Concerto diretto da Nicolas Krause

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Sinfonica 2013/2014
Orchestra dell’Arena di Verona
Direttore Nicolas Krause
Tromba Massimo Longhi
Pianoforte Roberto Cominati
Dmitrij Sostakovic: Concerto n. 1 op. 35 per pianoforte e tromba
Maurice Ravel: Concerto per la mano sinistra in re maggiore
Bela Bartok :Concerto per orchestra
Verona, 8 febbraio 2014
Il terzo concerto della stagione sinfonica del teatro filarmonico di Verona vede un programma dedicato al primo novecento, descritto grazie ad un ricco contrasto tra la prima parte, imperniata sul pianoforte solista con il Concerto per pianoforte e archi n°1 con tromba concertante di Dmitri Sostakovic e il concerto per mano sinistra di Maurice Ravel, e la seconda parte con protagonista “solista” l’orchestra nel Concerto per orchestra di Bela Bartok. Alla bacchetta il francese Nicolas Krauze debutta al Teatro Filarmonico, mentre  al pianoforte Verona accoglie il gradito ritorno di Roberto Cominati, profondo interprete della musica di Ravel. Cominati mostra in Shostakovic grande eleganza e pulizia del suono, con un controllo nitido e preciso del gesto, in un concerto che presenta difficoltà tecniche e dialettiche non indifferenti. L’orchestra d’archi ha sostenuto il solista efficacemente lasciando ampio spazio di manovra per un dialogo snello e senza tentazioni di strascichi o pesantezze. Encomiabile poi il suono cristallino della tromba concertante di Massimo Longhi nello scambio col solista all’ apice espressivo del secondo movimento, avvolti da un soffice e riuscito pianissimo degli archi. Il Concerto per mano sinistra di Ravel presenta, al contrario di dell’opera di Sostakovic precedentemente eseguita, una compagine orchestrale imponente (si pensi solo alla grave sarabanda inziale dominata dal controfagotto) che pone in seria difficoltà la presenza solistica del pianoforte. L’equilibrio della scrittura raveliana viene però colto appieno dal pianista che sa imporre la sua presenza molto efficacemente, grazie, nuovamente, ad un sovrano controllo dello spazio tastieristico. Il pianista chiarifica infatti la ricchezza di timbri e raffinatezze tematiche che, quasi paradossale, si trova ad esporre ad una sola mano. L’orchestra ha risentito indubbiamente della mancanza di camera acustica, trovandosi gli archi a suonare nel prolungamento del palco e sbilanciando quindi il volume sonoro nella direzione dei fiati. Sicuri però i numerosi interventi solistici del concerto, dal fagotto al trombone con sordina, che riescono a delineare con precisione la scrittura chiaramente cameristica del pezzo. Senza problemi poi Cominati gestisce la viva, seppur stranamente tesa, materia musicale quasi grottesca della seconda parte del brano, con quella presenza marziale del rullante, che del bolero è solo un eco, alleggerita in parte da elementi jazzistici del linguaggio. Fluidissima e sempre elegante infine la cadenza, con quel gusto tipicamente francese per il gesto arpeggiato, che porta alla conclusione “bipolare” di questa opera, testimone del nervoso clima dell’Europa tra le grandi guerre. La seconda parte del concerto vede l’esecuzione della complessa partitura del Concerto per Orchestra di Bela Bartok. Questo lavoro, scritto dal compositore ungherese nel ’44 per la Boston Symphony Orchestra, si pone infatti l’obiettivo di dare ad ogni famiglia di strumenti, e quasi ad ogni strumento, la partecipazione attivissima, concertante appunto, alla materia musicale del brano. Il linguaggio bartokiano si smussa delle asperità del periodo ungherese, mantenendo però distillati i paradigmi linguistici del compositore. L’esecuzione ha, qui più di prima, risentito della sfavorevole disposizione orchestrale: Bartok infatti caratterizza gli archi con una varietà di articolazioni e gesti che, se non compattati a dovere, sgranano l’ambiente fonico invece di unificarlo. Molto decisa di compenso la partecipazione degli ottoni nel primo movimento, che permette quindi di apprezzare sia i momenti corali, “bartokianamente” folkloristici, e sia le grandi pennellate sonore d’insieme che hanno in questa partitura scoperta potenza gestuale. I due movimenti di intermezzo, il giuoco delle coppie e l’intermezzo interrotto, vengono condotti da una bacchetta scaltra, che stacca dei tempi assai veloci, rischiando la perdita di definizione di alcuni dialoghi tematici, permettendo però così di non allentare la tensione generale del brano. Tale tensione si trasfigura poi nell’ Elegia, tragica testimonianza introspettiva di un compositore percorso da tensioni quasi archetipiche, caratterizzata da contrasti timbrici, gesti spigolosi ed esplosioni foniche di mirabile vertigine. Il finale è senza dubbio una pagina di complessità e difficoltà mirabili: la rapsodicità del gesto connessa alle condotte scopertamente contrappuntistiche degli strumenti, il tutto portato però con rapide virate ad un insieme compattissimo su incisi tematici pregnanti e poi riportato a zone di sereno, ma non facile, cameristico contrappunto con altrettanta rapidità, fa di questo tempo un prodigioso esempio di maestria compositiva. Il gesto direttoriale qui diviene un po’ nervoso e agitato con l’orchestra che perde, proprio per la rapsodicità intrinseca del movimento, compattezza generale. Buona senza dubbio la gestione degli impasti tra legni ed archi nei momenti squisitamente contrappuntistici. L’esecuzione complessiva del brano restituisce sicuramente i gesti e le caratteristiche dell’ultimo Bartok, trasmettendo efficacemente la tensione e le incrinature di una estetica compositiva edulcorata sì dall’ambiente americano ma vitalmente intrecciata alla matrice più profondamente mitteleuropea.