Torino, Teatro Regio: “Madama Butterfly”

Torino, Teatro Regio, stagione d’opera 2013-2014
“MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in due atti.Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal racconto di John Luther Long e dal dramma di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-cio-san) AMARILLI NIZZA
F. B. Pinkerton MASSIMILIANO PISAPIA
Sharpless ALBERTO MASTROMARINO
Suzuki GIOVANNA LANZA
Goro LUCA CASALIN
Il principe Yamadori DONATO DI GIOIA
Lo zio bonzo SEUNG PIL CHOI
Il commissario imperiale RYAN MILSTEAD
Kate Pinkerton e La madre di Cio-cio-san DANIELA VALDENASSI
Lo zio Yakusidé LORENZO BATTAGION
L’ufficiale del registro MARCO TOGNOZZI
La zia RITA LA VECCHIA
La cugina LAURA LANFRANCHI
Il figlio di Butterfly (mimo) EDOARDO GASPARELLA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Damiano Michieletto ripresa da Roberto Pizzuto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Marco Filibeck
Allestimento Teatro Regio (2010)
Torino, 4 febbraio 2014

Prima di una tetralogia pucciniana (classicamente intesa: tre tragedie più un dramma satiresco) che il Teatro Regio prevede nel cuore della stagione torinese, Madama Butterfly sembra il preludio a Turandot, Tosca, Gianni Schicchi che seguiranno nei prossimi mesi. Ritorna dunque, per sole tre recite fuori abbonamento, l’allestimento del novembre 2010 (ripreso nel febbraio 2012) firmato da Damiano Michieletto per la regia, e dalla direzione d’orchestra di Pinchas Steinberg (che già lo aveva inaugurato quattro anni fa; nel 2012 il direttore fu Daniele Rustioni). Forse non era così stringente la necessità di ritornare a una Madama Butterfly nel medesimo teatro dopo soli due anni, ma l’esito dell’operazione è più che positivo: ben collaudato lo spettacolo – che all’epoca suscitò perplessità, e che oggi non meraviglia più, tranne forse per il colpo di pistola del finale, a sostituzione del «coltello» -, molto qualificati i cantanti (specialmente il tenore Pisapia e il mezzosoprano Lanza, Pinkerton e Suzuki sin dal 2010), magistrale la direzione di un musicista della levatura di Steinberg.
Appunto con qualche spigolatura sul lavoro direttoriale è opportuno iniziare: sua cifra conduttrice è senza dubbio la delicatezza, ma non per questo mancano volumi e tinte; nella scena delle nozze, per esempio, alla presentazione dell’astuccio contenente il pugnale del padre di Cio-cio-san il direttore evidenzia bene i temi del suicidio e del lutto che tanta rilevanza avranno nel corso del II atto. Peraltro gli effetti lacrimevoli (o lacrimogeni) di cui la partitura è embricata non sono mai enfatizzati in modo troppo smaccato. Forse il momento più bello in assoluto della direzione di Steinberg coincide con l’apparizione del bambino di Butterfly (n. 31 della partitura, nel II atto): la dolorosa strumentazione mahleriana di cui Puccini era capace fa emergere tutta la disperazione della madre grazie all’esperienza sinfonica del direttore. Che nelle due parti del II atto ricorre però eccessivamente a pause retoriche e a tempi rilassati: questo stempera la sequenza drammatica (anche nel finale); e considerato che le due parti sono eseguite senza alcuna pausa, l’opera alla fine sembra durare un po’ troppo a lungo.
Protagonista della ripresa è Amarilli Nizza, che entra in scena dall’alto di una scalinata laterale, e la discende cantando il suo primo arioso «Ancora un passo, or via. Aspetta». Della Nizza sono ben note la professionalità e la duttilità della voce, capace di adattarsi a un repertorio molto vasto e molto diversificato. Poiché non ha volume immenso, la sua voce a tratti si disperde nello spazio del palcoscenico del Regio e nelle profondità di scena volute dal regista; ma questo non sarebbe il problema principale, in quanto dispiace soprattutto che nel I atto il fraseggio sia poco curato, e le parole quasi mai ben distinguibili (anche nel II, l’attacco di «Un bel dì, vedremo» non soddisfa, perché non si riconoscono quasi le parole). D’altronde la voce della Nizza, analizzata in sé e per sé, resta priva di una “personalità vocale” immediatamente riconoscibile; corretta nell’impostazione, è però soggetta a un vibrato che a volte inficia leggermente la tenuta dell’intonazione. Pur trovandosi più a suo agio nel II atto, il soprano non forza quasi mai l’emissione, e sortisce una prova che dissipa molti dubbi, specie nelle scene d’insieme, offrendo il meglio delle sue potenzialità quando si relaziona a qualche interlocutore. Risultano infatti commoventi il duetto con Sharpless e quello che segue con Suzuki, allorché le due donne preparano la casa all’arrivo di Pinkerton. Bravissima come attrice, la Nizza non ricorre quasi mai a effetti filodrammatici o al parlato; la criticità della sententia conclusiva «Con onor muore / chi non può serbar vita con onore» è superata egregiamente. Davvero l’artista soffre e si dispera con il personaggio, ma con una sorta di sobrietà e dignità orientali che la trasformano in autentica Cio-cio-san; il pubblico sente tutto questo, e al termine dell’opera le tributa un’ovazione lunghissima.
