Sabine Devieilhe: le Grand Theatre de l’Amour

Jean-Philippe Rameau (1683-1764). Brani da: “Les Indes galantes”, “Pygmalion”, “Les Paladins”, “Les fêtes de l’Hymen et de l’Amour”, “Naïs”, “Les Boréades”, “Hippolyte et Aricie”, ” Anacréon”, “Zoroastre”, “Zaïs”, “Dardanus”, “Castor et Pollux,” “Les fêtes d’Hébé”, “Platée” . Sabine Devieilhe (soprano),  Samuel Boden, (tenore),  Aimery Lefèvre (baritono). Le Jeune Choeur de Paris, Les Ambassadeurs. Alexis Kossenko (direttore). Registrazione: Parigi, Parossie Notre Dame du Liban, maggio 2013. T.Time:80.06 1 CD ERATO 5099993414920
“Vive Rameau! à bas Gluck!” recitava una nota battuta di Debussy. Certo oggi nessuno pensa di contrapporre i due massimi esponenti del classicismo settecentesco ma la citazione fornisce un possibile punto di partenza per attirare l’attenzione anche del pubblico italiano sul compositore borgognone (era nato a Dijon il 25 settembre del 1683), figura fra le più geniali del teatro di ogni tempo ma ancora quasi totalmente ignorato dai palcoscenici italiani nonostante il grande successo che le sue composizioni raccolgono ormai in tutta Europa grazie anche ad un ampio lavoro di analisi filologica che lo ha liberato dagli inutili paludamenti di una tradizione impropria per rivelarne a pieno l’inesausta vitalità.
La contrapposizione con Gluck può aiutare se presa con leggerezza ad inquadrare in modo immediato alcuni degli elementi propri dell’arte di Rameau. Dove il tedesco rappresenta l’aspetto più rigoroso del neoclassicismo, quasi archeologico nella sua volontà di ricostruzione dell’antico mentre Rameau non è neoclassico bensì classico, nel senso particolare che il termine assume nella cultura francese come elemento essenziale e costitutivo del gusto nazionale. Tradotto in termini visuali si può dire il mondo di Gluck ha il rigore di un Mengs mentre quello di Rameau ha il tocco di levigata leggerezza di un Joseph-Marie Vien che facilmente si declina nel sorriso malizioso di un Boucher.
L’occasione per parlare di Rameau ci è offerta da un ricco CD pubblicato dalla Erato e totalmente dedicato al compositore francese nell’esecuzione fornita dal complesso Les Ambassedeurs diretti da Alexis Kossenko e dal soprano Sabine Devieilhe, astro nascente della scena lirica francese. Quello che colpisce immediatamente di questo prodotto è l’estrema cura con cui tutto è stato studiato e realizzato tanto più rimarchevole visto il pressapochismo che spesso accompagna oggi molte produzioni discografiche. La stessa grafica di copertina – per quanto elemento secondario – da il segno di questa attenzione; pur non rinunciando alla moda delle foto patinate da rivista di moda il tutto è svolto con garbo ed eleganza con un fondale giocato su tinte pastello e sfumato al centro delle quali compare il viso grazioso della Devieilhe in abito cromaticamente affine e anch’essa atteggiata con sobrietà e naturalezza senza quegli atteggiamenti da Femme-fatale divenuti abituali per troppe cantanti e con esiti spesso molto discutibili.
L’ascolto conferma questa cura al dettaglio che caratterizza tanto la scelta dei brani che affianca momenti più noti ad altri di rarissima esecuzione – tre sono prime registrazioni assolute – ma anche la collocazione degli stessi all’interno dell’ordine delle tracce in modo da evidenziare al meglio la varietà stilistica ed emotiva presente nelle opere di Rameau. Così fra il languido “Sommeil” per orchestra dal “Dardanus” in cui il raffinatissimo gioco degli archi evoca con assoluta efficacia il chiudersi delle palpebre al sonno e l’”Air tendre en rondeau” da “Zoroastre” altro momento di stasi lirica affidato alla sola orchestra è collocata la grande aria di Emilie “Vaste empire des mers” dalla prima entrée de “Les Indes galantes” in cui il compositore reinterpreta con assoluta originalità il topos barocco dell’aria di tempesta al’interno di una complessa scena teatrale in cui il soprano, il coro e l’orchestra – arricchita di tutti gli effetti atmosferici possibili – creano un blocco musicale e teatrale di altissima tensione emotiva.
