Antonio Vivaldi (1678-1741): “Catone in Utica” RV 705, dramma per musica su libretto di Pietro Metastasio. Edizione critica a cura di Alan Curtis. Topi Lehtipuu (Catone); Ann Hallenberg (Emilia); Roberta Mameli (Cesare); Sonia Prina (Marzia); Romina Basso (Fulvio); Emöke Baràth (Arbace). Il Complesso Barocco, direttore Alan Curtis. Registrazione: Lonigo (Vicenza), settembre 2012 – 3 CD OP 30545 Naïve (The Vivaldi Edition) 2013.
Pietro Metastasio scrisse il Catone in Utica, suo terzo dramma, nel 1727, quando fu rappresentato per la prima volta al teatro delle Dame di Roma con musica di Leonardo Vinci. Nel 1738 l’intonazione del testo fu poi realizzata da Antonio Vivaldi, con un’opera che la casa francese Naïve include ora nella sua collezione di musiche vocali e strumentali The Vivaldi Edition. Come il lettore di Metastasio sa bene, il Catone è un capolavoro; non soltanto per la trasposizione di affetti personali, in una vicenda squisitamente politica che avrebbe affascinato tutta l’età imperiale romana, e poi il mondo medioevale almeno fino a Dante, ma anche per l’ininterrotta trama di sottointesi, di doppiezze, di ambiguità paradossali che caratterizzano i personaggi sulla scena (Cesare ama Marzia, la figlia di Catone, ma le confessa di amare ancor più la virtus del padre; anche il principe numida Arbace ama Marzia, e per compiacerla quasi tradisce l’alleato Catone; Fulvio, messo del senato di Roma, ama Emilia, vedova di Pompeo, e le dichiara di essere disposto ad assassinare Cesare, ma in realtà resta sempre fedele e difensore del dittatore). Il suicidio finale del protagonista, unico carattere inflessibile nel mare di incertezze smaniose di tutti gli altri, lascia ogni personaggio nella prostrazione, a cominciare dallo stesso Cesare, che alla notizia della morte di Catone getta a terra il lauro trionfale. Vivaldi, da parte sua, non solo provvede a sostituire quasi tutte le arie originali di Metastasio, ma soprattutto elimina il finale tragico e ne interpola uno inverosimilmente riconciliante tra Marzia e Cesare, che si impegna a restituirle il padre sano e salvo (Catone però, prudentemente, non rientra in scena). Considerato il pastiche delle arie e lo schiaffo alla Storia, si potrebbe pensare che il Catone vivaldiano fosse opera convenzionale, appunto un “melodramma”, nell’accezione deteriore del termine. La musica del compositore veneziano, al contrario, redime tutto, risana ogni incongruenza, rinforza la drammaticità del libretto (fatta eccezione per le poche battute del finale).
E l’invenzione musicale vivaldiana raggiunge con questa terzultima opera dell’imponente catalogo teatrale la pienezza della maturità e dell’efficacia compositiva. Per quanto riguarda l’edizione dell’etichetta francese, con il dire che il direttore del Complesso Barocco è Alan Curtis si dice tutto quel che importa sapere sull’affidabilità delle scelte musicali, sull’equilibrio delle sonorità, sulla raffinatezza della concertazione, sulla cura dei cantanti. La compagnia vocale è infatti molto omogenea, decisamente professionale ed esperta del repertorio barocco. Ma l’ascoltatore potrà facilmente riscontrare altre due caratteristiche nettamente positive: l’eccellenza del mezzosoprano Ann Hallenberg nel ruolo di Emilia, e la cura espressiva delle tre voci femminili italiane, Roberta Mameli nel ruolo en travesti di Cesare, Sonia Prina come Marzia, Romina Basso nell’altro ruolo maschile di Fulvio; tre personaggi, tre registri vocali, e tre grandi interpreti, nelle pagine virtuosistiche come nei recitativi, tutte e tre capaci di trascorrere dalla furia dell’aria ‘di tempesta’ ai toni carezzevoli e flautati della mozione degli affetti amorosi. Se la Hallenberg attira l’attenzione per i mezzi vocali e la tecnica di cui dispone, per un timbro pastoso e ricco di armonici, per l’irruenza con cui dà corpo all’incoercibile smania di vendetta della vedova di Pompeo, le interpreti italiane lavorano di cesello sull’espressività dei recitativi, sul fraseggio e sull’arguzia maliziosa delle battute che si scambiano. Il tenore Topi Lehtipuu ha una cavata piuttosto leggera, ma interpreta bene il carattere nobile e sdegnoso di Catone (anche perché alcuni dei recitativi più belli sono affidati a lui, come quello celebre del II atto, per definire Roma: «Ella è per tutto / dove ancor non è spento / di gloria e libertà l’amor natio; / son Roma i fidi miei, Roma son io»). Emöke Baraàth è un altro carattere vocale en travesti, poiché interpreta da soprano (ruolo in origine del castrato) il personaggio di Arbace: la voce è chiara e omogenea, precisa nelle ardite colorature della sua parte. La qualità musicale della registrazione è pari a quella esecutiva: il suono è pulitissimo, nitido, le voci e gli strumenti perfettamente calibrati, e l’ascolto dei tre cd è godibilissimo. Soltanto, oltre il rigore filologico con cui Curtis affronta e concerta l’opera, si vorrebbe che almeno ogni tanto nelle riprese ‘da capo’ delle tante arie i solisti si cimentassero in qualche variazione, in qualche espressione musicale dei sentimenti più intimi o più furiosi, e infine in qualche puntatura acuta un po’ più audace. Ma tant’è; l’aderenza al testo scritto e alla nudità della linea di canto riguarda anche la Vivaldi renaissance. – Piccola clausola nominalistica, sul fatto che i nomi all’opera siano «puri, purissimi accidenti»: vedova di Pompeo era Cornelia, mutata in Emilia «per comodo della musica» – scrive Metastasio – al pari del principe numida Iuba, divenuto Arbace; le ragioni del canto vincono perfino la Storia.