Nel ruolo di protagonista maschile Massimiliano Pisapia si rivela come un Pinkerton molto buono: la voce chiara e fluida scorre bene nei recitativi iniziali e nell’aria di sortita «Dovunque al mondo», anche se resta molto percepibile il passaggio di registro, con conseguente perdita di timbro negli acuti. A mano a mano che si riscalda, però, la voce del tenore risponde meglio alle richieste, e le difformità di registro si attenuano (alcune puntature acute restano comunque sul filo del rasoio). Ma Pisapia è cantante dotato di musicalità e di innata simpatia; non appare tanto – sia detto con altrettanta simpatia – ufficiale americano, quanto piuttosto buon tipo mediterraneo o ispanico, fatuo e desideroso di divertimento. La scelta del regista di fargli indossare un abito scuro molto serio, accompagnato da cravatta ordinaria, stride con i costumi degli altri personaggi, e rischia di farlo assomigliare a un rappresentante commerciale in vena di avventure orientali. Cantante volenteroso, all’inizio del celebre duetto che conclude il I atto fa di tutto perché la sua voce diventi più carezzevole e dolce; non sempre, però, l’intento di alleggerire riesce, e anche frasi come «Bimba dagli occhi pieni di malìa, / ora sei tutta mia» risuonano un po’ debordanti. Forte, sonoro, alquanto sicuro, l’acuto del finale I, insieme a quello del soprano. Pregevole anche l’arietta «Addio, fiorito asilo» del II atto.  Alberto Mastromarino è il console Sharpless, molto convincente nella recitazione e nel tipo di personaggio, un po’ meno nella vocalità; l’inflessione accusa infatti risonanze di gola, l’emissione non è omogenea, gli acuti pericolanti; almeno il fraseggio è curato. Anzi, pur con tutti i limiti attuali, Mastromarino ha sempre un porgere signorile, che lo rende convincente come console (e che ottiene dal pubblico un grande riconoscimento finale). La voce di Luca Casalin si adatta bene al fare insinuante di Goro, ossia a quel tipo di tenore comprimario pucciniano, mellifluo e un po’ querulo, che ha il suo apice in Spoletta della Tosca. Giovanna Lanza ha voce preziosa per il personaggio di Suzuki, anche se all’inizio non è del tutto sicura sulle note basse; nel seguito della recita riesce a valorizzare meglio il proprio timbro. Lo zio bonzo – Seung Pil Choi – irrompe sulla scena in carrozzella: da cantante di origine orientale qual è, produce un certo effetto, anche perché la voce è abbastanza autorevole. Il baritono Donato Di Gioia è un buon Yamadori, pur con qualche debolezza nelle note basse. Molto corretti tutti gli altri comprimari e il coro del Teatro Regio; decisamente suggestivo il celebre momento “a bocca chiusa” intonato dietro le quinte, appena percepibile e accompagnato da una sottilissima trama orchestrale.
Del variopinto allestimento di Michieletto oggi si può dire che funzioni molto bene sul piano scenico, e in buona parte anche su quello registico. Ma l’attenzione è tutta concentrata su Cio-cio-san; gli altri personaggi sono appena sbozzati nella loro presenza fisica sul palco. Ad apertura di sipario sono visibili un parallelepipedo di porte scorrevoli in vetro (è la «casa a soffietto» di Pinkerton) e una macchina bianca (modello vecchiotto) che giunge sulla scena; sul fondale scritte pubblicitarie e insegne luminose da periferia degradata di grande città; e infatti – pressoché immancabili in uno spettacolo di Michieletto – giovanissime passeggiatrici in minigonna luccicante si aggirano tutt’intorno, un po’ obbedendo al sensale Goro un po’ lusingando Pinkerton. Tavolini di plastica e seggiole colorate da dehors di bar dell’estrema provincia costituiscono gli orpelli di una casetta nelle cui spese l’ufficiale americano vuole certamente risparmiare: e va benissimo così; la scena, unica, si ripresenta identica nel II atto. Certo che quando Pinkerton si sdraia sul cofano dell’automobile, all’inizio dell’opera, torna subito in mente il Ballo in maschera che Michieletto ha realizzato per la Scala nello scorso luglio; e anche questo valga quale esempio di una gestualità un po’ triviale e tutto sommato prevedibile. C’è nei suoi spettacoli molta violenza, c’è drammaticità, c’è sempre una nota di compiaciuto divertimento nella rilettura; ma raramente c’è il dolore autentico, raramente è dato cogliere la sofferenza dei personaggi melodrammatici. Alla ricerca dell’autenticità si ascrive, però, l’apparizione di Pinkerton mentre Sharpless legge a Butterfly la sua lettera; e il fantasma del marito spinge delicatamente la sposa bambina su un’altalena, al margine della scena, per scomparire quasi subito nell’oscurità: è forse l’unico momento in cui diventa concreta la nostalgia del breve tempo coniugale.
Le più felici invenzioni della regia sono forse due, distribuite nel I e nel II atto: al termine del duetto Cio-cio-san e Pinkerton salgono entrambi sul tetto della casina, e da lì contemplano le stelle (come previsto dal libretto: «Non le vidi mai sì belle! / Trema, brilla ogni favilla / col baglior d’una pupilla»). Nel II atto, quando Butterfly vuole colmare la casa di fiori, si fa aiutare dal suo bimbo e da Suzuki a disegnare grandi macchie di colori vivaci sulle pareti a vetro, per simulare appunto un unico bouquet di benvenuto al marito. Dei costumi si può dire invece ben poco, perché poco curati e di taglio grossolano; sembrano per lo più affidati all’improvvisazione. Ma, anche in questo ambito, c’è almeno una nota divertente: per tutto il II atto Butterfly è abbigliata all’americana, T-shirt e jeans con brillantini colorati. Un’occidentalizzazione perfettamente coerente con le velleità che il libretto impone alla sfortunata sposina («Madama Pinkerton. / Prego»). La morte redime sempre tutto; e nella commozione finale il pubblico, esorcizzando passioni profonde, applaude più sonoramente che mai.