Berlino: “Matthäus-Passion” alla Philharmonie

Berlino, Philharmonie
Orchester der KlangVerwaltung
Tölzer Knabenchor
Chorgemeinschaft
Direttore Enoch zu Guttenberg
Soprano Caroline Ulrich
Alto Olivia Vermeulen
Tenore Manuel König
Basso Stephan Genz
Evangelist Daniel Johannsen
Christus Falko Hönisch
Johann Sebastian Bach: Matthäus Passion BWV244 per soli, coro e orchestra
Berlino, 17 aprile 2014

La Philarmonie di Berlino è un oggetto dorato con superfici e volumi dalla logica inafferrabile, una sorta di roccia aliena modellata da venti capricciosi e precisi. L’interno appare più rassicurante nonostante l’inconsueta forma pentagonale che circonda lo spazio esecutivo e, a fronte di un tale monumento al modernariato recente, è interessante il legno dei rivestimenti: spesso e rifinito con l’apparente noncuranza di un’elegante ristrutturazione per una villa in campagna. L’effetto comunque è straordinario e, quello che più conta, assolutamente funzionale all’ascolto: eccellente la definizione, l’equilibrio e la qualità dei silenzi, favoriti anche da una decadenza piuttosto rapida nella tenuta del suono.
Assistere il giovedì santo, e in un tale contesto, al rito della Matthäus-Passion non può non caricarsi quindi di significati che travalicano l’aspetto puramente musicale. All’epoca di Bach l’esecuzione delle passioni, che come genere toccava l’apice della popolarità proprio nei primi decenni del ‘700, avveniva il Venerdì Santo all’interno di una complessa e lunghissima para-liturgia che impegnava il fedele dalla mattina alla sera, in una riflessione totalizzante sul sacrificio di Cristo. Impensabile ovviamente al giorno d’oggi una compenetrazione così assoluta tra vita quotidiana e trascendenza, almeno per l’uomo comune. Tuttavia è innegabile il fascino di un’opera che, oltre alla sublime musica di Bach, deve la sua immortalità alla capacità di ricreare una logica artistica e spirituale dove luogo e tempo, vita e divenire, appaiono dipendenti da un ethos assoluto e superiore anche per chi, come chi vi scrive, non fosse credente.
È evidente quindi che la difficoltà, per qualunque esecuzione dei capolavori del Kantor, sia dovuta in gran parte proprio alla necessaria presenza di un etica interpretativa che non può dipendere solo dalla correttezza o dal rispetto di una prassi consolidata, ma soprattutto da un equilibrio difficile tra necessità e attesa, dramma e contemplazione, pathos e logos, verità e artificio.
Era presente tale equilibrio nell’esecuzione del giovedì santo alla Philarmonie? Assolutamente si, ma non si è trattato di un equilibrio apollineo e levigato, ma di un’appassionata ricerca, rischiosa talvolta, capace di emozionare e di mostrare prospettive nuove anche in panorami apparentemente convenzionali.
Tutto ciò tra l’altro non per opera di strapagati divi delle major internazionali, ma semplicemente di un ottimo insieme, affiatato, equilibrato e di alto livello in tutti gli elementi, che da tempo ha superato qualunque difficoltà tecnica in tale repertorio ed è capace di esprimere una poetica esecutiva assai superiore a certe blasonate incisioni sul mercato.
Un insieme, comunque, dal curriculum rispettabilissimo e che può permettersi il lusso di presentare gli straordinari Tölzer Knabenchor come voci bianche nelle brevi parti di ripieno: è stata quindi sicuramente apprezzabile la scelta di affidare loro anche la variazione timbrica nel corale doppio della seconda parte, in alternanza con un’incantevole esecuzione a cappella del coro principale.
Proprio su una raffinatissima concertazione dei corali il direttore Enoch zu Guttenberg ha costruito i pilastri della propria personale interpretazione: niente visioni monolitiche che tendono a uniformare l’espressione e l’agogica ma, al contrario, è stata evidente una grande flessibilità nei tempi e un’accentuata drammatizzazione, talvolta quasi teatrale, pienamente coerente col significato poetico dei versi. Non a caso raramente è così curata in un insieme corale la capacità di proiezione del testo: il risultato è stato talmente convincente da superare facilmente l’abitudine a esecuzioni certamente più compassate. Si può discutere su certi accenti o se l’estrema varietà nelle riprese dei tanti e notissimi corali possa minare l’architettura generale, ma la coerenza assoluta della direzione è stata capace di mantenere con rigore la particolare espressività dell’insieme.
