Parigi, Opéra Bastille, Stagione lirica 2013-2014
“I PURITANI”
Melodramma serio in tre parti, su libretto di Carlo Pepoli dal dramma storico Têtes rondes et Cavalier di Jacques-Arsène-Francois-Polycarpe e Boniface-Xavier Saintine.
Musica di Vincenzo Bellini
Lord Gualtiero Valton, governatore puritano WOJTEK SMILEK
Sir Giorgio Valton, suo fratello MICHELE PERTUSI
Lord Arturo Talbot, cavaliere DMITRI KORCHAK
Sir Riccardo Forth, puritano MARIUSZ KWIECIEN
Lord Arturo Talbot DMITRI KORCHAK
Sir Riccardo Forth MARIUSZ KWIECIEN
Sir Bruno Robertson LUCA LOMBARDO
Lady Elvira Valton, figlia di Gualtiero MARIA AGRESTA
Enrichetta di Francia. regina d’Inghilterra ANDREEA SOARE
Orchestra e coro dell’Opéra National di Parigi
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Patrick Marie Aubert
Regia e costumi Laurent Pelly
Scene Chantal Thomas
Luci Joël Adam
Nuovo allestimento
Parigi, 6 dicembre 2013
Da Parigi, che la diede a battesimo, I Puritani mancava dal lontano 1987, quando venne messa in scena all’Opéra-Comique: dunque si tratta di una storica prima assoluta alla Bastille. Come in quell’occasione (Bruno Campanella), l’opera è affidata alla direzione di una maestranza italiana, il talentuosissimo e giovanissimo Michele Mariotti, astro nascente della direzione orchestrale made in Italy. Della storica première parigina, al Théâtre des Italiens (25 gennaio 1835), Rossini – l’allora eminenza grigia di quel teatro – fu ideatore e pianificatore («Bellini si nasce, non si diventa» disse una volta del più giovane collega): e il successo arrise generoso: «il sipario calò tra un delirio di applausi» (Bellini a Florimo), su quello che sarebbe stato l’ultimo capolavoro di Bellini. «Scolpisci nella tua testa a lettere adamantine: il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando… Poesia e musica, per fare effetto, richiedono naturalezza e niente più» (Bellini a Pepoli).
Michele Mariotti sta compiendo un’evoluzione artistica impressionante: dietro il suo gesto c’è sempre un’idea cristallina, alia et eadem (per parafrasare Orazio) nell’adattarsi ai diversi autori, pur non tradendo mai sé stessa. È francamente difficile non lasciarsi convincere dal suo gusto: attenzione al dato sonoro (in primis quello vocale), alla pasta orchestrale, alla parabola agogica dell’intera partitura – lo si è visto nel breve preludio all’atto I, o nell’uragano a inizio del III. Il polacco Marius Kwicien è Riccardo: possiede una voce baritonale cantabile, vellutata, polposa, poggiata su un discreto fraseggio – ma, talvolta, non si esime dallo strafare, come negli acuti interpolati. Veramente notevole la sua cavatina (I atto, “Ah! Per sempre io ti perdei”), tutta sul fiato e sul legato, arrivando con agio, nel bel portamento alla fine del cantabile, fino al mi bemolle sovracuto; la cabaletta è ben cantata, ma funestata dall’acuto finale, che non esce affatto gradevole; notevolissima la sua performance del duetto-finale II (“Il rival salvar tu dêi”). Giorgio è cantato dal bravissimo Michele Pertusi, dalla voce ricca di armonici, da autentico basso cantante, scura: a una naturale dotazione, inoltre, unisce un prezioso fraseggio. Pertusi staglia la performance meglio riuscita dell’intera serata: l’intimistico strazio con cui canta la sua romanza (II atto), “Cinta di fiori e col bel crin disciolto”, la paternale pacatezza che profonde nel duetto (I atto) con Elvira, “O amato zio, o mio secondo padre!”, ovvero l’aspra forza con cui canta il duetto con Riccardo, sono sintomatici del suo stato di grazia. Elvira è Maria Agresta, cantante d’indubbio talento, ma che forse affronta, in questo caso, un ruolo non proprio nelle sue corde, con un risultato buono, ma non eccelso. La sua voce, dal timbro terso e classico, e la sua pur cristallina tecnica (trilli, messe di voce, mezze voci), spesso sono costrette a dura prova da una linea di canto – quella scritta per la celebre Giulia Grisi –, che esige sforzi di intensa drammaticità: ma risulta graziosa l’esecuzione della polacca (“Son vergine vezzosa”), riesce a essere sufficientemente intensa nelle scene d’assieme (il finale III, in particolare), e a portare a casa un ottimo duetto con Arturo (III atto, “Finì…me lassa! Oh! Come dolce all’anima”). Proprio l’esecuzione della complessa aria-scena della follia (II atto, “Qui la voce sua soave” – “Vien diletto, è in ciel la luna!”) mette a nudo alcuni limiti del suo mezzo vocale, anche se il risultato è pregevole: sotto l’eccellente direzione di Mariotti, la sua voce si sposa bene con l’orchestra, palesando una notevole