Jean Sibelius e Edward Elgar secondo Jeffrey Tate alla Fenice

Venezia, Teatro La Fenice, stagione sinfonica 2013-2014
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Jeffrey Tate
Jean Sibelius: Sinfonia n. 6 in re minore op. 104
Edward Elgar: Sinfonia n. 2 in mi bemolle maggiore op. 63
Venezia, 14 marzo 2014

Che Jeffrey Tate sia uno dei massimi direttori dei nostri tempi è risaputo. Che ogni volta che sale sul podio il Maestro di Salisbury affronti con determinazione una sfida con il suo corpo, segnato dall’handicap, è parimenti noto agli amanti della musica. Eppure vederlo di persona in un concerto è un’esperienza che ogni volta lascia il segno: non tanto per il suo fisico fragile ed incerto nell’incedere (si aiuta con un bastone), quanto per quel suo volto aggraziato, per quegli occhi chiari, penetranti e dolci, in cui si ravvisano l’intelligenza e la forza, la sensibilità dell’artista e la profonda umanità di una persona ha sofferto. Il programma era davvero interessante e congeniale alle attitudini e agli interesse di Tate, il cui vasto repertorio spazia dal classicismo al romanticismo fino ai suoi tardi esiti (Mozart, Beethoven, Wagner, Bruckner, Strauss …), ma contempla anche autori del Novecento e della contemporaneità, con particolare riguardo a quelli inglesi (in primis, i prediletti Elgar e Britten). I due titoli di questa serata possono apparire anche molto lontani dal punto di vista della tematica e dello stile, che rispettivamente li caratterizzano. Eppure, a ben guardare, un elemento comune si può evidenziare nel bene e nel male: un fluire della musica nel quale difficilmente si impongono temi definiti e incisivi, e i cui contrasti non sono poi così marcati o comunque non vanno esasperati. E l’interpretazione di Tate ci è parsa seguire questa impostazione.
La Sinfonia n. 6 op. 104 di Jean Sibelius (1923) è ancora oggetto di giudizi abbastanza discordanti: per tanti ammiratori del compositore finlandese è semplicemente una delle sue partiture più riuscite; ma un’altra parte del pubblico e della critica continua a manifestare qualche riserva, cosicché questa sinfonia non ha mai raggiunto la popolarità di altri lavori appartenenti allo stesso genere. Tate, efficacemente sorretto dall’orchestra del Teatro La Fenice, ha messo in valore i caratteri salienti della produzione sinfonica di Sibelius: sonorità luminose o, a seconda dei casi, rarefatte degli archi, a cui si sovrappongono gli accordi bruniti degli ottoni, creando una dimensione, per così dire, “atmosferica”; un fluire sonoro, caratterizzato solo da qualche spunto melodico, in cui il direttore ha fatto prevalere un clima variegato, ma complessivamente piuttosto pacato: domina, non a caso, nella partitura l’antico modo dorico – comune nella musica popolare finlandese – dal carattere ibrido, a mezzo tra il maggiore e il minore.
Per quanto riguarda Elgar la visione del Maestro inglese si distacca abbastanza nettamente da quella “vulgata”, in base alla quale il compositore nelle sue due sinfonie sarebbe il corrispettivo di Rudyard Kipling nei suoi romanzi, con i quali, in fondo, intendeva esaltare l’imperialismo britannico. Al contrario Tate, di cui è nota la passione per Elgar, ne propone una lettura più approfondita, mettendo in rilievo la problematicità di una musica, che oscilla costantemente tra l’espressione del senso d’appartenenza ad una grande nazione, di cui l’autore vuole farsi portavoce, e quella delle istanze del cuore, dei sentimenti privati, dei piccoli piaceri che la splendid isolation concedeva ai più fortunati tra i sudditi di Sua Maestà Britannica.  Del resto, questa interpretazione appare perfettamente in linea con la genesi della composizione. Inizialmente pensata, quando l’autore la iniziò nell’ottobre del 1909, come sincero omaggio a re Edoardo VII ancora in vita, la composizione si interruppe in quello stesso anno in seguito alla morte del sovrano, per essere poco dopo ripresa, nell’ottobre 1910. Forse una certa vena malinconica, che appare sovente nella partitura si spiega con le luttuose circostanze in cui si svolse parte della composizione, ma da quanto risulta da alcuni schizzi, databili prima del 1909, il tono di gioia sospesa che complessivamente rivela la partitura era comunque nelle intenzioni di Elgar, come peraltro confermano gli ambivalenti versi di Shelley che ne costituiscono l’intestazione: “Di rado, di rado vieni, tu, Spirito della Gioia!”. Notevole, anche in questo caso, la prestazione dell’orchestra, in particolare degli ottoni, di cui si è apprezzata la perfetta intonazione e il suono rotondo. Ma tutte le sezioni si sono comportate egregiamente, guidate dal gesto essenziale, ma estremamente chiaro e autorevole del maestro inglese. Applausi a non finire hanno suggellato questa serata da non dimenticare.