quanto i temi  portanti (in questo caso addirittura otto) emergano perfettamente nella concertazione di  Bělohlávek, in diverse occasioni gli ottoni sventano per un soffio il pasticcio e l’isteria degli archi solo raramente si desatura in una drammaticità coinvolgente.
A conclusione della prima parte, il celeberrimo Preludio e morte di Isotta (da “Tristano e Isotta”), che, come alcuni spettatori hanno salacemente commentato durante l’intervallo, “te lo soni ben anca con le pentole”.  Si tratta in ogni caso di una pagina tanto sublime quanto complessa, in cui Bělohlávek si è mosso sapientemente, senza esasperare le sonorità wagneriane e in cui la precisione dei legni ha fatto dimenticare le precedenti defaillances degli ottoni.
La scorrevolezza della “melodia infinita” di Wagner ha trovato un riscontro palpabile nell’incedere lento e  drammatico del soprano svedese Annalena Persson, che ha fatto il suo ingresso in medias res in abito viola quaresimale, causando scompensi tra le signore del pubblico. A dispetto delle superstizioni la cantante si dimostra pienamente all’altezza della sua fama di “soprano wagneriano”, forse anche negli aspetti meno lusinghieri, con un timbro talvolta fin troppo declamatorio e isterico, ma comunque potente (considerando anche che l’ingente organico orchestrale non si trovava in buca) e veramente ammirevole per la facilità nel cambiamento repentino dei registri.
E finalmente arriviamo al piatto forte della serata, la meravigliosa Sinfonia n. 7 in La maggiore Op. 92” di Ludwig van Beethoven, forse la prediletta di Wagner, che con queste celeberrime parole la descrive nel suo saggio “La opera d’arte dell’avvenire”: “E’ l’apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza, la più beata attuazione del movimento del corpo quasi idealmente concentrato nei suoni. Beethoven nelle sue opere ha portato nella musica il corpo, attuando la fusione tra corpo e mente” (Das Kunstwerk der Zukunft, 1849).
Ed è proprio con Beethoven che Bělohlávek e la sua Prague si lasciano andare e conquistano il pubblico veronese, che irrompe in un inopportuno applauso subito dopo il primo tempo. Bělohlávek, guida affettuosa ma dal gesto puntuale ed elegante, conduce, come sembra essere suo uso, un Allegro lievemente sotto tempo rispetto alla tradizione, permettendo al pubblico di apprezzare la rotondità delle frasi e la luminosità degli archi, i quali perdono l’asprezza con cui sembravano piuttosto affrontare il repertorio wagneriano. L’Allegretto, di contro, tra le mani di Bělohlávek procede a ritmi più incalzanti del previsto, mantenendo comunque la fortissima tensione del dàttilo e l’angosciante alternarsi di tonalità minore e maggiore. Lo Scherzo, estremamente virtuosistico e coinvolgente, e l’Allegro con brio finale hanno concluso egregiamente la serata, in un dialogo brillante e magistralmente condotto da Bělohlávek; la frenesia degli archi e i temi trionfali degli ottoni si sono avvolti in un climax ascendente sorprendentemente eccitante. Complessivamente un concerto che si muove nell’alveo della tradizione di alto livello della rassegna veronese, ben accolto da una sala gremita e (fin troppo) rumorosa. Prossimo appuntamento martedì 17 settembre con la Turkish Youth National Philarmonic. Foto d’apertura Brenzoni