«Di qual tetra luce» il Trovator risplende

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
 “IL TROVATORE”
Dramma in quattro atti. Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna SIMONE PIAZZOLA
Leonora MARIA AGRESTA
Azucena EKATERINA SEMENCHUK
Manrico CARLO VENTRE
Ferrando ROBERTO TAGLIAVINI
Ines MARZIA CASTELLINI
Ruiz MASSIMILIANO CHIAROLLA
Un vecchio zingaro ERNESTO PANARIELLO
Un messo GIUSEPPE BELLANCA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia, scene e costumi Hugo De Ana
Luci Marco Filibeck
Movimenti coreografici Leda Lojodice
Produzione Teatro alla Scala
Milano, 20 febbraio 2014         

Quali dovrebbero essere gli elementi indispensabili oggi per un buon Trovatore? Supponiamo per un momento di dover dare ragione ai fautori della regia aggiornata, dello spettacolo che prima di tutto comunichi affetti e sensualità, conflitti (anziché eroismo), provocazioni (anziché valori), dramma (anziché melodramma). Neppure così verrebbe meno l’idea – meno ovvia di quanto potrebbe sembrare – che per un buon Trovatore sono indispensabili voci qualificate, e possibilmente voci verdiane, oltre a un direttore d’orchestra che abbia studiato a fondo la partitura. Modernità e vocalità, dunque, alla base di una buona riuscita. La ripresa dell’allestimento che inaugurò la stagione scaligera 2000-2001 non ha nulla di completamente moderno: né nella parte scenica, né nella compagine vocale né nella direzione orchestrale. Anni fa si diceva che Il trovatore dovesse essere musicalmente “ruspante”, effettistico, aggressivo, perché tra tanti melodrammi popolari sarebbe quello verdiano che più parla alla pancia del pubblico, prima ancora che al cuore o al cervello; si diceva che fossero necessari un direttore trascinante e un tenore espada, in grado di appagare il pubblico con squillanti do acuti. Nulla di più penosamente superficiale; Riccardo Muti dimostrò, quattordici anni fa, come quella del Trovatore fosse una partitura straordinaria, finissima ma irta di difficoltà. Il colore orchestrale dell’opera è sfuggente ed enigmatico; Muti lo scelse di tinta vivace e fredda, e fu definito “neoclassico” o addirittura “algido”. Ora Daniele Rustioni sceglie una via di mezzo tra gli empiti della tradizione direttoriale e la lezione dello stesso Muti (propendendo più per quest’ultima che per i primi). La ricerca più interessante del giovane direttore riguarda i colori: nella brevissima introduzione, per esempio, ne individua uno opaco, come di un suono lontano e ovattato, molto suggestivo. In molti passaggi Rustioni si rivela poi ottimo accompagnatore dei cantanti, perché valorizza la scansione ritmica interna a varie scene (recitativo – romanza – cabaletta), e dunque esalta le differenze nello stile vocale; rende percepibile la trama degli archi in ogni singola fibra; è anche molto abile a suscitare il senso di dramma incalzante grazie ad accorte scelte agogiche (bellissimo, a tale proposito, il terzetto del finale I). In altri momenti, invece, la concertazione è difettosa, non c’è accordo tra orchestra e voci, il direttore anticipa, poi è costretto a rilassare il tempo per “recuperare” il cantante, con effetti che guastano il ritmo dell’insieme. Il che avviene soprattutto con la parte del tenore: clamorose le accelerazioni in «Mal reggendo all’aspro assalto» del II atto e in «Ah sì, ben mio, coll’essere» del III. Non è che Rustioni proceda a grande velocità; il problema è che “corre” più dei cantanti, e si condanna a continui correttivi e aggiustamenti in corso di esecuzione. La quadratura è a volte difettosa anche nei confronti del coro: ed è un vero peccato. Quel colore strumentale così intrigante, ottenuto soprattutto dall’amalgama di violoncelli e fiati, avvertito all’inizio e poi gradatamente dissolto, ritorna ancora nel duetto del IV atto tra Leonora e il Conte.
La compagnia vocale esordisce con atteggiamento un po’ incerto, forse a causa di due sostituzioni dell’ultimo momento; ma va detto che nella seconda metà dell’opera (felicemente presentata con un unico intervallo tra II e III atto) tutti migliorano sensibilmente, e conducono a termine lo spettacolo con buona e unanime soddisfazione di tutto il pubblico. Sul fronte femminile erano in locandina Lucrecia Garcia (Leonora) e Luciana D’Intino (Azucena); ma, entrambe influenzate, sono sostituite dalle interpreti della prima rappresentazione, Maria Agresta ed Ekaterina Semenchuk. Debuttano invece i protagonisti maschili della seconda compagnia. Ascoltare Maria Agresta è sempre motivo di soddisfazione: prima di tutto è un’autentica voce verdiana (unica del cast), a partire da una linea di canto che permette di comprendere perfettamente tutte le parole (e anche in questo si distingue dagli altri); poi si apprezzano il legato, l’arte della sfumatura, il buon gusto nella scelta di corone e sopracuti. C’è appena un velo di opacità nella cadenza finale di «Tacea la notte placida», prima della cabaletta (che è ripetuta, senza variazioni, con qualche piccolo problema di appoggio delle note basse). Ma la prestazione della Agresta va crescendo nel corso della serata, e culmina con «D’amor sull’ali rosee»: l’attacco non è dolcissimo, perché la cantante sceglie un’espressività molto dolorosa, che giustifica anche il velo sugli acuti in pianissimo; ma ancor più della filatura conclusiva spiccano i trilli, un virtuosismo tecnico in cui il soprano è davvero magistrale. Ottima anche la cabaletta conclusiva «Tu vedrai che amore in terra», opportunamente iterata secondo la consuetudine originale.