Ovviamente il risultato è stato possibile grazie anche a un ottimo ensemble corale: il Chorgemeinschaft di Neubeuern, fondato nel 1967 proprio da Enoch zu Guttenberg, ha assecondato il proprio direttore con una flessibilità e una ricchezza di dettagli incredibile per un coro formato, nell’occasione, da un centinaio di elementi. Siamo quindi lontani dalle dimensioni minime degli organici “filologici”: eppure l’agile leggerezza, la perfetta intonazione, l’equilibrio dinamico e timbrico, le sicure messe di voce, il coordinamento nel fraseggio e le infinite sfumature sembravano provenire da un ensemble molto più ridotto. I piani dinamici sono stati assai ben differenziati: il “Barabbam!” è un’esplosione e ritmicamente caratterizzati sono apparsi tutti gli interventi delle “turbae”, ma anche la leggerezza e la precisione dei “Wo-hin?” è stata stupefacente.
Tutto quanto detto sul coro può essere tranquillamente trasferito per l’Orchester der KlangVerwaltung: un organico abbastanza ampio, con strumenti moderni (sicuramente più adatti agli ampi spazi della Philarmonie) utilizzati però con la consapevolezza che cinquanta anni di ricerca sulle prassi esecutive del periodo barocco non sono trascorsi invano. Eccellente il controllo del vibrato, giustamente utilizzato solo nei momenti topici del fraseggio, e precisissimo l’insieme delle articolazioni con tutte le sfumature nei punti necessari: sarebbe bastato sentire la leggerezza danzante del tempo composto iniziale, prima dell’attacco di “Kommt, ihr Töchter”, per rendersi conto della cifra espressiva impressa all’esecuzione. La qualità strumentale, evidente soprattutto negli strumenti concertanti delle arie, è stata di ottimo livello, senza eccezioni: una citazione per l’eccellente primo flauto e per i due primi violini che hanno superato agevolmente le notevoli insidie delle loro arie. Anche il doppio continuo, concertato con insolita varietà, ha dato un apporto fondamentale alla precisione dell’esecuzione, collaborando spesso anche alla differenziazione dei vari momenti espressivi.
Il gruppo degli ottimi solisti è apparso omogeneo ed equilibrato: su tutti lo straordinario evangelista di Daniel Johansen, capace di unire una ricchissima gamma espressiva a un’eccellente pronuncia del testo, una vocalità morbida e ricca di armonici alla notevole resistenza richiesta dalle tre ore di esecuzione. Emozionante, a questo proposito, la morte di Cristo, grazie anche a un pathos raggiunto con un’abile mutazione timbrica; veramente da incorniciare. Di gran classe il Cristo di Falko Hönisch che, dotato di una timbratura abbastanza chiara, ha caratterizzato la propria interpretazione con la classica nobile compostezza del proprio ruolo. Da questo punto di vista, per il taglio generale dato a tutta l’opera, non sarebbe dispiaciuta talvolta una maggiore intensità drammatica. Eccellente anche l’alto Olivia Vermeulen: bellissima vocalità, perfetto controllo del vibrato, una messa di voce spettacolare e un’espressione capace di accenti commoventi. “Erbarme dich, mein Gott” è stata assolutamente emozionante, da brividi. Il soprano Carolina Ullrich ha mostrato una buona tecnica e una vocalità interessante, con talvolta alcune acerbità espressive che non hanno comunque inficiato l’interpretazione del proprio ruolo. La sua esecuzione nel duetto “So ist mein Jesus nun gefangen”, ottimamente concertato dal direttore, è stata decisamente apprezzabile, con un abbandono estatico raggiunto occasionalmente in altre parti dell’opera. Buono anche il temperamento nelle arie, e soprattutto nei recitativi, del basso Stephan Genz, che ha intelligentemente utilizzato i propri mezzi vocali soprattutto nella caratterizzazione dei vari personaggi, mentre è apparso un po’ sotto tono il tenore Manuel König: il vibrato irregolare ed eccessivamente largo nel registro medio – acuto ha talvolta influenzato la condotta espressiva e le necessarie variazioni dinamiche nelle sue arie. Tutto ciò comunque, va detto, sempre all’interno di una fondamentale correttezza esecutiva e in rapporto a un alto livello esecutivo generale.
“Wir setzen uns mit Tränen nieder” arriva alla fine quasi come una sublime liberazione dalla vita terrena, dalla morte, dalla tensione di un affresco narrativo e musicale ineguagliabile. Tra i tantissimi applausi commossi e riconoscenti Enoch zu Guttenberg va ad abbracciare per primo il suo splendido Evangelista: una serata da ricordare. All’uscita l’aria è pungente, come le luci della Potsdamer Platz poco lontano. Ma è leggera, si sente appena…