Leo Nucci è Simon Boccanegra al Teatro Municipale di Piacenza

Leo Nucci canta Simon Boccanegra a Piacenza (16 III 2014)

Piacenza, Teatro Municipale – Stagione lirica 2013-2014
Celebrazioni Bicentenario Verdiano 2013
 “SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito,
dall’omonimo dramma di Antonio García Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra  LEO NUCCI
Maria Boccanegra (sotto il nome di Amelia Grimaldi)  DAVINIA RODRIGUEZ
Jacopo Fiesco   CARLO COLOMBARA
Gabriele Adorno  FABIO SARTORI
Paolo Albiani  ALEXEY BOGDANCHIKOV
Pietro  SIMON LIM
Un capitano dei balestrieri  ERNESTO PETTI
Un’ancella di Amelia  FEDERICA VITALI
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del coro Corrado Casati
Regia e disegno luci Riccardo Canessa
Scene e costumi Alfredo Troisi
Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza e Fondazione Teatro Comunale di Modena – Allestimento del Teatro Municipale Giuseppe Verdi di Salerno
Piacenza, 16 marzo 2014

Avrebbe dovuto cantare il Conte di Luna nel recente Trovatore scaligero, ma ha reso noto che quel personaggio, nell’attuale fase della carriera, non corrisponde più al suo profilo interpretativo. Simon Boccanegra, al contrario, è quello ideale – e non certo da oggi – per Leo Nucci. Il baritono che più di tutti gli altri, dopo Renato Bruson, è l’incarnazione del padre verdiano, del potente oppresso e sconfitto, torna al Teatro Municipale di Piacenza per una delle opere più cupe e disomogenee di tutto Verdi (e proprio per questi motivi ritenuta oggi una delle più affascinanti e ricche di elaborazione musicale).
Francesco Ivan Ciampa dirige l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna con piglio sicuro e con grande attenzione alla concertazione; i tempi sono generalmente pacati, senza abbrivi significativi, senza colpi di scena, ma la dinamicità interna scaturisce da un uso accorto delle anticipazioni dell’orchestra rispetto alle voci (soprattutto quelle corali) e dei tempi rubati.
Naturalmente il protagonista totale è Leo Nucci. Nel duetto di agnizione della figlia, per esempio, la recitazione del baritono impressiona per il realismo con cui si manifestano turbamento, sorpresa, gioia insperata in un vecchio ormai stanco di avventure per mare, di conquiste, e di potere (ma il duetto riesce bene anche grazie al caldo accompagnamento dei violoncelli, esaltati dal direttore d’orchestra). Certamente, la voce è a tratti malferma, interessata da oscillazioni e da inevitabile vibrato largo; alcuni acuti si aprono eccessivamente; la stanchezza è sovente manifesta; ma la naturalezza interpretativa, il fraseggio, la completa credibilità del personaggio fanno trascorrere in secondo piano tutti i difetti fisiologici, per lasciar spazio a una perizia tecnica e a un’esperienza davvero commoventi. Che Nucci costituisca il perfetto “padre verdiano”, dolente, malfermo, debole, eppure saldissimo negli affetti e nella forza d’animo, è dimostrato dalla resa della frase rivolta ad Adorno nel II atto, «Un celeste tesor m’involasti… / La mia figlia…»: a questo punto, e per tutto il terzetto che segue, la voce dell’artista si trasfigura nel personaggio, ritorna intatta, non oscilla più, non insegue portamenti, è insomma bellissima (e quella dei due partner si difende ugualmente bene).
Nessuno dubita che Carlo Colombara abbia una tra le più belle voci di basso italiane: timbrata, pastosa, ricca di armonici, potente, plastica; e a tali caratteri si aggiunge una notevole predisposizione interpretativa dell’artista. Si possono notare un vibrato un po’ largo, alcuni piccoli portamenti (che suggeriscono un canto dallo stile démodé, un poco manierato), ma la classe e il buon gusto stilistico sono fuor di dubbio. Il fatto, poi, che la voce di Colombara sia così diversa da quella di Nucci fa risaltare ancor meglio le qualità dei due cantanti nei duetti iniziale e finale. Icastica e tonante, come sopraggiunta dall’alto, la frase «E all’anàtema di Dio, / e di Fiesco l’offensor»; molto convincente anche la metamorfosi caratteriale del personaggio nel III atto, giocata tutta su un’emissione carica di pathos.
Davinia Rodriguez è un soprano dalla voce importante, dal bel timbro leggermente brunito, ma la sua tecnica vocale lascia molto a desiderare: in corrispondenza delle note acute il suono si apre e spesso diviene un grido. E poi, per quanto riguarda il fraseggio, la comprensibilità delle parole cantate è davvero ridotta al minimo. Soltanto dopo l’aria di sortita «Come in quest’ora bruna» e il duetto con il tenore la voce si riscalda e migliora, diviene più armoniosa e perde qualche spigolosità.
Gabriele Adorno è interpretato da un Fabio Sartori in ottima forma: il tenore entra in scena con disinvoltura, emissione sicura e linea di canto rotonda fin dall’inizio. La voce è – come si sarebbe detto un tempo – generosa, anche squillante a tratti, e si accattiva immediatamente la simpatia del pubblico. «Cielo pietoso, rendila» è cantato assai bene; forse il fraseggio non è raffinatissimo, ma è molto corretto. E davvero bella risuona la filatura smorzata in coda all’aria, capace di suscitare l’ovazione più prolungata di tutta la recita per un numero a solo.
Il Paolo Albiani di Alexey Bogdanchikov ha voce elegante, ed emissione corretta, ma è certamente un po’ troppo leggera per la parte. Simon Lim è un ottimo Pietro: il cantante, frequentando spesso i teatri italiani negli ultimi tempi, sta maturando una voce che di volta in volta è sempre più corposa e convincente. Molto buono il Capitano dei balestrieri di Ernesto Petti, come l’ancella di Federica Vitali. Sempre pregevole il Coro del Teatro Municipale istruito da Corrado Casati.
Già nel corso della recita, ma ancor più al termine, diventa spontaneo esclamare: “Finalmente un’opera in cui tutto l’allestimento è improntato sui cantanti e sulle loro voci!” E anche per quanto riguarda la regia, ridotta ai minimi termini da Riccardo Canessa (che cura altresì il progetto luci), si direbbe che l’iniziativa dei singoli artisti abbia il sopravvento su un’idea specifica individuale. L’allestimento stesso, d’altronde, scenograficamente basato sull’alternanza bianco/nero delle architetture genovesi, e sul mare sempre sullo sfondo (in videoproiezione), giù per li rami discende alla lontana dall’antica mise en scene torinese di Sylvano Bussotti (1979, dunque tradizionalissima). Funzionali, e assai eleganti, anche bene assortiti nelle scelte cromatiche, i costumi di Alfredo Troisi.
Il momento più apprezzato dal pubblico è il concertato finale dell’atto II («Plebe! Patrizi! – Popolo / dalla feroce storia!», possentemente avviato da Simone), nel corso della scena al senato; tutti i numeri salienti dell’opera, però, sono salutati da grandi applausi, così come – alla fine – tutti gli artisti raccolgono il meritato, abbondante ringraziamento. Più di tutti l’eroe protagonista, autentico eroe del canto verdiano, l’intramontabile Leo Nucci.