sensibilità, ma non trasuda quell’intensità drammatica che il momento richiederebbe (in alcuni acuti – si sente – è costretta a sforzare molto); nella cabaletta – in cui Mariotti si tiene prudentemente a freno – qualche accento è sacrificato, ma si fanno apprezzare i pianissimi e diversi portamenti, senza però dare quell’effetto quasi spettrale che l’impervia parte vocale qui suggerirebbe. Il russo Dmitry Korchak affronta il funambolico ruolo di Arturo; la sua voce, eccessivamente nasale, e il timbro, alquanto comune, non ne fanno un miracolo della natura, ma le note ci sono tutte (o quasi), sorrette da una buona tecnica. Soffuso, ma metallico, il suo “A te, o cara, amor talora” (I atto: un arioso che confluisce in un quartetto, esempio mirabile dello sperimentalismo morfologico cui era giunto Bellini) lo vede ancora freddo; comincia a scaldarsi nel successivo duetto con Enrichetta, per poi dare il meglio di sé nell’atto III, il vero e proprio atto di Arturo. Nella romanza (“A una fonte afflitto e solo”) è capace di soffondere la voce, con qualche acuto leggermente stridulo; prosegue poi bene nel duetto con Elvira e termina con un intenso “Credeasi misera!” (un arioso inserito nel complesso finale III, magistralmente diretto da Mariotti), dove però non esegue il celeberrimo fa sovracuto, tomba di tenori: un vero peccato, giacché l’avrebbe potuto tranquillamente emettere in falsetto (si ricordino, ad esempio, Pavarotti o Gedda), o almeno di testa in voce mista (si pensi alla magnifica esecuzione di Kunde), secondando così Bellini, che non pensava certo a tutte le emissioni ‘di petto’ che si pretendono oggi – la nota era stata, infatti, pensata per la leggendaria voce di Giovanni Battista Rubini, di cui si lodava la naturalissima capacità di passaggio dal registro acuto a quello in sovracuto, mascherando tale difficoltà con una sorta di falsettone di testa, ammiratissimo da tutt’Europa. I comprimari sono ottimi, tranne l’Enrichetta della Soare, decisamente sotto tono. Il coro è eccezionale (ma, a tratti, non perfettamente amalgamato).
Le scene, firmate da Chantal Thomas, sono nell’ordine del minimalismo. Una scheletrica struttura di ferro, ruotante su una pedana, freddamente geometrica, quasi uno schizzo affrettato di un architetto d’altri tempi, fornisce l’intera scenografia, variata ad hoc a seconda delle esigenze: nell’atto I (la fortezza di Lord Valton) è assai articolata, con scale, una lunga passeggiata e un portico; nell’atto II (interno della fortezza) viene mantenuta solo la struttura con la stanza di Elvira e una scalinata che vi conduce, poi, durante il duetto finale, viene calata la facciata di un interno e scheletri di finestre a arco acuto; nell’atto III si ritrova parte della prima struttura, che rappresenta il giardino di fronte alla fortezza. Tutta l’evocazione dell’ambientazione è quindi demandata alla regia e ai costumi storici, stupendi; una regia, quella di Laurent Pelly, sovente accurata, con momenti addirittura enigmatici (come lo svenimento di Elvira alla fine dell’opera prima della dissolvenza, che lascia aperte contrastanti interpretazioni), ma non scevra qua e là di fastidiose ingenuità: si pensi, per esempio, al camminare avanti e indietro di Enrichetta e delle guardie; alla disposizione in fila sul proscenio dei soldati cromwelliani nella prima scena; o al momento in cui, nel loro duetto, Riccardo e Giorgio si tolgono le giacche, avanzando con smaccato machismo. Parca la presenza delle luci (Adam), che spesso devono tentare di connotare il metaforizzato spazio vuoto bianco del palco. Una regia, dunque, nient’affatto memorabile, in linea con i dogmi registici contemporanei: regala qualche bel momento, ma non convince appieno. Non che sia semplice approntare una regia per I Puritani: se musicalmente palesano quell’autentica cornucopia che è l’invenzione belliniana (che fa solo scorgere quale gradus ad parnassum avrebbe potuto compiere il compositore, se non fosse stato costretto a siglare questo testamento prematuro), c’è da dire che presentano non poche farraginosità drammaturgiche. Nel complesso, comunque, un’ottima serata di teatro, che dovrebbe farci riflettere anche sulla professionalità con cui s’affronta e si tramanda il nostro repertorio all’estero. Potrebbero ben descriverla alcune bellissime parole che von Hiller dedicò proprio a Bellini, suo più anziano e ammirato collega: «gli spiriti dotati non brillano soltanto per il loro talento, e persino le loro imperfezioni hanno qualcosa di grazioso». Foto Andrea Messana © Opéra National de Paris