Il complesso Les Ambassedeurs si rivela compagine di prim’ordine. Guidato dal giovane direttore e flautista Alexis Kossenko (nato a Nizza nel 1977) e già collaboratore fra gli altri John Eliot Gardiner e Philippe Herreweghe il complesso francese di ancor recentissima formazione – è stabilmente attivo del 2011 – promette di essere pronto a ricavarsi un proprio posto non trascurabile sulla scena internazionale: grande pulizia di suono, rigore filologico e stilistico ma senza andare a discapito della piacevolezza d’ascolto, coinvolgente capacità ritmica sembrano essere le armi migliori di questa compagine molto promettente.
L’accompagnamento al canto è sempre puntuale e preciso, il suono morbido degli archi sostiene al meglio il materiale vocale della Devieilhe e l’aspetto espressivo molto curato. Si è già accennato all’incantatoria melodia del sonno del “Dardanus” e in chiave espressivamente opposta vanno citate almeno la contagiosa vitalità del “Tambourins” da “Les fêtes d’Hébé” con la sua trascinante scansione ritmica o l’introduzione a “Forêts paisibles” la danza dei nativi americani da “Les Indes galantes” con il suo straordinario impasto di raffinatezza rocailles ed evocazioni di un mondo primitivo. Molto riuscita la differenziazione espressiva delle due contredanse che testimoniano le infinite possibilità con cui i compositori francesi hanno saputo trasformare questo ritmo popolare di derivazione inglese in uno dei pilastri dell’immaginario sonoro aristocratico.
La parte vocale è affidata a Sabine Devieilhe, giovane soprano di coloratura (classe 1985) su cui si concentrano molte speranze francesi. L’ascolto mostra una cantante decisamente interessante, la voce non è particolarmente grande ma è emessa con buona efficacia – anche se ovviamente l’ascolto discografico limita le possibilità valutative in tal senso – il timbro è luminoso e cristallino, la tecnica ottima così come il controllo dell’emissione che emerge in filature e mezze voci; la coloratura – pur meno estrema di quella richiesta dal barocco italiano – è svolta con naturalezza e facilità e gli acuti hanno buono squillo anche se forse non sono ricchissimi di suono. Una voce forse non particolarmente vicina al gusto italiano ma pienamente inserita nella tradizione dei soprani coloratura francesi e che trova in questo repertorio il proprio terreno ideale. Nonostante la giovane età la cantante dimostra di possedere buone doti espressive, il fraseggio è curato e puntuale e l’interpretazione decisamente convincente.
 Anche nei brani vocali la produzione di Rameau si caratterizza per la ricchezza e la vivacità espressiva, per la presenza di un gioco di contrasti non solo fra i vari momenti ma anche al’interno del singolo brano come attesta in modo esemplare la lunga scena di Alphise “Un horizon serein” da “Les Boréades” con le continue variazioni espressive e i contrasti fra voce e orchestra. La Devieilhe riesce a rendere con grande intelligenza le molteplici richieste espressive previste dai brani risultando giustamente elegiaca in brani come “Tendre amour” da “Anacréon”; di deliziosa malizia nel duettino da “Les paladins” “Pour voltiger dans le bocage” affiancata dal tenore Samuel Boden tutto intessuto di una grazia galante che ne fa una sorta di trasposizione sonora di certe atmosfere di Fragonard ma anche di svettare con sicurezza sulla ricca massa orchestra in un brano dalla forte connotazione drammatica come la già citata aria de “Les Boréades”. E se la grande aria della Folie da “Platée” pur cantata molto bene – salvo qualche difficoltà nel settore grave più impegnato in questo brano che negli altri proposti – ed interpretata con gusto manca quel senso di surreale divertissement che allo stesso brano sapeva conferire Mireille Delunsch il disco si chiude con i fuochi d’artificio dell’aria di Zima “Régnez, plausi et jeux” dalla quarta entrée de “Les Indes galantes” con il suo slancio vocale e la sua coinvolgente necessità. La Devieilhe è affiancata in alcuni brani dal già ricordato tenore Samuel Bardon, dal timbro piacevole di buona musicalità e dal baritono Aimery Lefévre messo in difficoltà dalla bassa tessitura di Huascar in quello straordinario pezzo di teatro che il finale della seconda entrée (“Les Incas du Pérou”) de “Les Indes galantes”.
Il risultato finale è un prodotto decisamente e non banale – cosa sempre più rara nell’attuale panorama discografico – e un ottimo strumento per cominciare ad avvicinare l’opera di Rameau per chi ancora non la conosce e per arricchirne la conoscenza per chi già ama l’arte del maestro digionese.