Uno Stradivari di nome Lady Inchiquin

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Violino Frank Peter Zimmermann
Béla Bartók: Concerto [n. 1] per violino e orchestra (op. postuma) Sz 36
Maurice Ravel: Tzigane, rapsodia da concerto per violino e orchestra
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
Torino, 30 gennaio 2014   

La commissione da parte di una ricca ed estrosa aristocratica irlandese, la creazione nel 1711, l’appartenenza a Fritz Kreisler, e ora il più che decennale utilizzo da parte di Frank Peter Zimmermann (per concessione della Portigon AG, attuale proprietaria). Tutto, insomma, dalla storia secolare all’eccezionale bravura di chi lo utilizza, concorre al fascino e al mistero che avvolgono il violino Stradivari protagonista del tredicesimo concerto della stagione OSN RAI a Torino. Tanto più che a Zimmermann sono affidati due brani molto diversi (anche se meno di quindici anni separano la loro composizione), come il raro concerto che Bartók scrisse poco più che venticinquenne (pubblicato ed eseguito postumo, soltanto nel 1958, a causa della pudica – e un po’ bisbetica – dedicataria), e Tzigane di Ravel (che invece è un tipico brano virtuosistico, ben conosciuto dalle platee di tutto il mondo).
Già la settimana scorsa al centro del programma RAI figurava Bartók, con i Quattro pezzi per orchestra op. 12; la sua nuova presenza è molto felice, soprattutto per la competenza e la sicurezza con cui il direttore principale dell’OSN ne affronta le opere nel corso di più occasioni, e ovviamente anche perché offre la possibilità a Zimmermann di presentare per la prima volta nelle stagioni torinesi della RAI il concerto d’esordio del compositore ungherese. L’opera si apre con una sorta di segnale cifrato in Andante sostenuto, un piccolo tema di quattro note detto “Leitmotiv di Stefi”, ossia una cellula musicale che s’identifica con Stefi Geyer, la studentessa dell’Accademia Musicale di Budapest alla quale il compositore dedica l’opera, tra 1907 e 1908, per esprimerle il suo amore. È davvero bello che nell’iniziale presentazione di tale tema il primo violino dell’OSN Alessandro Milani tenga testa a Zimmermann nel breve duetto; del resto – vale ricordarlo nel confronto tra strumenti – anche il violino di Milani risale proprio al 1711, ed è un Francesco Gobetti messo a disposizione dalla Fondazione Pro Canale. A imporsi, comunque, è subito la sonorità dello Stradivari: persino nei momenti di pieno orchestrale, quando Valčuha non è certo parco nei volumi, una lama di luce brilla sulla massa sonora, ed è il timbro chiaro del violino solista, con il suo vibrato dolcissimo, appena percepibile. La pacatezza del periodare del I movimento è quanto di meglio possa adattarsi all’espressività dello Stradivari, lontano da ogni facile effetto virtuosistico. Nel II movimento (Allegro giocoso – Meno allegro e rubato – A tempo [ma più quieto]) Zimmermann può valorizzare anche le sue capacità tecniche, specialmente negli impervi passaggi di uno stile grottesco e graffiante (che ritrae il carattere della dedicataria). L’orchestra non ha un ruolo musicale parallelo allo strumento solista, ma si limita per lo più ad accompagnarlo, tranne in alcune sezioni di passaggio, invero non troppo significative. La direzione di Valčuha si distingue per equilibrio e correttezza, anche nell’articolato finale (Tempo I – Vivo – Molto sostenuto – Poco più agitato – Lento – Tempo I); precisione calligrafica e sobrietà caratterizzano sempre Zimmermann, che non forza mai l’intensità sonora dello strumento, e non certo per risparmiare energia. Semplicemente perché non ce n’è bisogno: come se il violino si regolasse sulla base delle richieste della partitura, secondo un naturale e vitale meccanismo di adattamento.
