Bologna, Teatro Comunale:”The turn of the screw”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione lirica 2013
“THE TURN OF THE SCREW”
Opera in un prologo e due atti. Libretto di Myfanwy Piper, dall’omonimo romanzo di Henry James
Musica di Benjamin Britten
Il Prologo / Peter Quint BOYD OWEN
L’Istitutrice SARA HERSHKOWITZ
Miles Dominic Williams
Flora Erin Hugues
Mrs. Grose Gabriella Sborgi
Miss Jessel Patrizia Orciani
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Jonathan Webb
Regia Giorgio Marini
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Elena Cicorella
Luci Guido Levi (riprese da Daniele Naldi)
Allestimento del Teatro Comunale di Bologna
Bologna, 23 novembre 2013

Questa ripresa della produzione del Giro di vite del Comunale di Bologna è stata un’ottima lettura di questo modesto lavoro realizzato da un bravo artigiano musicale inglese con alcuni scampoletti ereditati da Stravinsky. Lo spettacolo di Giorgio Marini, che nel 1997 aveva avuto Raina Kabaivanska come protagonista, si ispira al racconto originale di James e relega gli spettri ad apparizioni dietro gli specchi, stabilendo senza possibilità di dubbio che si tratta di parti della mente disturbata  dell’Istitutrice, proiezioni delle sue pulsioni inconfessate. Si tratta di una lettura assolutamente legittima e portata avanti con coerenza, ma, rimuovendo ogni possibile ambiguità circa la reale esistenza degli spettri e impedendo ogni contatto fisico tra il mondo dei vivi e quello degli spettri, l’opera diventa piuttosto noiosa. Il racconto di James è narrato in prima persona dal punto di vista dell’istitutrice, la sola a vedere gli spettri che non parlano mai, né con l’istitutrice né tanto meno con i bambini, e il lettore è chiamato a decidere se l’istitutrice sia pazza oppure no. Ma per Britten invece gli spettri sono presenze assolutamente reali (come ebbe anche modo di affermare in diverse occasioni). Il pubblico li vede e li ascolta cantare, con dialoghi totalmente inventati. Soprattutto ascolta Peter Quint rivolgersi al piccolo Miles istigandolo al male e a “non tradire il loro segreto” rivelandolo agli altri adulti. Britten scrisse al critico Desmond Shawe-Taylor: “questo soggetto è il più vicino a me tra quelli che ho scelto finora (anche se non direi volentieri quello che rivela della mia personalità).”Viene a ricrearsi qui il triangolo lirico di Peter Grimes. È famosa la definizione di trama operistica di George Bernard Shaw: la storia di un tenore che vuole fare sesso con un soprano mentre un baritono cerca di impedirlo. Nelle due opere più famose di Britten il triangolo invece è formato da un tenore che fa sesso con un bambino mentre un soprano cerca di impedirlo. Peter Grimes era in questo senso operisticamente insoddisfacente perché il bambino era un ruolo muto. Miles invece canta (cosa che può facilmente creare qualche problema, come si vedrà fra poco). E, a differenza del ragazzo muto di Peter Grimes, è pienamente consenziente, ciò che costituisce la principale fonte di orrore di quest’opera. A dire il vero, è per me un mistero come The Turn of the Screw possa essere rappresentato senza che nessuno alzi nemmeno un sopracciglio. Per parte sua, onde evitare problemi, Marini ha sterilizzato il soggetto rendendo Miles una sorta di precoce Cherubino dagli interessi decisamente eterosessuali, direzionati verso l’Istitutrice (alla quale tocca un seno) e anche un po’ verso la sorella. Credo che si possa essere tutti molto felici che a nessun regista (solitamente tanto prodighi di finti coiti sulla scena) sia finora venuto in mente di mostrare al pubblico che cosa fanno tra loro Quint e il piccolo Miles. Ma resta il fatto che la tensione sessuale in quest’opera di Britten è fra questi due personaggi (e tra Miss Jessel e Flora). Marini ha semplicemente voluto addomesticare l’opera sviando il pubblico dal suo lato più scabroso.
Il solido secondo cast era guidato dal bel duo formato dal giovane soprano americano Sara Hershkowitz nel ruolo dell’Istitutrice, dalla voce morbida e limpida, capace di trasmettere sia l’inesperienza che le aspirazioni materne del personaggio, e dal mezzosoprano Gabriella Sborgi, perfetta nell’ambiguo ruolo della governante Mrs Grose. Non meno perfetta Erin Hughes come Flora, non una voce bianca ma (come la prima interprete del ruolo, Olive Dyer) un sopranino molto giovane e di bassa statura, che ha saputo impersonare il ruolo di una bambina di 8 anni con una voce appropriatamente infantile senza risultare irritante. L’australiano Boyd Owen è stato un efficace Quint e Patrizia Orciani è tornata al ruolo di  Miss Jessel che aveva già interpretato 16 anni, risultando forse, per età e ampiezza del vibrato, più una seconda Mrs Grose che non lo spettro di una giovane donna, ma cantando comunque bene. Alla guida del piccolo ensemble (quintetto d’archi, quintetto di fiati, arpa, piano/celesta e percussioni) il preciso Jonathan Webb. Unica nota stonata (e non è certo una metafora) il Miles di Dominic Williams, tredicenne corista del Trinity Boys Choir, che più che un coro è un’agenzia che smercia bambini ai teatri di mezza Europa per il Flauto magico o per le diverse opere di Britten che li richiedono. È stata una grande imprudenza del Comunale di Bologna scritturare un ragazzo così grande per questo ruolo. Indubbiamente quando la direzione artistica lo ha ascoltato in audizione sarà stato splendido, ma quando l’ho sentito il povero ragazzo non è stato in grado di emettere altro che i suoni di un giovane maschio nel pieno della sua muta vocale. La sua voce parlata, richiesta in alcuni punti dell’opera, era già quella di un adolescente. Spostarlo dalla prima alla seconda compagnia non è stata una soluzione accettabile. Peraltro, mi sembra che i ragazzi a quell’età dovrebbero andare a scuola e non in giro per i teatri del mondo. Molto meglio sarebbe stato scritturare un bambino italiano. I soliti esterofili che pensano che solo in Austria o in Inghilterra esistano bambini intelligenti e con una buona voce e buoni insegnanti per loro dovrebbero ricredersi. Ad esempio, il giorno prima di questa rappresentazione ho ascoltato a Modena l’incantevole Riccardo Masseni di Gorizia, di 10 o 11 anni, che ha commosso il pubblico cantando con voce ben appoggiata le parti solistiche di Ceremony of Carols di Britten (in inglese) e Chichester Psalms di Bernstein (in ebraico) con il Coro Gazzotti. Compiuti i doveri di critico, saluto i lettori più frettolosi e sottopongo ai più coraggiosi una considerazione caratterizzata da un patriottismo che – me ne rendo conto – è altamente inattuale.
Britten, Britten, sempre Britten! Quando si tratta di opere del Novecento, i direttori artistici dei teatri italiani sembrano non conoscere nient’altro. Hindemith, Honegger, Milhaud, Martin, Martinu (per limitarsi a due sole lettere dell’alfabeto) chi erano costoro? Per non parlare poi dei compositori italiani che ebbero l’impudenza di scrivere qualcosa dopo Puccini o prima di Rossini. I direttori artistici italiani si farebbero impiccare piuttosto che mettere in scena l’opera di uno di quei loro compatrioti, che in quanto compatriota disprezzano a morte e che non avrebbe nemmeno l’utilità pratica di un compositore vivente, cioè quella di dirigere un qualche festival dove far eseguire in cambio una qualche pagina sinfonica di loro pugno. Per darsi arie di fare un programmazione “moderna” non c’è nulla di meglio di quel grande compositore inglese morto più di 30 anni fa e di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.
