Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Maestro del Coro Ciro Visco
Soprano Lucy Crowe
Contralto Sara Mingardo
Tenore Kurt Streit
Basso John Relyea
Johann Sebastian Bach: Messa in si minore BWV 232 per soli, coro e orchestra
Roma, 25 febbraio 2014
Deo soli gloria: questa è la dedica che Bach appose alla fine del suo grandioso lavoro sacro, la Messa in si minore, che lo accompagnò fino alla morte. Un vero e proprio regalo a Dio, senza una reale committenza. Per tessere la musica di questo capolavoro, Bach utilizzò diversi autoimprestiti: fondamentalmente, il Sanctus (1724) e il nucleo-messa del Kyrie-Gloria (1733), che assemblò assieme a altre sue composizioni tra il 1747 e il 1749. La stessa struttura della messa sfidava le oramai consolidate tradizioni luterane: l’Ordinarium (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei), infatti, non era generalmente accompagnato da musica, giacché si preferiva lasciare l’accompagnamento musicale ai testi in tedesco. L’ Ur-messa Kyrie-Gloria nasce proprio in humus cattolica; era infatti stata dedicata al duca di Sassonia Friederich August II, abiuratore del luteranesimo per il cattolicesimo, quando aveva preso la corona della cattolicissima Polonia col nome di August III. E fu proprio per ingraziarsi l’elettore di Sassonia che Bach compose l’Ur-messa ─ sperava di essere nominato a capo di una delle cappelle di corte di Dresda, città all’avanguardia nel panorama musicale tedesco. La Messa in si è, per questo, un lavoro enciclopedico: non solo travalica il messaggio e i modi singoli delle due diverse tradizioni di fede cristiana, ma è un esemplare recipiente della perizia di Bach in tutti i generi musicali allora conosciuti, dal concerto all’opera lirica. Si tratta, a tutti gli effetti, di una sorta di enciclopedico omaggio che Bach aveva voluto tributare alla musica a lui contemporanea.
Penultimo appuntamento in seno al “Progetto Bach” (che chiuderà con le Variazioni Goldberg interpretate da Schiff), la Messa in si è certamente lo sforzo di maggior impegno sfoggiato dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per omaggiare uno dei padri della musica moderna. Antonio Pappano, una delle migliori bacchette del panorama internazionale, certamente tra le più versatili, propone ancora un’interpretazione di valore assoluto. L’inglese anela a una potenza ieratica, surreale, privilegiando una lettura intimistica, soffusa, eccetto quando la partitura non richieda un tono maggiormente grandioso (Et resurrexit e Gloria in excelsis): ha un po’ della grazia intimistica di Carlo Maria Giulini e un pizzico della teutonica monumentalità di Karl Richter. Essere andato a lavare i panni nella Matthäuspassion ─ da lui eseguita nel marzo dello scorso anno ─, può aver solo giovato alla comprensione del sacro bachiano in musica. Vero protagonista della Messa è il coro (Ciro Visco): e si tratta di uno dei migliori cori d’Italia, anzi del mondo. Impressionante l’esecuzione del Kyrie, dove le varie voci si sovrappongono in fughe, in una trama fitta, spesso sfumata, la cui patetica sacralità è valorizzata dall’attenta direzione di Pappano. Di tutt’altra espressività il Gloria in excelsis, dove si assiste a una polifonia paradisiaca, terminante nel Cum Sancto Spiritu dall’abbrivio e sviluppo epici e vigorosi. Il coro riesce, dunque, a incarnare sempre il senso del brano: il lucente, solare Credo in unum Deum; il mistico e misterioso Et incarnatus est con l’händeliano-vivaldiano Et resurrexit, al cui centro v’è il penetrante Crucifixus; il cuore apocalittico, ma soffuso, del Confiteor, alle parole et expecto resurretionem; gli indimenticabili giri di accordi in scala che scandiscono il Sanctus, terminato dal fresco anelito di beatitudine dell’Osanna in excelsis; e, infine, la placida conclusione del Dona nobis pacem.
All’interno di questi affreschi corali, Bach ha inserito duetti e arie nel più squisito gusto operistico contemporaneo, nella consapevolezza che, non avendo scritto mai opere, avrebbe avuto «quest’unica opportunità di pensare a cantanti di stile e qualità operistica, al punto da voler adattare lo stile delle arie e dei duetti a un’impronta di cantabilità più suadente di quanto non fosse abituale nelle sue composizioni sacre» (Stefano Catucci, dal programma di sala). Su tutti i quattro solisti, Sara Mingardo si staglia indiscussa, coadiuvata dal fatto che Bach era particolarmente affascinato dalla voce e dal registro dei castrati; la sua bella voce contraltile, corposa, pastosa, regala momenti indimenticabili nelle sue arie: Laudamus te, con la bellissima introduzione degli archi; Qui sedes ad dexteram Patris, preceduta dai virtuosismi dell’oboe; e soprattutto la languida, melodiosa Agnus Dei, ricca di superbe messe di voce. Voce acuta, metallica, tecnicamente buona, ma che non scalda il cuore, quella del soprano Lucy Crowe, che canta dignitosamente i suoi duetti: il Christe eleison (un Bach che stupisce, nient’affatto sofferto, anzi tripudiante di melodia), il Domine Deus e l’Et in unum Dominum. Una linea nobile, scultorea, profonda ha la voce del basso John Relyea, che riesce meglio nella pompa della Quoniam Tu solus Sanctus, introdotta dai corni e dai fagotti, piuttosto che nell’Et in Spiritum Sanctum. Sottotono il tenore Kurt Streit: seppure abbia la voce tipicamente barocca, adatta al ruolo (estensione acuta, poca potenza ma capacità di agilità), la poca voluminosità degli armonici, la granulosità e acidula punta di qualche sua emissione inficiano in generale la sua performance, anche se non dispiace nell’aria Benedictus, la parentesi intimistica dell’Osanna, dove possiamo ascoltare il virtuosistico preludio-assolo del flauto, dialogante col violoncello.
A conti fatti, ciò che stupisce di più è l’indefessa tenuta dei complessi: Pappano, la magnifica orchestra ─ che un coro di autorevoli voci internazionali consacrano come la migliore d’Italia, e non a torto ─ e il coro. La resa sonora, studiata proprio per ricreare un’atmosfera di raccoglimento ecclesiastico, con una partitura che poteva facilmente sfuggire dalle mani per diventare una sorta di scimmiottamento di tanta produzione sacra otto-novecentesca ─ di cui, ovviamente, non condivide né gli intenti né il respiro ─, ha il pregio della bellezza estetica unita alla ricerca filologica: potranno apprezzare quanti la vorranno ascoltare su Rai Radio 3. Lungi dall’ironia bonaria che Rossini, dissimulatore perfino di sé stesso, profuse nella Petit, la Messa in si di Bach è un fregio musicale che l’autentica religiosità del tedesco volle tributare a Dio, mostrandogli come tutta la musica del creato fosse degna della sua perfezione. Foto Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello