Recital pianistico di Benedetto Lupo alla IUC

Roma (“La Sapienza” Università di Roma), Istituzione Universitaria dei Concerti, Stagione 2013/2014
Pianoforte Benedetto Lupo
Johannes Brahms: Tre intermezzi op. 117; Sette fantasie op. 116
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Grande Sonata in sol maggiore op. 37
Roma, 26 novembre 2013
“Enfant prodige”, il pianista barese Benedetto Lupo debuttò addirittura all’età di tredici anni, suonando un concerto di Beethoven: un talento cristallino, che non è mancato di palesarsi all’Istituzione Universitaria dei Concerti, dove ha sostenuto un recital con musiche di Brahms e Čajkovskij. Un concerto dal programma meditato, che accosta compositori diversi ma in un certo senso legati (anche se per ragioni assai differenti) da un fil rouge spirituale d’un tormento argenteo.
La prima parte del recital è dedicata a Brahms, di cui si eseguono l’op. 116 e la 117 (del 1892-3), pezzi di grande sperimentazione strutturale e tonale, ma omogeneamente pervasi di un sentire larmoyant mitigato da pennellate più miti, non dico solari, ma certamente placide. L’op. 117 ‒ la prima a essere eseguita ‒ è composta di tre intermezzi dalle sonorità liederistiche: il I è intriso di squarci agresti e pastorali, di sonorità pastose che, dopo la copula del II, sfociano in una melanconica elegia, il III, cui l’uso semanticamente insolito della tonalità di do diesis minore conferisce respiri di aerea liberazione. Di seguito s’esegue l’op. 116, strutturalmente innovativa nel legare assieme capricci e intermezzi: basata su una sintassi musicale a anello (Ringkomposition), l’opera viene aperta da un capriccio in re minore (I) e terminata da un altro capriccio nella medesima tonalità (VII, poi variato in la minore) e contiene al suo interno una serie di tre intermezzi intimamente connessi tra di loro, a loro volta un anello nell’anello, un vero e proprio studio sulle tonalità algide e terse del mi naturale (IV mi maggiore ‒ V mi minore ‒ VI mi maggiore). Molto particolare risulta all’orecchio il contrasto tra il ritmo estremamente energico, dal virtuosismo lapidario, spezzato, dei capricci e la natura più meditativa degli intermezzi, di cui il IV ha l’apparenza di essere un aereo notturno. Dopo l’intervallo, Lupo fa una sintetica ma pertinente spiegazione del pezzo di Čajkovskij, la Grande sonata in sol maggiore op. 37. Nata come profonda e pessimistica riflessione sulla vita, la sonata (che ha il suo correlativo nella Quarta sinfonia in fa minore op. 36) è l’estrinsecazione musicale di un discorso complesso e sommariamente negativo, con il quale il compositore russo volle stigmatizzare e ‒ per così dire ‒ sublimare l’annus horribilis della sua vita, quel 1878 in cui naufragò il matrimonio di copertura con la Ivanovna Miljukov, quando i rumori sulla sua omosessualità lo laceravano («non credi che sia terribile pensare che le persone che mi amano possano talvolta vergognarsi di me! Sai che questo è successo centinaia di volte e accadrà ancora centinaia di volte». Così Čajkovskij scriveva mestamente, in una delle struggenti lettere indirizzate al fratello Modest, suo prediletto confidente e, come lui, omosessuale). Un leitmotiv inesorabile attraversa quest’opera monstrum, una sorta di sinfonia per pianoforte: è il parallelo del tema del fato della Quarta. Lupo suona benissimo, alternando tocchi vellutatissimi a potenti gesti (si pensi alla natura percussiva del movimento finale della Grande sonata): è emotivo nell’opera di Brahms (tecnicamente più semplice di quella ciaikovskiana), senza mai debordare nel melense, e energico, funero, a tratti freddo, inesorabile, nella sonata del russo. Dopo una rissa di applausi, il concerto si conclude con due suoi regali al pubblico: uno studio di Skrjabin e un pezzo di Schumann.