Ekaterina Semenchuk (Azucena) gioca tutto sull’attacco di «Stride la vampa! La folla indomita», che infatti è molto convincente; nonostante il volume vocale ragguardevole e l’abilità tecnica (per esempio nei tremuli e nei trilli) la voce risuona però intubata, e soprattutto spezzata nelle varie zone del registro: le note basse emesse di petto e con voce schiacciata sono di gusto discutibile (quando non di effetto “veristico” e senza armonici; insomma, per nulla verdiane); quelle alte sono rese meglio in «Condotta ell’era in ceppi al suo destin tremendo», ma sembrano provenire da un’altra voce. La Semenchuk è comunque ottima attrice, e supplisce bene con il gesto e con l’espressività alle mancanze vocali. Convince del tutto nel duetto e nel finale dell’opera («Ai nostri monti… ritorneremo!»).
Sin dal preludio accompagnato dall’arpa, quando canta fuori scena, Carlo Ventre (Manrico) denuncia tutti i difetti che si ripresenteranno in seguito: la fretta, un nervosismo che tutto compromette, il vibrato troppo largo, un timbro non felicissimo, che va impoverendosi nel registro acuto. Sia chiaro, la tecnica di Ventre è più che rispettabile, ma la linea vocale è viziata da un errore fondamentale, oltre alle tendenze già ricordate: voler continuamente “gonfiare i muscoli”, volere a tutti i costi cantare con fiati potenti; questo sottopone il cantante a uno sforzo che non ripaga quasi mai. Nel momento più atteso da tutti, il III atto, Ventre offre comunque il meglio di sé: la voce è più calda e omogenea rispetto ai primi due atti, e risuonano decorosi i due do acuti nella cabaletta «Di quella pira l’orrendo foco». Piuttosto, lascia molto perplessi la scelta di non iterare tale cabaletta (a differenza di quanto accaduto per tutte le altre), pur di conservare il famigerato do4 su «All’armi»: «non è obbligatorio pagare il dazio a nessun acuto aggiunto da qualsivoglia tradizione» (per riprendere le parole di Marco Beghelli a conclusione del contributo al programma di sala, Ma il do della “Pira” bisogna farlo?).
Simone Piazzola (e non Piazzolla, come stampato in locandina) è un giovane baritono, impegnato nel difficile ruolo del Conte di Luna; forse per l’emozione e per il timore, canta in modo un po’ dimesso, come se non fosse del tutto partecipe del personaggio. Il suo timbro è buono, si guadagna certamente il consenso del pubblico (in particolare dopo l’aria più celebre dell’opera, «Il balen del suo sorriso»), ed è auspicabile per lui un’ottima carriera; ma almeno di un suggerimento dovrebbe tener conto, ossia limitare il ricorso al portamento di voce, che invecchia molto la linea di canto e penalizza qualunque intento espressivo. Roberto Tagliavini (Ferrando) è un cantante dalla voce chiara e dall’emissione elegante; cerca anche di fraseggiare bene e di riuscire persuasivo, ma la cavata non sembra quella di un basso, perché troppo leggera; e poi annaspa negli acuti come nelle note basse (sin dalla sortita «Di due figli vivea padre beato […] Abbietta zingara, fosca, vegliarda!», anche a causa del tempo rapido, efficacissimo ma arduo da sostenere, di Rustioni). Voce chiara ma corretta quella del vecchio zingaro di Ernesto Panariello, una colonna solidissima dei comprimari scaligeri; buoni gli altri interpreti delle parti secondarie. Molto buono il coro istruito da Bruno Casoni, in gran spolvero all’inizio del III atto per «Squilli, echeggi la tromba guerriera» (come sempre, il gruppo maschile è impeccabile). Spade sguainate, brandite, alzate, cupe emergenze architettoniche, macchine da guerra, costumi dai colori pastello e di taglio oleografico, ambientazione sempre tetra e notturna. Il Trovatore di Hugo De Ana, responsabile di regia, scene e costumi, mostra anche più dei suoi quattordici anni, soprattutto quando i singoli quadri diventano una riproposizione delle antiche figurine Liebig. Lo stile è questo: su tutto domina il riflesso metallico del ferro, delle armi e delle costruzioni militari; in particolare accusa gli anni trascorsi l’enorme struttura argentea in polistirolo (o simili) che funge da muraglia, bastione, e che non smette di aprirsi e chiudersi (come andava di moda negli allestimenti tra fine anni Novanta e inizi Duemila). In tutti i costumi rifulgono l’azzurro, il blu di lapislazzulo, il viola pallido, nelle tuniche, nelle fusciacche, nel risvolto dei mantelli; e con tali colori l’ambientazione notturna è certamente rilevata, anche se a volte finisce in secondo piano per colpa di elementi aggiuntivi, come il sepolcro-tabernacolo che avanza nel finale II (un tocco di Spagna barocca quale cedimento alla tentazione spettacolare: ma nel Trovatore non ci sono scene come quella dell’auto da fè del Don Carlo). La conclusione del II atto dovrebbe essere il quadro più coralmente enfatico dell’opera, ma risolverlo con il combattimento “al rallentatore” in corrispondenza del concertato sembra effetto un po’ ingenuo. Al contrario, l’agnizione di Azucena quale rapitrice del bambino è la scena registicamente più curata: anche da solo, il gioco di sguardi e di movimenti tra Ferrando, i soldati, il Conte, la zingara, basterebbe a salvare la drammaturgia dell’intero spettacolo. Per il resto, fortunatamente, è sempre più che sufficiente la musica di Verdi. Foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala