“Madama Butterfly” al Carlo Felice

Genova, Teatro Carlo Felcie di Genova, stagione lirica 2013/2014
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in due atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dalla tragedia giapponese Madame Butterfly di David Belasco e dal racconto omonimo di John Luther Long. Editore Universal Music Publishing Ricordi srl, Milano
Versione del Teatro Grande di Brescia (1904)
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly MARIA LUIGIA BORSI
Suzuki RENATA LAMANDA
Kate Pinkerton MARINA OGII
B.F. Pinkerton FABIO ARMILIATO
Sharpless SERGIO BOLOGNA
Goro ENRICO SALSI
Il principe Yamadori CLAUDIO OTTINO
Lo zio Bonzo CHRISTIAN FARAVELLI
Il commissario imperiale CLAUDIO OTTINO
Lufficiale del registro RICARDO CRAMPTON
La madre di Cio-Cio San MARIA TERESA LEVA
Yakusidé ROBERTO MAIETTA
La cugina MARTA MARI
Dolore FRANCESCO D’ARRIGO
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Valerio Galli
Maestro del Coro Pablo Assante
Regia Daniela Dessì
Scene Beni Montresor
Costumi Alice Montini
Luci Luciano Novelli
Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 17 febbraio 2014   

Come molti sapranno, la prima rappresentazione assoluta di Madama Butterfly (Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904, esattamente cento anni ed un giorno prima di questa messinscena genovese) si risolse in un clamoroso fiasco che convinse l’autore ad apportare diverse modifiche alla partitura, nonché ai versi ed alla struttura stessa del dramma; risultato di tale operazione fu l’ottima accoglienza riservata all’opera in quel di Brescia una sera di maggio del 1904; successivamente Puccini mise ancora mano alla partitura a più riprese fino al 1920, facendole assumere quella forma che viene oggi comunemente rappresentata. Questa volta, però, il Teatro Carlo Felice ha scelto di proporre l’inusitata versione del Teatro Grande di Brescia del 1904. I tagli normalmente eseguiti (circa venti minuti) e qui ripristinati conferiscono una maggiore caratterizzazione ai personaggi, in particolare a quello di Pinkerton (che non si chiama più Franklin Benjamin, ma Francis Blummy): per lui i giapponesi non sono che “musi” numerati e si produce spesso in esternazioni al limite del razziale. Simpatico il siparietto dello zio Yakusidé ubriaco e gradevole anche la scena seguente al matrimonio in cui il tenente tenta goffamente di famigliarizzare con la cultura nipponica. Nella seconda sezione dell’opera (della colossale durata di 95 minuti) acquista particolare risalto la romanza di Butterfly “Che tua madre dovrà”, per la quale viene utilizzato il testo originario. Grazie a tale modifica, la prolusione di Cio-Cio San non è più semplicemente il rifiuto di ritornare alla vita precedente, ma una sorta di favola raccontata per consolazione al piccolo bambino in un momento decisamente intenso e toccante. Altra importante modifica è stata la reintroduzione del pur breve dialogo tra Kate Pinkerton e la protagonista, che mette l’una di fronte all’altra due donne dai forti valori raggirate dall’unico che neppure ha il coraggio di rivedere la madre di suo figlio. Tutte queste piccole aggiunte in realtà non costituiscono passaggi fondamentali od importanti per la narrazione (infondo se selezionassimo solo i passaggi importanti potremmo liquidare Madama Butterfly in pochi minuti…), esse riescono tuttavia a dare all’intera produzione quel pizzico di interesse in più anche per chi l’opera la conosce già a memoria da capo a fondo.
Debutto alla regia per Daniela Dessì, che avrebbe anche dovuto interpretare il title role, se non fosse stato per la sindrome influenzale che ha letteralmente falcidiato le fila del cast. Ad annunciare le indisposizioni è stato Giovanni Pacor, salito sul proscenio prima della recita; il sovrintendente non ha inoltre perso l’occasione per lanciare qualche frecciata verbale a non si sa bene chi. Poco ci importa delle sterili polemiche, ma avremmo trovato certo di miglior gusto che le sostituzioni fossero comunicate, come di consueto, tramite altoparlante o magari dalla stessa Dessì, seguendo l’esempio del compagno che si scusò personalmente dell’indisposizione in occasione dell’ultima Turandot genovese. Era davvero così indispensabile questa polemica apparizione del boss? Ad ogni modo, il bollettino medico riferito da Pacor è il seguente: sostituzione per Daniela Dessì e Stefano Antonucci, rimpiazzati rispettivamente da Maria Luigia Borsi e Sergio Bologna, mentre acciaccati ma presenti sono Fabio Armiliato e perfino il direttore Valerio Galli.
