Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione lirica 2013/2014
“LA BOHÈME”
Scene liriche in quattro quadri su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger.
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo TEODOR ILINČAI
Marcello ROBERTO DE CANDIA
Schaunard ROBERTO MAIETTA
Colline ANDREA CONCETTI
Mimì MAITE ALBEROLA
Musetta ALESSANDRA MARIANELLI
Benoit DAVIDE MURA
Alcindoro CLAUDIO OTTINO
Sergente dei doganieri DAVIDE MURA
Un doganiere LUKA BRAJNIK
Orchestra e Coro, Coro di voci bianche del Teatro “Carlo Felice” di Genova
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del Coro Pablo Assante
Voci bianche dirette da Gino Tanasini
Regia Augusto Fornari
Scene e Costumi Francesco Musante
Luci Luciano Novelli
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 5 aprile 2014
Secondo le statistiche, “La Bohème” risulta essere il terzo titolo più rappresentato nei teatri del mondo, appena dietro “La Traviata” e “Carmen”. Ne consegue una certa difficoltà nel riuscire a portare in scena qualcosa che possa proporre una lettura nuova, ma al tempo stesso coerente, di un capolavoro tanto frequentato. In tanto ardua impresa riesce ottimamente la coppia Francesco Musante/Augusto Fornari, rispettivamente scenografo e regista, due personalità di certo non habitué del teatro d’opera, ma che hanno saputo cogliere e valorizzare il significato più vero del dramma pucciniano. La scenografia, come detto, e a firma di Francesco Musante e già al primo sguardo non potrebbe essere altrimenti, tanto è singolare il vivacissimo e caotico stile un po’ naïf di questo pittore prestato al teatro. Il colossale sipario creato ad hoc (uscito in realtà un po’ stropicciato dai magazzini), contribuisce a proiettare lo spettatore nel colorato mondo di Musante fin dal suo ingresso in sala e, naturalmente, anche i costumi sono stati disegnati secondo i medesimi criteri. In mezzo a tanta importanza artistica, che inoltre occupa sempre una consistente porzione dello spazio scenico (i quadri ambientati nella soffitta si svolgono quasi unicamente su di una ristretta pedana rialzata) si rischia che l’azione scenica e la musica, che sono poi i veri soggetti della rappresentazione, diventino il sottofondo di una sorta di mostra pittorica. Se ciò non accade, è sicuramente per gran merito (oltre che del compositore) del regista Augusto Fornari, al quale non sfugge certo l’aspetto cinematografico della partitura di Puccini, che, proprio come una ripresa, balza da una parte all’altra della scena, indugia su questo o quel personaggio e concede talvolta il riflessivo momento solistico, sempre sostenendo la linea melodica della massima cantabilità. La mano del regista si vede nel gesto e nei movimenti di tutti i personaggi. La folla del secondo quadro, introdotta dall’affascinante rotazione della soffitta-carillon, appare studiata nel dettaglio ed ogni elemento della scena sa perfettamente quale sia il suo compito; così, tra un gruppetto di prostitute che cerca di scippare un incauto borghese e la gente che compra dai venditori, tra acrobati e bambini festanti, giocattoli e torte in faccia, avviene il ricongiungimento di Marcello e Musetta. Ma il vero colpo di genio è un altro: fin dall’inizio, ad ogni personaggio è abbinato un corrispettivo in miniatura, un bambino vestito dei medesimi colori che l’alter-ego adulto sembra non vedere, ma con cui più volte interagisce in modo solo apparentemente casuale. I bambini giocano tra loro per la soffitta e si beffano del piccolo Benoit, sono loro il refolo che spegne le candele proprio al momento giusto e loro è la manina rapace che fa sparire la chiave di Mimì; quando i “grandi” battibeccano, si colpiscono a palle di neve e se ne andranno sul carro di Parpignol solo quando la morte sancirà per i Bohèmes la fine di quella breve gioventù che è nucleo fondamentale del dramma. In questo modo Fornari riesce ad offrire una nuova e convincente interpretazione della Bohème senza cadere nel mero didascalismo, anzi suggerendo attraverso la leggerezza dell’azione un significato ben più profondo ed edificante.
