Gioachino Rossini (1792-1868): “Aureliano in Palmira”

Dramma serio per musica in due atti, libretto di Gian Francesco Romanelli (?). Kenneth Tarver (Aureliano), Catriona Smith (Zenobia), Silvia Tro Santafé (Arsace), Ezgi Kutlu (Publia), Julian Alexander Smith (Oraspe), Vuyani Mlinde (Licinio), Andrew Foster-Williams (Gran sacerdote di Iside), Geoffrey Mitchell Choir, direttore del coro: Renato Balsadonna, London Philarmonic Orchestra, direttore: Maurizio Benini – 3 CD Opera Rara 2012, ORC 46.
Opera tra le meno conosciute del repertorio rossiniano, Aureliano in Palmira viene di recente incisa per i tipi della casa discografica Opera Rara, particolarmente devota al recupero di opere inusitate: il risultato, seppur non esaltante, è di certo ragguardevole. L’Aureliano fu rappresentato al Teatro alla Scala il 26 dicembre 1813, aprendo la stagione; lo stesso anno Rossini aprì La Fenice di Venezia colla Tancredi. Dopo un totale di quattordici recite, l’opera fu tolta di cartellone, non certo con successo: pare che il problema fosse dei cantanti principali, tra cui spiccava l’ultimo celebre sopranista castrato, Giovanni Battista Velluti, all’epoca non molto in voce (a dispetto della tradizione pseudo-aneddotica, che lo vorrebbe criticato da Rossini per l’estrema complessa floridezza degli abbellimenti introdotti alla parte di Arsace, tali da renderne la musica irriconoscibile). Eppure fu proprio il Velluti, tenacemente attaccato alla parte, a contribuire a renderne viva la tradizione delle poche rappresentazioni (come quella di Londra, nel 1826): ciò non impedì alla partitura di sparire presto nelle sabbie del nulla. La prima ripresa moderna si ebbe al Carlo Felice di Genova (1980), con costumi sontuosissimi e una regia dall’impianto magnificamente classico, oltreché bellissime voci − la Serra in Zenobia, la Müller-Molinari in Arsace e Barbacini in Aureliano: quella permane la miglior versione moderna, attendendo con ansia il prossimo Rossini Opera Festival (2014), dove verrà messa in scena una nuova edizione critica e la regia di Mario Martone.

Tutta l’opera è ammantata di una grazia metastasiana − sul modello straordinario di opere quali la mozartiana La clemenza di Tito (1791) −, strutturalmente salda di un’aurea misurata successione di arie, duetti e terzetti (al mo’ di Semiramide); le melodie sono di una dorata bellezza, pregne d’antica grazia, e anticipano stilisticamente quelle di tante sue opere serie successive, pur rimanendo più rarefatte, distanziate da qualsivoglia realismo.
Il direttore, Maurizio Benini, fa un buon lavoro, pur non brillando: nell’accompagnare le voci è gentile, ma un tantino metronomico. La celeberrima ouverture – che Rossini poi porrà a apertura di Elisabetta regina d’Inghilterra e poi ancora del Barbiere (la storia lo vorrà il pezzo probabilmente più famoso dell’autore) − è assai ben diretta, sostenuta nell’agogica, lontana da certi eccessi, sobria quasi, molto attenta al colore orchestrale, con l’orchestra che ben risponde, a cominciare dai fiati, fino ai corni e soprattutto agli archi. Kenneth Tarver interpreta Aureliano: voce dal timbro gradevolissimo, ma eccessivamente esile, benché il tutto sia compensato da un’attenta esecuzione dei recitativi, ma non sempre risultando incisivo. Nella sua cavatina (I. 5), “Romani a voi soltanto”, mostra smalto in una tipica aria di sortita di un guerriero rossiniano – sono dietro l’angolo Maometto e Rodrigo, con la loro baldanzosa energia −, con un degno recitativo seguito da un bel cantabile (lode al cornista per il suo assolo nel piccolo ma insidioso preludietto) e, a concludere, una sprizzante cabaletta, dove tira fuori dal cilindro qualche bell’acuto, soprattutto nella ripresa. Molto buono e ben diretto il seguente duetto con Arsace (I. 6), “Stretto in catene”, notevole l’amalgama delle voci; termina il primo atto nel terzetto-largo del finale I (I. 14) con Zenobia e Arsace, “Ah! Sento che assai”, ben eseguito, con curate ornamentazioni, e poi nella seguente stretta, aggraziata ma vigorosa. Incomincia il secondo atto con un buon duetto con Zenobia (II. 3), “Invan Zenobia in queste”, cui precede un lungo recitativo, ma risulta sfibrato in diversi acuti; nella sua seconda aria (II. 10), “Più non vedrà quel perfido i rai”, palesa un intenso canto nel tempo d’attacco, per terminare in una buona cabaletta, dove però stringe troppo l’emissione di qualche suono. Veramente notevole l’esecuzione del terzetto assieme a Zenobia e Arsace (II. 14, “Ah! Perché mai quell’anime”): lo impernia una struttura molto particolare, con l’unisono delle voci femminili – espediente che renderà, in seguito, celebre il finale I della I Capuleti e i Montecchi di Bellini, che ha con ogni probabilità presente questo passaggio. Termina la performance in un finale lieto ben diretto, convenzionale nella musica come nello stile.

Catriona Smith
– timbro non esaltante, scarsezza di colori, spesso scivolante nel querulo, eppure, a dispetto dell’avara dote, dotata di buone agilità e in generale d’un buon controllo del mezzo – è Zenobia. Esordisce benissimo in uno dei pezzi forti del dramma, il primo duetto con Arsace (I. 2), “Se tu m’ami o mia regina”, della cui sublimità parlò persino Stendhal: in particolare, la parte conclusiva del cantabile con la cadenza è eseguita alla perfezione, dalla direzione all’armonico perfetto concertato delle voci (le due cantanti sono straordinariamente in simbiosi). Degnamente cantata la sua unica aria (I. 9), “Là pugnai; la sorte arrise”, melodiosissima e assai patetica, di sicuro effetto, dove eccelle, durante la cabaletta, nelle ardite fioriture della cadenza; brava nel duettino (I. 13) con Arsace, in particolare nella seconda sezione (“Che barbara stella”), dove l’unisono sublime delle due voci porta la firma di una grazia tutta mozartiana, tripudio melodico invidiabile per grazia e bellezza. Le voci di Zenobia e Arsace sono pensate appaiate in tutta la partitura; l’ultimo dei loro duetti (II. 13), “Mille sospiri e lagrime”, dalla straziante linea melodica, mostra le due voci amalgamate e lattee, sorrette da una direzione che bada alla dovuta accortezza dei tempi. L’ardua ma sontuosa parte di Arsace è affrontata da Silvia Tro Santafé: la voce è bella, da agile mezzosoprano con bassi corposi, le ornamentazioni raffinate, lo stile estremamente elegante, non senza però qualche imperfezione a livello di dizione, ma certamente la migliore del cast. Della bellezza dei suoi duetti s’è parlato − nel duettino del I atto palesa perlacee fioriture, senza obliare il bel ‘smorzando’ con portamento sulla parole “mi rende amor” durante l’ultimo duetto. E egualmente bene fa nei suoi pezzi solistici. Ben canta l’estremamente languida e intimisticamente poetica romanza (I. 12), “Chi sa dirmi, o mia speranza”; nel precedente recitativo risalta particolarmente l’androginia timbrica della sua voce, che l’avvicina molto, a livello ideale, a un castrato (come sopra ricordato, appunto, la parte fu scritta per il Velluti). Dopo un delizioso preludio (materiale musicale che confluirà all’inizio dell’ouverture), canta nel II (6) atto la sua unica aria, “Dolci silvestri orrori, amiche sponde!”: l’atmosfera elegiaca e trasognata mette bene in evidenza le qualità della Tro Santafé, che centra una cabaletta spigliata, buoni i salti e gli ornamenti, ma non perfetti i trilli – si tratta della medesima melodia che poi costituirà la cabaletta della cavatina di Rosina dal Barbiere, opera per cui tanto Rossini si auto-saccheggiò dall’Aureliano. Buono anche il suo monologo (II. 13), “Inutil ferro!… che fai meco? … Io sono”, preceduto da un preludio in tremulo d’archi, evocante un notturno lunare. Altalenante la falange dei secondi cantanti. Andrew Foster-Williams (Gran sacerdote di Iside) ha una bella voce baritonale, ma non corposa: buoni i recitativi e discreta l’esecuzione della sua aria (I. 4, “Secondino gli dèi”). Julian Alexander Smith (Oraspe) possiede una vocetta troppo sottile, con uno stentato fraseggio e una pessima dizione, mentre Vuyani Mlinde (Licinio) ostenta bella voce, anche lui affetto dai soliti problemi di pronunzia; freschezza, da soprano di grazia, palesa Ezgi Kutlu (Publia), che ben canta la sua aria, estremamente convenzionale, da sorbetto (II. 15, “È deciso il destino”), brava nelle ornamentazioni. Più di una nota di merito va al coro e al suo maestro, Renato Balsadonna: i coristi incominciano benissimo nell’introduzione (I. 1, “Sposa del grande Osiride”), soffusi in preghiera e precisi nei vari giochi di piccole fughe, mentre sono gagliardi (i cori maschili) nell’introduzione alla cavatina di Aureliano. Forse la loro performance più bella è certamente il coro idillico-bucolico dei pastori e delle pastorelle (II. 5, “L’Asia in faville è volta”): Rossini ha già nel sangue, nei suoi suoni, tanto le balze de La donna del lago, che le selve montane della Guillaume Tell. Dunque, un CD che certamente mancava, un’edizione fondamentale, pur con le dovute cautele: va soprattutto dato il merito a uno sforzo di recupero di un capolavoro di tale bellezza.