Benjamin Britten è diventato un grande compositore nella stessa maniera in cui Lang Lang è diventato un grande pianista: nella Cina di oggi serviva una star per lanciare il consumo di musica classica occidentale e nell’Inghilterra del dopo-guerra serviva un nome intorno a cui coagulare l’orgoglio musicale della nazione. E infatti Britten ancora oggi viene pubblicizzato come “il più grande compositore inglese dai tempi di Purcell” (vittoria piuttosto facile dal momento che il maggior contendente al titolo era Ralph Vaughan Williams, il quale comunque forse fu superiore a Britten in un paio di cose, per quello che valgono queste classifiche). Parte del suo successo deriva da un grande artigianato musicale e dal lodevolissimo impegno nella musica per bambini (tema sul quale si ritornerà in seguito), molto dalla sua capacità di auto-promozione (come esecutore e come direttore artistico), moltissimo dal sostegno della sua casa editrice Boosey and Hawkes e di tutta la nazione britannica. Molto poco dalla reale ispirazione delle sue opere, che pure sono tutt’altro che disprezzabili, ancorché scarsamente originali. Quando mai l’Italia ha sentito l’esigenza di coagulare il suo orgoglio nazionale su di un qualche talento? Quale orgoglio nazionale, peraltro? Quando mai l’Italia ha sentito verso i propri talenti un’esigenza diversa da quella di punirli e farli fuggire all’estero? Gli italiani brucerebbero volentieri la musica di tutti i compositori italiani che hanno la sventura di non essere Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti, Bellini e gli autori di Cavalleria & Pagliacci. Fortunatamente non ne sospettano l’esistenza. L’opera novecentesca italiana post-pucciniana in Italia non si può fare. Qualche volenteroso laboratorio lirico giovanile magari può occuparsene (a Forlì La favola di Orfeo di Casella e a Cremona L’augellin belverde di Maderna), ma non certamente le fondazioni liriche. Una ricerca su operabase.com (che permette di fare ricerche incrociate nella programmazione dei teatri più importanti del mondo) ci rivela che, mentre nel 2013 l’Italia si è fregiata di 7 diverse produzioni britteniane, l’arte italiana è più apprezzata all’estero che in patria: questa primavera è andato in scena Assassinio nella cattedrale di Ildebrando Pizzetti a San Diego negli Stati Uniti (con Ferruccio Furlanetto), e questo mese la Maria Egiziaca di Respighi a Wuppertal in Germania. Migliore fortuna tocca a Il prigioniero di Dallapiccola, messo in scena a Lione ad aprile e l’anno prossimo al Liceu (un allestimento che nel ruolo del protagonista prevederà, paradossalmente per quest’opera anti-nazifascista, il baritono russo Evgeny Nikitin, cui evidentemente essere stato cacciato da Bayreuth per il suo tatuaggio con la svastica non ha portato altro se non fortuna). Ma per riascoltare l’Ulisse il mondo dovrà attendere un bel po’. Nessuna traccia di Gian Francesco Malipiero, né di Goffredo Petrassi. Il nome di Giorgio Federico Ghedini non è nemmeno riconosciuto dal software… In fondo a questa triste classifica sta sicuramente l’amabile Mario Castelnuovo-Tedesco, il cui Mercante di Venezia non è stato mai più ripreso dopo la prima del 1961 a Firenze (diretta da Gavazzeni, con Rosanna Carteri come Porzia e Renato Capecchi come Shylock) e i cui All’s Well What Ends Well (ancora da Shakespeare) e Saul (da Alfieri) mai videro la luce. A nulla gli valgono gli anni di manovalanza hollywoodiana, che pure hanno aiutato a ristabilire la fama di Korngold. In compenso i teatri si sono convinti che il modestissimo Nino Rota sia un genio perché scriveva le colonne sonore per Fellini ed il vaudeville neo-rossinian-mascagnano Il cappello di paglia di Firenze è ormai una presenza ubiqua nelle stagioni liriche.
Così, mentre gli inglesi si sono prodigati ad assicurare a Britten le migliori esecuzioni ed incisioni discografiche con i migliori interpreti, mentre ogni biblioteca di conservatorio si fregia di antologie di arie britteniane da portare come “aria del Novecento” al diploma, le fondazioni liriche italiane asseriscono (o asserirebbero, se mai qualcuno lo chiedesse) che se mettessero in scena opere italiane del Novecento, i teatri sarebbero deserti perché nessuno li conosce. Né sovviene loro che se nessuno conosce questi nomi la colpa è per l’appunto loro perché non li programmano. Né sovviene loro che una programmazione che si basa unicamente sulla notorietà di quei soliti titoli di repertorio (e non sull’interesse intrinseco degli spettacoli e su moderne strategie di marketing) è una strategia destinata al fallimento. E infine sembrano non rendersi nemmeno conto che anche con le opere dello strombazzatissimo Britten i teatri sono deserti. Nella rappresentazione fuori abbonamento di The Turn of the Screw al Comunale di Bologna cui ho assistito gli spettatori non dovevano essere più di 200 (a voler essere generosi) e mi è stato riferito che negli altri giorni il pubblico in sala era ancora meno numeroso, giacché gli abbonati hanno disertato in massa. Vuoto per vuoto, La pulce d’oro o Le Baccanti di Giorgio Federico Ghedini e Tullio Pinelli avrebbero almeno il pregio della novità nonché quello di dare lavoro a cantanti italiani. C’è tanta gente che ciarla inutilmente su come gl’immigrati distruggano le tradizioni italiani. Forse gli italiani non vogliono condividere con altri questa missione, nella quale d’altronde riescono benissimo da soli. Non c’è nessun deputato leghista che voglia sostenere la causa della musica italiana? Suppongo di no. P.V.Montanari