Dopo Bartók, la platea di Torino ha un altro privilegio d’ascolto, per un brano celebre, che però Zimmermann non esegue in pubblico da dieci anni; e l’assenza di Tzigane dalle ultime stagioni del virtuoso fa sì che il ritorno a questo spartito non abbia nulla di manierato, di civettuolo, di collaudato: la qualità interpretativa si staglia subito, nelle 58 battute d’esordio esclusivamente affidate al violino. Ogni nota dello Stradivari brilla dell’intero spettro dei colori; l’ascoltatore, anzi, ha l’impressione di sentire almeno due violini, non tanto per il volume del suono, quanto per la diversità interna delle voci e per la ricchezza di tinte e sfumature. Sul tappeto dell’introduzione violinistica s’innesta poi nitidissima l’arpa di Margherita Bassani (che sarà protagonista del prossimo concerto RAI); ed è grazie all’intesa perfetta tra direttore e violinista che anche in Tzigane si percepisce quel timbro sonoro così affascinante e un po’ nostalgico, di musica del carillon, tipico di Ravel. Ma Zimmermann riesce a evitare quegli effetti un po’ triviali, volti alla pura emozione virtuosistica, che sovente caratterizzano il repertorio per violino in generale e Tzigane in particolare («costruita con scaltrita artificialità e l’estetica che la ispira è veramente “vieux jeu”», scrive Enzo Restagno in Ravel e l’anima delle cose); il solista preferisce invece ricorrere all’ironia, allo scherzo garbato, alla signorile sprezzatura. Il trionfo tributato dal pubblico convince infine il solista a concedere un bis: il preludio in mi maggiore di Bach, iniziale della Partita n. 3. Ed è straordinario come dai colori di Ravel Zimmermann sia capace di trascorrere alle trasparenze (anzi, alle esaltazioni) del “bianco”, della purezza bachiana; il che lascia il pubblico semplicemente incantato.
Nella seconda parte del concerto torna protagonista l’orchestra, perché Valčuha propone la Sinfonia n. 7 di Beethoven. Prova impegnativa, che il direttore supera egregiamente, senza alcuna esitazione o incertezza. È la solenne cadenza del timpano a guidare tutto il Poco sostenuto – Vivace con cui la sinfonia si apre, anche se si percepisce come Valčuha persegua l’omogeneità del suono (ben diversamente dalle bizzarrie pluricromatiche che Mikhail Pletnev ha voluto ostentare, sempre a Torino, nel corso di un recentissimo concerto presso l’Auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto). Ma il particolare più interessante è il rispetto di quell’afflato alla danza, che richiama la definizione wagneriana della Sinfonia n. 7, appunto quale “apoteosi della danza”. Il celebre Allegretto è decisamente più scorrevole del solito, ma non affrettato; il direttore decide infatti di non concedere nulla alla solennità cadenzata della marcia funebre, ma di evocare piuttosto il mesto volteggio di un danzatore. E a questo proposito Valčuha insiste sul legato tra le cellule metriche alla base della costruzione musicale (dattilo + spondeo), in maniera tale che i frammenti ritmici siano poco riconoscibili, perché fusi in un procedere molto più sciolto e fluido, eppure sempre preciso (encomiabili, a questo proposito, gli archi). La danza si fa più frenetica nella struttura speculare del Presto – Assai meno presto – Presto, senza però eccedere né nel ritmo né nella sonorità: il Beethoven di Valčuha non è né nevrotico né soggetto ad alcuno scatto nervoso, di quelli che proiettano da uno stato d’animo a un altro; il suo Beethoven è quindi coeso, tanto nella tensione verso la danza quanto nella moderazione dello spettro sonoro, poiché il passaggio dal piano al forte non è mai troppo accentuato. Il momento più imponente coincide con il finale del III movimento, com’è giusto che sia. Forse sono di gusto un po’ pompier attacco e sviluppo del finale Allegro con brio, anche se spicca la bravura degli ottoni; appena un velo di pesantezza basta per far sfumare un poco quell’allure di perdurante danza nata in apertura. Ma l’effetto complessivo, confermato dall’unanime e prolungato entusiasmo dei presenti, è quello di uno tra i concerti meglio riusciti dall’inizio della stagione.