Il sigillo di Mendelssohn

Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”. I Concerti del Lingotto 2013-2014  
Mozarteumorchester Salzburg
Direttore Mark Minkowski
Volino Sergej Krylov
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Capriccio italiano op. 45
Felix Mendelssohn-Bartholdy : Concerto per violino e orchestra in mi minore op. 64
Nikolaj Rimskij-Korsakov : Shéhérazade, suite sinfonica op. 35
Torino, 25 febbraio 2014          
Non c’è brano migliore del Capriccio italiano di Čajkovskij perché un’orchestra si guadagni subito la simpatia dell’uditorio, grazie a musicalità, dolcezza del fraseggio, amabilità melodica, ammiccamenti e complicità emotiva. Ma è anche una pagina pericolosa, perché – soprattutto a orecchie smaliziate, come quelle di un pubblico di abbonati a stagioni internazionali – può risultare troppo frivola, manierata, addirittura kitsch. Ed è ovviamente responsabilità del direttore se l’orchestra raggiunge o fallisce l’obbiettivo; ne era ben consapevole lo stesso Čajkovskij quando scriveva che «la composizione non ha altra ambizione che quella di piacere».
Mark Minkowski e la prestigiosa Orchestra del Mozarteum di Salisburgo, ospiti a Torino per la stagione dei Concerti del Lingotto, scelgono una via di attenuazione delle sonorità e degli effetti  agogici, in modo da restituire una semplice bellezza all’antologia melodica che costituisce il Capriccio italiano. In particolare riesce perfetta la calibratura tra gli ottoni, che cercano di mantenere costantemente un suono morbido, e gli archi, uniti da eccezionale coesione ritmica e scansione tutta nervosa delle singole note (essi, infatti, ancor più dei fiati, offrono continua varietà coloristica a tutto il brano). Il direttore insiste inoltre sulle pause, di grande effetto retorico, per far spiccare ancora di più il tema centrale affidato ai due oboi, che davvero ha «qualcosa dell’amabilità di una gondoliera veneziana» (come sintetizza Giorgio Pestelli nel programma di sala). Il tempo resta sempre misurato, anche nell’Allegro moderato che segue, in linea con la generale morbidezza dell’enunciazione; fino a quando tale morbidezza deborda, e diventa incedere bombastico nel finale: un tocco efficacissimo di procacità mediterranea, arricchita da un’intera famiglia di percussioni.
Fa quindi il suo ingresso il giovane violinista russo Sergej Krylov, che suona lo Stradivari Scotland University del 1734, appartenente alla Collezione Sau-Wing Lam. Alle prime battute del concerto di Mendelssohn il suono sembra affiorare dalle profondità del mare, chiarissimo, trasparente, piccolo e delicato, eppure uniforme, in grado di raggiungere anche le ultime file della grande sala del Lingotto. Krylov è interprete geniale, perché valorizza la diafana delicatezza dello strumento sottoponendo di continuo le corde a vibrazione marcata ed esercizio d’intensità, in vista di prodigiose risonanze: in molti passaggi, più che il severo Mendelssohn cui si è abituati, pare di ascoltare un vibrante Paganini! Dopo l’Allegro molto appassionato giunge il nuovo tempo, Andante, in cui il violinista accentua vieppiù le sonorità aurorali dello Stradivari, mentre l’abilissimo Minkowski fa di tutto per alleggerire gli interventi orchestrali, fino a far quasi scomparire la compagine, perché il violino resti unico protagonista. Essa ricompare nell’incedere solenne che collega il II movimento all’introduzione al finale, Allegretto non troppo – Allegro molto vivace. Legatissimo, come un frullio d’ali, l’attacco del violino; eppure, nella fluidità del suono le singole note sono una fontana di colori che sgorgano sottovoce, fino alla conclusione; perfetto unisono tra solista e orchestra nella stretta finale, quando la lama dello Stradivari proietta la sua luce inconfondibile sugli ultimi accordi.
Raramente accade che l’entusiasmo del pubblico del Lingotto – sempre molto attento e partecipe, ma anche compiaciuto del proprio contegno torinese – si abbandoni a un’esplosione di consenso e di acclamazione capace di suscitare ben due brani fuori programma: Krylov, dopo le prime chiamate alla ribalta, esegue una stupefacente trascrizione della più celebre Toccata e fuga di Bach (BWV 565), in un tripudio di nuovi colori e di registri. Il miracolo è che un violino solo possa risuonare cangiante come una tastiera d’organo: Krylov lo dimostra soprattutto nell’interminabile fuga; e si vorrebbe che non terminasse mai, tanto è spettacolare. Né basta, perché al boato degli applausi incessanti il violinista risponde con un altro esercizio di virtuosismo e di perfezione tecnica, il Capriccio n. 24 di Paganini. La gioia fremente di tutti è inarrestabile, tanto che Krylov è costretto a trascinare via il primo violino dell’Orchestra del Mozarteum perché cessino gli applausi ed egli sia dispensato dal tornare sul palcoscenico.
Con la seconda parte del programma ritornano protagonisti l’orchestra e il direttore, per eseguire la suite sinfonica Shéhérazade di Rimskij-Korsakov. Se i quattro movimenti del brano possono, in effetti, essere intesi come le quattro componenti canoniche di una sinfonia romantica, l’interpretazione che ne offre Minkowski è molto più libera, narrativa, attraente: il direttore riesce perfettamente a raccontare una storia snodata in quattro grandi arcate, più che limitarsi a dipanare temi, sviluppi, ripetizioni e richiami armonici. E di ognuna delle arcate si riconoscono subito le qualità narrative e gli snodi dell’intreccio: Il mare e la nave di Sinbad – Le avventure del principe Calendo – Il giovane principe e la giovane principessa – Festa a Bagdad, Il mare, Naufragio della nave sulle rocce sormontate da un guerriero di bronzo. A raccordare le sezioni è la voce di Shéhérazade, ossia il tema enunciato più volte dal primo violino dell’orchestra, molto intenso e preciso nel suo ruolo, pari a quello di un solista (del resto è lo strumento che funge da narratore dell’intera suite). Ottimo anche il primo fagotto, cui è affidato il compito di esporre le peripezie iniziali del principe Calendo; ottimi i corni, impegnatissimi insieme ai violini a rappresentare il rollio della nave; vigorosi, anche se non sempre perfetti, i tromboni e le trombe; controllatissime le percussioni, schierate al gran completo specie nel III e nel IV movimento.
Il gesto direttoriale di Minkowski è arioso e cullante, quasi riposante per l’orchestra, anche se non fa mancare il brio quando serve. Sempre molto pacato il tempo scelto, con un avanzare metronomico che esalta la singolarità degli episodi all’interno delle sezioni. Tutti questi accorgimenti hanno lo scopo di presentare il binomio narrativo alla base di Shéhérazade, ossia la dolcezza degli affetti contrapposta alla furia della natura (antitesi tipica del tardo Romanticismo, e quindi perfetta per essere applicata al corpo di una sinfonia scritta nel 1888). Ed è naturale che la parte più convincente sia quella finale, in cui Minkowski deve riprendere tutti i precedenti temi, ora intrecciati in una ridda frenetica, che è il vortice dell’intreccio narrativo. Come in ogni “grande narrazione”, è immancabile un riferimento al passato e alla tradizione: ecco perché nel finale la suggestione musicale più intensa è la riproposizione degli accordi del Sogno di una notte di mezza estate. Ancora Mendelssohn, dunque, che imprime il suo sigillo sull’intero concerto, mentre ciascun ascoltatore è convinto di essere stato l’intera serata in compagnia di una principessa affabulatrice.