“La clemenza di Tito” conquista la Fenice

Teatro La Fenice, Lirica e balletto Stagione 2013-2014
LA CLEMENZA DI TITO”
Dramma serio per musica in due atti KV 621
Libretto di Caterino Mazzolà dall’omonimo dramma per musica di Pietro Metastasio
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart 
Tito Vespasiano CARLO ALLEMANO
Vitellia CARMELA REMIGIO
Servilla JULIE MATHEVET
Sesto MONICA BACELLI
Annio RAFFAELLA MILANESI
Publio LUCA DALL’AMICO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro concertatore e direttore Ottavio Dantone
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro al cembalo Roberta Ferrari
Regia Ursel e Karl-Ernst Herrmann
Scene, costumi e luci Karl-Ernst Herrmann 
Allestimento del Teatro Real di Madrid
Venezia, 24 gennaio 2014

Première de La clemeza di Tito alla Fenice, un’ titolo proposto in precedenza solo due volte al pubblico veneziano: nel 1973 in forma di concerto e nel 1986 in un allestimento firmato da Pier Luigi Pizzi. Grande attesa, dunque, per un melodramma dell’ultimo Mozart, caduto nell’oblio per decenni e recentemente rivalutato, a buon diritto, dalla critica. Un’opera dalla genesi travagliata, composto lottando contro il tempo come altri capolavori dell’estrema produzione del grande salisburghese.
All’inizio dell’agosto 1791 Mozart riceve una commissione, così urgente che deve lasciare ogni altro impegno: il Teatro Nazionale di Praga gli chiede insistentemente, a nome degli Eccelsi Stati di Boemia (i membri del governo austriaco residenti a Praga), di mettere in musica l’opera destinata a celebrare solennemente l’incoronazione di Leopoldo II a re di Boemia, che avrebbe avuto luogo il prossimo 6 settembre, ovvero neanche un mese dopo. Mozart ebbe tale incarico così tardi per il fatto che il lavoro era stato inizialmente offerto a Salieri, il più eminente musicista di corte,  il quale poi aveva rifiutato perché oberato di impegni a Vienna. Mozart, per quanto si trovasse in una situazione di surménage (si stava dedicando, in particolare, alla composizione della Zauberflöte), accettò la sfida, non senza pretendere che il vecchio libretto del Metastasio –  già musicato da una quarantina di compositori a partire dal Caldara in occasione dei festeggiamenti per l’onomastico del nonno di Leopoldo II, Carlo VI, nel 1734 – venisse  ridotto “a vera opera” (come il musicista annoterà nel catalogo delle opere da lui redatto), affidando il compito a Caterino Tommaso Mazzolà – allora temporaneamente poeta dei teatri imperiali – nato a Longarone, ma di origini muranesi (come Piave). Il poeta sottopose il testo di Metastasio ad una drastica riduzione da tre a due atti, volta alla concentrazione dell’azione (com’era prassi comune alla fine del Settecento per i drammi metastasiani) e provvide alla sostituzione di molte arie dell’impianto originale, con arie e pezzi d’insieme completamente nuovi. Per quanto riguarda questi ultimi, la partitura mozartiana ne conta ben otto, tra cui i due finali d’atto. In particolare, il quintetto “Deh conservate, o dei” nel finale primo, scandito dalle entrate in successione dei diversi personaggi, è il vertice espressivo dell’intero lavoro,  in cui la progressione del dramma è affidata  a un’unità musicale formalmente compiuta con il coro sullo sfondo, che – come in una tragedia greca –  riferisce sul rapido incalzare della congiura ai danni di Tito. Tra le arie “nuove”, due, in forma di rondò, sono di fondamentale importanza drammaturgica, in quanto preparano lo scioglimento dell’intricata vicenda: “Deh per questo istante solo” segue il drammatico recitativo tra Tito e l’amico-traditore Sesto, disposto ormai ad accettare la condanna da parte dell’amico-imperatore; “Non più di fiori”, l’ultimo brano solistico dell’opera, esprime il rimorso di Vitellia per l’imminente morte di Sesto: una pagina straordinaria, in cui  l’intervento del corno di bassetto, prediletto da Mozart negli ultimi anni di vita (si pensi al concerto per questo strumento e orchestra in la maggiore  KV 622 composto due mesi prima di morire) è di rara efficacia espressiva nel conflitto interiore che tormenta l’ambiziosa figlia del predecessore di Tito.
Quanto ai risvolti politici della vicenda, non si può non cogliere l’influenza di Voltaire.“Tout pour le peuple, rien par le peuple” (Tutto per il popolo, nulla dal popolo) sentenziava pessimisticamente il filosofo illuminista – fervente ammiratore di questo dramma metastasiano, perché vi vedeva espressa icasticamente la sua teoria dell’assolutismo illuminato – esprimendo una radicale sfiducia nelle masse popolari, in una visione ancora per certi versi “aristocratica” della politica. Ma nel luglio del 1791, dopo Varennes e la sanguinosa manifestazione repubblicana nel Campo di Marte, l’ideologia dell’assolutismo illuminato non era più credibile. Così il messaggio lanciato dall’opera di Mozart-Mazzolà, seppur in una rinnovata, pregevole veste drammaturgia, non era, all’epoca in cui apparve sulla scena, dei più esaltanti per chi nutriva sentimenti genuinamente democratici: le sorti di Roma sono nelle mani di un imperatore, combattuto (a parte il deus ex machina finale) tra rigore e clemenza, nonché frustrato in amore, che abbastanza spesso si rivela impulsivo e irrazionale al pari del popolo che dovrebbe tutelare. Nondimeno la mozartiana Clemenza di Tito è un capolavoro, che in molte pagine non ha nulla da invidiare alla contemporanea Zauberflöte (si pensi all’importanza del coro)  o al Don Giovanni (nella scena della congiura): e il valore aggiunto è ovviamente soprattutto quello della musica come si è potuto constatare nel corso dello spettacolo veneziano, doverosamente preceduto da un minuto di silenzio in memoria del maestro Claudio Abbado, scomparso da pochi giorni, lasciando un vuoto incolmabile. La clemenza di Tito è stata riproposta alla Fenice nello storico allestimento, risalente al 1982, ideato dai coniugi tedeschi Ursel e Karl-Ernst Herrmann, responsabili anche di scene, costumi e luci.
La scena essenziale, dai tenui colori – gradazioni di verde acqua – in gran parte fissa, si rivela uno spazio particolarmente adatto a mettere in valore i vari elementi, più o meno simbolici, che caratterizzano questa messinscena: dal marmoreo trono imperiale, al porticato, sotto cui si erge una statua alata che appare sul fondo a suggerire il Campidoglio, al massiccio cubo che cala con sinistra lentezza dal soffitto nel momento cruciale della prevista condanna di Sesto per poi risalire quasi sospinto dalla leggerezza del perdono da parte del magnanimo imperatore. Sobri, ma di buon gusto, anche i fantasiosi costumi, che oscillano tra un Settecento stilizzato e la modernità, inducendoci a collocare la vicenda in una sorta di tempo misto. Lunghi soprabiti si attagliano ai ruoli maschili, fatta eccezione per Publio che sfoggia un frac nero dalle smisurate code sotto cui porta una balenante corazza. Di varie fogge e colori quelli dei personaggi femminili, sempre comunque funzionali ai vari momenti del dramma: color fuxia per la sensuale Vitellia nella scena in cui trama vendetta contro Tito, bianco con l’orlo della gonna colorato quando Tito la elegge a sua futura sposa. Così Servilia indossa un abitino bianco a pois rossi rivelando a Tito la sua impossibilità di amarlo, mentre è vestita sobriamente di nero di fronte alla freddezza di Vitellia, che la notizia della condanna di Sesto non smuove dal suo egoismo. Una messinscena credibile ed efficace – anche grazie a un indovinato, e calibrato, uso delle luci – senza la solita frenesia di stupire a tutti i costi. Unico appunto, che ci permettiamo di fare: una gestualità talora un po’ troppo realistica, in particolare nelle effusioni tra Vitellia e Sesto, in cui quest’ultimo tenta di alzarle la gonna. Non è certo per moralismo che lo segnaliamo, ma perché una simile gestualità, esteriorizzando eccessivamente il dramma, cozza, a nostro avviso, contro la classica compostezza, l’introspezione sottile degli affetti, che rivela la musica.
Assolutamente all’altezza dell’allestimento scenico il cast, quanto a mezzi vocali, sensibilità interpretativa, fraseggio, presenza scenica. Tragica e sensuale la Vitellia di Carmela Remigio, soprano dalla voce estesa ed omogenea nei vari registri, sfavillante nei sonori acuti, ma anche capace di mezze voci e sfumature, che ha sfoggiato note sempre ben centrate e ricche di armonici, affrontando la tessitura molto ampia prevista da Mozart per la sua parte, oltre che precisione nelle colorature. Notevole la sua prestazione a cominciare dalla prima delle sue arie, “Deh se piacer mi vuoi”, fino alla ricordata “Non più di fiori”, culmine di un’interpretazione tesa a rivelare gli oscuri recessi dell’animo del personaggio.
Analoga la performance del mezzosoprano Monica Bacelli, nella parte en travesti di Sesto, che ci ha regalato un personaggio reso tenero e spregiudicato dall’amore, segnalandosi in “Parto, parto, ma tu ben mio” e successivamente, in “Deh per questo istante solo” – forse l’aria più bella dell’opera – interpretata con intensità espressiva anche nella sua sezione più mossa; ma si è fatta apprezzare anche nel quintetto “Deh conservate, o dei”, dove è apparsa trascinante. Irresistibili le due interpreti quando cantavano insieme. Autorevole Carlo Allemano nei panni di Tito, tenore di grande professionalità, che ci ha consegnato un imperatore ora ambiguo e roso dal dubbio ora nobile e solare, sorretto da una voce imponente. La sua interpretazione è apparsa particolarmente autorevole nelle due arie “Del più sublime soglio” e “Ah, se fosse intorno al trono”. Raffaella Milanesi (Annio), soprano dalla voce limpida, si è messa in luce anche per la disinvoltura mostrata sulla scena, rivelandosi intensa e vocalmente ineccepibile in “Torna di Tito a lato” e in “Tu fosti tradito”, mentre Julie Mathevet (Servilia) ha brillato con la sua  voce leggera nel duetto con Annio “Ah, perdona al primo affetto” e nell’unica sua aria “S’altro che lacrime”. Luca Dall’Amico è stato un  Publio virile, anche grazie alla sua ben timbrata voce di basso, in particolare nell’aria a lui affidata “Tardi s’avvede d’un tradimento”. Irreprensibile il coro, come sempre ben istruito da Claudio Marino Moretti, da “Serbate, o Dei custodi” a “Che del ciel, che degli Dei”. In buona forma l’orchestra del Teatro La Fenice, guidata da un Ottavio Dantone, preciso ed attento alle esigenze del canto, per quanto in certe pagine, come nell’ouverture, certe marcature dinamiche, ci sono apparse eccessive. Successo calorosissimo per tuttti. Ovazioni per gli interpreti dei ruoli principali. Foto Michele Crosera