Padova, Teatro Verdi, Stagione lirica 2013
“LUCREZIA BORGIA”
Opera in un prologo e due atti di Felice Romani, dalla tragedia omonima di Victor Hugo.
Musica di Gaetano Donizetti
Lucrezia Borgia FRANCESCA DOTTO
Gennaro PAOLO FANALE
Alfonso I d’Este MIRCO PALAZZI
Maffio Orsini TERESA IERVOLINO
Jeppo Liverotto VITTORIO ZAMBON
Don Apostolo Gazella WILIAM CORRO’
Ascanio Petrucci GABRIELE NANI
Oloferno Vitellozzo ORFEO ZANETTI
Gubetta ANDREA ZAUPA
Rustighello MATTEO MEZZARO
Astolfo MASSIMILIANO CATELLANI
Orchestra di Padova e del Veneto
Coro Città di Padova
Direttore Tiziano Severini
Maestro del Coro Dino Zambello
Regia Giulio Ciabatti
Scene Roberta Volpe
Costumi Lorena Marin
Luci Bruno Ciulli
Padova, 22 settembre 2013
Dimenticatevi la vera Lucrezia Borgia, donna bella e raffinata, colta protettrice di artisti e poeti, per lo più strumento delle ambizioni del padre (Rodrigo, papa Alessandro VI) e del fratello (Cesare, il duca Valentino). Perché Victor Hugo impostò una vicenda truce e romanticamente inverosimile che Donizetti e Romani fecero subito propria (rappresentato il dramma francese nel febbraio del 1833, l’opera fu adattata in autunno e rappresentata alla Scala il 26 dicembre di quello stesso anno), in cui la matura Lucrezia, donna “venefica, impura” e sposa del “quarto marito” Alfonso d’Este, ritrova un figlio scambiato per un amante dall’autoritario ed esasperato duca, da cui la tragedia, con il figlio che morirà involontariamente avvelenato dalla stessa madre.
Se vicenda e drammaturgia possono lasciare perplessi, l’abile efficacia teatrale dei versi di Romani e soprattutto l’ispiratissima e inesauribile vena melodica donizettiana sublimano e confezionano un capolavoro. E sono gli anni irripetibili in cui il compositore bergamasco e Bellini giocano a guardarsi, emularsi, superarsi, complici il comune e fidato librettista e una compagnia di divi cantanti. Perché nel belcanto, si sa, il risultato dipende tutto o in larga parte dalle voci, che nella recita padovana non hanno disatteso le aspettative.
A cominciare dalla protagonista, Francesca Dotto, in un ruolo mitico e temuto risolto con indubbia bravura. Il soprano trevigiano ha forse mancato un po’ di tempra drammatica, ma nel complesso ha potuto esibire una solida tenuta vocale, intensa negli abbandoni lirici, ricca di armonici e dalla sicura propensione all’acuto. Eccellente la prestazione di Paolo Fanale, precisa e senza sbavature, un Gennaro elegante e dal timbro duttile e sopraffino, che ha potuto giovarsi anche della bellissima aria “Madre, se ognor lontano” (aggiunta come variante del finale in una versione milanese del 1840), preziosa gemma donizettiana interpretata con toccante intensità.
Teresa Iervolino, a parte qualche incertezza nell’intonazione e un’emissione non proprio impeccabile, ha dato freschezza e varietà di colore e fraseggio alla parte en travesti di Maffio Orsini, svettante negli acuti come espressiva nella zona medio-bassa della tessitura. Mirco Palazzi ha tratteggiato un Alfonso di classe e spessore, dalla nobiltà d’accento e coinvolgente musicalità. Bene tutti gli altri interpreti dei ruoli di contorno, fra cui hanno spiccato in particolare il Rustighello di Matteo Mezzaro e l’Astolfo di Massimiliano Catellani.
Dal podio Tiziano Severini ha diretto con consapevolezza e discreta cura nei dettagli, da cui una lettura sempre attenta alla limpidezza del dettato musicale. A mancare, forse, è stato un po’ di equilibrio nelle dinamiche tra buca e palcoscenico, con la massa sonora orchestrale che spesso ha sovrastato le voci e con qualche sfasatura di troppo nella concertazione. Dall’altro lato il direttore poteva contare sull’Orchestra di Padova e del Veneto, che ogni volta sorprende per la qualità raffinata del suono, con particolare menzione per i fiati e i corni, impegnati in interventi solistici di rara bellezza risolti con un gusto, una precisione e un trasporto davvero convincenti. Anche i cori in quest’opera avvincono per la fresca musicalità, e il Coro Città di Padova ha risposto con correttezza, puntualità e un impegno (sia scenico che vocale) di apprezzabile efficacia. Regia di routine di Giulio Ciabatti, entro una chiarezza di stampo tradizionale nella disposizione delle figure sulla scena e una rispettosissima ambientazione storica, assecondata dai costumi di Lorena Marin e dall’‘ideazione scenografica’ di Roberta Volpe, giocata su un ampio spazio con alte e snelle colonne, tra sinistri echi cromatici e simbolici vertenti su una generale intonazione funerea e claustrofobica. Applausi generosi e di grande cordialità alla fine, per un pubblico purtroppo non così numeroso, con più di un palco desolatamente vuoto. Un vero peccato. Donizetti e questa esecuzione meritavano di più. Foto Giuliano Ghiraldini