Sul versante musicale, dal podio Giampaolo Bisanti offre una lettura dalla ritmica giustamente variegata ma che garantisce sempre l’adeguata cantabilità, pur non riuscendo talvolta a tenere in equilibrio sonoro orchestra e solisti. Qualitativamente alta è stata anche l’esecuzione dell’orchestra e del coro del teatro, impegnato quest’ultimo anche nell’azione recitativa assidua richiesta dalla regia e coadiuvato dagli attivissimi danzatori del Danse Ensamble Opera Studio. A proposito del DEOS, ci piace far notare quanto sia bello vedere questi elementi sulla scena e quanto valore possano portare ad ogni produzione; pertanto, la scelta di far esibire alcuni di questi artisti nell’intervallo nel mezzo del foyer, come ormai accade da diverso tempo, tra gente che mangia, beve, parla e sta in coda al bar, ci pare un tentativo piuttosto maldestro di invito alla danza: un pubblico impegnato a mangiare nell’intervallo non sarà mai, comprensibilmente, il pubblico attento che veri artisti meritano.
Tra i solisti, bella è stata la prova di Maite Alberola nel ruolo della cagionevole Mimì, condotta in crescendo ed apprezzabile per intensità dell’interpretazione. Alcune rigidità occasionali rendono talvolta difficilmente intelligibile la parola ed anche la pronuncia è da migliorare, ma lo strumento è di notevole prestanza e lascia presagire margini di miglioramento interessanti. Ottima performance attoriale per Teodor Ilinčai, che di Rodolfo possiede davvero una figura verosimile, mentre non sempre a fuoco è parsa la resa vocale. Il giovane tenore romeno possiede un buon registro acuto (non teme i do del primo atto) ed uno scuro registro centrale, ma il passaggio è ostico e causa una disomogeneità di timbro. La ricerca delle dinamiche è sicuramente apprezzabile, anche se alcuni passaggi in piano sconfinano nello spoggiato e perdono in armonici. In parte anche il Marcello di Roberto De Candia, che canta con buon piglio e bel fraseggio, esibendo una certa brillantezza anche in zona acuta, pur risultando talvolta sovrastato dall’orchestra. Alessandra Marianelli (Musetta) ha avuto modo di esibire una vocalità a tratti un po’ spigolosa che però ben si addice al personaggio, spesso considerato vicino all’operetta. Decisamente convincente anche il Colline di Andrea Concetti, capace di coinvolgere realmente il pubblico accarezzando per l’ultima volta l’amata zimarra, sostenendo la romanza con nobile legato e salda emissione. Un po’ più in difficoltà Schaunard, al secolo Roberto Maietta, la cui voce in troppe occasioni stenta a valicare il golfo mistico per fermarsi nel naso. Della sua serata, però, dobbiamo notificare anche l’ottima prova teatrale nelle scene di gruppo. In un’opera che parla di giovani, non potevano mancare i “vecchi” da beffare, spassosamente interpretati da Davide Mura (Benoit) nel primo quadro e Claudio Ottino (Alcindoro) nel secondo.
Vi sarebbe poi da notare un fatto piuttosto fastidioso: gli intervalli sono troppo lunghi. La durata prevista dello spettacolo è di circa 55 minuti tra primo e secondo quadro, svolti consecutivamente, quindi 25 minuti di intervallo ed altrettanti dura il terzo quadro che, terminato, è seguito da un secondo intervallo di 25 minuti; infine, un’altra mezz’ora di musica, per un totale di circa 2 ore e 45, ma quasi un terzo è costituito da intervallo. Come già era accaduto per Otello (che però presentando fatti molto ravvicinati ne aveva risentito maggiormente), pause lunghe e frequenti tolgono completamente lo spettatore dall’azione drammatica, anche se gli consentono di spendere di più nel foyer.
Due note finali: la prima è di demerito ed è per il pubblico che vergognosamente mancava nonostante il titolo da sold-out e l’aspetto accattivante delle scene. La parte alta della platea è stata disertata, mentre galleria e balconate potrebbero purtroppo essere ormai tranquillamente chiusi senza gran perdita. Grande merito nel successo complessivo dell’allestimento è però dovuto senza ombra di dubbio ai tanti bambini presenti in scena tra i “mini-doppioni” dei protagonisti ed il bellissimo coro di voci bianche del teatro e non c’è forse modo migliore per capire a fondo questa Bohème se non ripensandola attraverso la naturalezza e l’innocente spensieratezza dei gesti dei più piccoli. Foto Marcello Orselli