Per questo allestimento viene riutilizzata la scenografia della stagione 95/96 disegnata da Beni Montresor, per la quale sono stati realizzati dei nuovi bei costumi dai colori sgargianti disegnati da Alice Montini. All’impianto scenico non manca di certo il gusto, l’eleganza ed, a dispetto della pochezza degli elementi, anche una certa dinamicità. Va però segnalato come questa struttura non si presti affatto all’esecuzione musicale: la dispersione sonora causata dal mastodontico spazio vuoto è evidente e quando la regista posiziona i cantanti in secondo piano, se non addirittura sul fondo, questi diventano pressoché inudibili. Va inoltre segnalato come la nuova regia abbia deciso di modificare, rispetto alle edizioni passate di questo allestimento, la disposizione degli elementi nel secondo atto, oltre alle proiezioni di fondo, sancendo anche la scomparsa del suggestivo sipario kabuki che al termine della recita cadeva sul corpo esanime dell’eroina giapponese. È mancata, da questo punto di vista, un’unità d’intenti tra ciò che la regista ha trovato e ciò che invece ha scelto di modificare: se nel corso del primo atto sembra voler riprendere la linea originale di Montresor di una Butterfly eterea, giocata sulle luci e sui colori che invadono la scena, dalla seconda parte si fa più consistente la presenza in scena di quegli “orpelli che evocano un concetto di oriente lezioso e patinato” (Dessì dixit), a cominciare dai disegni orientaleggianti proiettati sul fondale ed animati grossolanamente in maniera molto poco fluida. Enigmatica la scelta di luci sul finale: eliminato il bell’effetto originale del velo cadente, dopo il colpo mortale dato correttamente alla gola (secondo la pratica del jigai, equivalente femminile dell’harakiri), Butterfly si avvolge attorno la bandiera a stelle e strisce mentre un grosso cerchio rossastro proiettato sul fondale si ingrandisce fino a rassomigliare la bandiera giapponese; quindi, nel giro di pochi istanti, tutto si fa rosso, indi bianco, infine buio. Particolarmente sentito in questa produzione tutta al femminile è parso il rapporto madre/figlio tra Cio-Cio San e Dolore, con la protagonista che spesso si è ritrovata a coccolare ed accudire il piccolo che, vistala inconsapevolmente per l’ultima volta, la saluta con la manina allontanandosi.
Dalla buca, la direzione di Valerio Galli è stata senza dubbio accorata anche se in troppi momenti l’orchestra ha sovrastato le voci del cast già provate dai mali di stagione. Tempi incalzanti, specie nella prima parte dell’opera, lasciano dopo spazio al ricamo del duetto intensissimo che chiude il primo atto. La giovane bacchetta è brava nel saper rendere al meglio le diverse dinamiche orchestrali tanto importanti in Puccini, sacrificando però il sostegno di cui gli interpreti avrebbero bisogno per rendere al meglio, considerando per di più gli impedimenti sonori specifici di questa scenografia. Non sempre a fuoco la prova del coro preparato da Pablo Assante. Maria Luigia Borsi, chiamata in sostituzione della collega malata, è stata una Cio-Cio San tra luci ed ombre. I numerosi passaggi in piano o pianissimo previsti dalla partitura non sono adeguatamente supportati dal fiato ed assumono talvolta la parvenza di fastidiosi suoni fissi o poco udibli; anche l’intonazione troppo spesso è precaria, ma l’intensità emotiva non viene mai a mancare in ogni parola pronunciata da questa voce dal timbro vellutato e morbido, che sa inoltre ben crescere nei momenti di spessore drammatico. Accanto alla protagonista, molto bella la prova di Renata Lamanda, una Suzuki scenicamente sempre credibile e vocalmente corretta, supportata da buona musicalità e voce densa. Particolare menzione anche per la Kate Pinkerton di Marina Ogii, che in questa versione dell’opera ha modo di far apprezzare la sua bella vocalità nell’inedito dialogo con la protagonista.
Fabio Armiliato ha reso ottimamente la figura del luogotenente Pinkerton, pur non supportato da una correttezza vocale sufficiente. Il personaggio è sempre stato a fuoco, spavaldo e sbruffone al punto giusto e vergognosamente straziato al termine della vicenda, ma la voce, che pur nei registri medio e grave risulta corposa e gradevole, tende a cedere notevolmente nella zona acuta che pare forzata e sempre tesa e al limite dell’intonazione.Il si che chiude “Addio fiorito asil resta in gola.  Nel ruolo del Console Sharpless, buona performance per Sergio Bologna, che porta a termine la parte con vocalità non certo colossale, ma sempre ben posta e nobilmente legata. All’aspetto musicale si unisce una presenza in scena composta ed adatta al personaggio. Particolare apprezzamento per il Goro di Enrico Salsi, un nakodo credibile sia scenicamente che vocalmente e per il barcollante Roberto Maietta nel simpatico ruolo dello Zio Yakusidé; corretto l’apporto degli altri elementi del cast, ovvero Claudio Ottino (Commissiario Imperiale, Yamadori), Marta Mari (madre di Cio-Cio San), Ricardo Crampton (Ufficiale del Registro) e Maria Teresa Leva (cugina di Butterfly), mentre la voce di basso di Christian Faravelli è arrivata poco oltre la buca, sfavorita dalla posizione sul fondo della scena. Bravissimo Francesco DArrigo, che ha interpretato impeccabilmente la parte del piccolo Dolore. Il pubblico ha ben popolato la platea (che però presentava qualche posto libero di troppo per un titolo di questo calibro), mentre, come di consueto, la galleria risultava desolatamente semi-deserta; al termine della rappresentazione applausi per tutti, con accoglienza particolarmente calorosa per Daniela Dessì rediviva. Dal volto del Maestro Galli, estremamente provato, traspare la soddisfazione per aver portato a termine l’impresa, pur con compromessi, nonostante la sorte avversa.