Opera seria in tre atti, libretto di Pietro Metastasio (revisione di Francesco Algarotti). Theresa Holzhauser (Didone), Flavio Ferri-Benedetti (Enea), Valer Barna-Sabadus (Iarba), Magdalena Hinterdobler (Selene), Maria Celeng (Araspe), Andreas Burkhart (Osmida). Hofkapelle München, direttore: Michael Hofstetter. Registrato live al Prinzregententheater, Monaco (Germania) 24 maggio-1 giugno del 2011. © 3CD Naxos 2013, 8.660323-25.
“Didone abbandonata”: atto primo – atto secondo – atto terzo
Tra le versioni operistiche della Didone abbandonata (1724), prima tragedia-libretto dal celebre Pietro Metastasio, quella del «divino sassone» Johann Adolf Hasse è certamente la meno conosciuta e rappresentata – a paragone di quella del Sarro, dello Jommelli e di Mercadante –, né ha un posto di particolare privilegio tra le moltissime composte dal prolifico tedesco. La struttura della tragedia, una sequela di recitativi e arie, è quella tipicamente apollinea, dalla versificazione sciolta e sublime, cara alla penna del Metastasio, che con Hasse condivideva, inoltre, un’amicizia.
Michael Hofstetter dirige bene i membri della München Hofkapelle, alternando a momenti di languore patetico, attimi di sintetica energia, autenticamente drammatica (soprattutto nei recitativi), a tratti violentemente impetuosa: il tutto si scorge già nell’ouverture, che ci immerge in un’atmosfera palaziale, venata di malinconia. Il mezzosoprano Theresa Holzhauser interpreta Didone: dotata di una voce tutto sommato timbricamente abbastanza comune, si distingue per un buon fraseggio, non privo di qualche intoppo di pronuncia, e per una buona musicalità. Tranne la sua prima aria (I atto), “Son regina e son amante”, dove dev’essere risoluta, nelle altre si adagia – come richiede il personaggio – su toni sentimentali, elegiaci, larmoyants, patetici: affronta così “Non ha ragione ingrato”, “Ah non lasciarmi no” (II atto) – straziante lamento di un’amante abbandonata, un’aria-monstrum estremamente articolata –, l’aria-finale II “Va lusingando amore”, onirico, fatato lamento d’infelicità amorosa (magnifiche le strazianti note dissonanti), per concludere con la pateticissima “Ombra cara, ombra tradita” (III atto; assai intenso il recitativo accompagnato), e col finale III dove, dopo l’arioso “Vado…Ma dove…Oh dio”, accettando sconsolatamente il suo destino (con una nota metateatrale) si immola fra le ceneri della reggia in fiamme – finale sintetico e drammatico. Il controtenore Flavio Ferri-Benedetti, figlio della nuova generazione controtenorile italiana, è Enea. Vera star della produzione, dalla voce calda e melliflua, è delicatissimo nei recitativi (alcuni momenti sono memorabili per intensità e pathos) ed è un buonissimo fraseggiatore. Il tutto si palesa già nella sua prima aria, “Quando saprai chi sono” (I atto), dov’è energico, tecnicamente ineccepibile; continua nella sua aria-finale I “A le mie amorose follie” – “Se resto sul lido”, scolpendo il sofferto recitativo e eseguendo un’aria di gran difficoltà, cesellando il tutto con tocchi e abilità tecniche; abbellisce la sua ultima aria, “A trionfar mi chiama” (atto III), lungamente articolata, tirando fuori numerosi picchiettati. Iarba viene cantato da Valter Barna-Sabadus, altro controtenore: una voce brunita, bella e delicata. Sciorina notevoli capacità tecniche, in arie dal forte sapore passionale: si ascoltino i trilli e le mezzevoci di “Tu mi disarmi il fianco” (I atto), i funambolici salti, i pianissimi, gli improvvisi smorzando, le messe di voce e la fissità dell’emissione sonora (con un vibrato in coda appena accennato) di “Chiamami pur così” (II atto), oppure le intimistiche interpretazioni di “Leon, ch’errando vada” (II atto: un delicato intermezzo dal sapore arcadico) e di “Cadrà fra poco in cenere” (III atto). Voce non particolarmente bella, fraseggio stentoreo, ma buon controllo tecnico nelle difficoltà floreali, ha la Selene di Magdalena Hinterdobler: nelle arie del II atto, risulta delicata in “Ogni amator suppone”, agitata con le spericolate fioriture in “Veggio la sponda”. Assai emozionante l’interpretazione di Araspe – tipico personaggio dell’amante disprezzato – da parte di Maria Celeng, che vanta una bella voce e un nobile fraseggio. Non ha cali di sorta nelle sue tre arie: “L’augelletto in lacci stretti” (II atto), autentico gioiello, dove la voce dialoga con un delicatissimo flauto; “Tacerò se tu lo brami” (II atto) e “Già si desta la tempesta” (III atto), dove rende bene le difficoltà di passaggi (scale, fioriture, messe di voce ecc.). Andreas Burkhart (Osmida), seppure dotato di buona voce, discreti fraseggio e musicalità, è afflitto da una pessima pronuncia: fa il suo dovere di baritono barocco, più nell’interpretazione che nella tecnica. In “Tu mi scorgi al gran disegno” (I atto), canta bene, assai delicato nella sezione di mezzo (un intermezzo bucolico-contemplativo), benché gli abbellimenti non siano degnamente sgranati; un buon legato si sente in “Quando l’onda che nasce dal monte” (III atto), con buone fioriture, ma il problema del fraseggio si fa sentire tutto.
Una buona intuizione commerciale della Naxos, insomma, che sceglie di editare un titolo sconosciuto, rarissimo; il cast canoro è abbastanza azzeccato, pur con alcuni (dovuti) limiti. Dopo l’ascolto, rimane il piacere di aver goduto di quest’opera, dalle ricche atmosfere, in un periodo – almeno da un decennio a questa parte – di seria Baroque renaissance.