Reggio Emilia, Teatro Valli, Stagione lirica 2013-2014
“LA CAMBIALE DI MATRIMONIO”
Farsa comica in un atto su libretto di Gaetano Rossi
Musica di Gioachino Rossini
Tobia Mill MARCO GRANATA
Fanny NAO YOKOMAE
Edoardo Milfort LORENZO CALTAGIRONE
Slook FUMITOSHI MIYAMOTO
Norton ANDREA PELLEGRINI
Clarina FEDERICA CACCIATORE
Orchestra del Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma
Direttore Francesco Cilluffo
Regia Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Fiammetta Baldiserri
Interpreti della Scuola di Canto del Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma, coordinati da Lelio Capilupi, Donatella Saccardi Produzione realizzata in collaborazione con Conservatorio di Musica “A. Boito”, Liceo Artistico Statale “Paolo Toschi”, Istituto Professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato “Primo Levi” di Parma Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Fondazione iTeatri di Reggio Emilia
Reggio Emilia, 28 marzo 2014
Le regolari stagioni dei teatri italiani sono ormai affollate da rappresentazioni di giovani cantanti di vario tipo: concorsi su ruolo (As.Li.Co., Opera Studio di Livorno, le produzioni del conservatorio di Cesena…), accademie di perfezionamento interne ai teatri (Accademia della Scala, la defunta Scuola dell’Opera di Bologna o quella del Carlo Felice di Genova…) e rappresentazioni concepite per mettere in mostra i migliori talenti di una determinata scuola, come il Cubec della Freni o, in questo caso, il Conservatorio di Parma. Tutto ciò sarebbe molto bello, se veramente fosse un modo per inserire i giovani cantanti nel mondo del lavoro. Ma questo genere di situazione è ormai talmente diffusa che ormai si può dire tranquillamente che, dietro la facciata dell’“aiutare i giovani” (che sono poi sempre giovani cantanti, quasi mai giovani registi o giovani direttori), questo sia diventato semplicemente un modo per fare un titolo in più senza pagare i cantanti (i quali, anzi, molte volte sponsorizzano attivamente lo spettacolo pagandosi le spese da soli). Così si vedono tanti giovani cantanti passare da un “alto perfezionamento” all’altro nella speranza di essere finalmente notati, fino a quando non sono più giovani cantanti. Questi cantanti per lo più non sono selezionati perché il direttore artistico di
turno pensi che possano veramente fare una carriera ma semplicemente perché abbisogna di persone che riempiano quei determinati ruoli. La caratteristica principale che deve avere il giovane cantante italiano (al pari di ogni altro lavoro creativo in questo paese) è quella di avere dei genitori che possano mantenere questo costoso “hobby”. Ci si potrebbe poi anche chiedere quanto sia corretto inserire queste rappresentazioni in abbonamento e far pagare il pubblico quasi quanto per quelle di “professionisti”. Allontaniamo questi tristi pensieri e dedichiamoci a questa messinscena del Conservatorio di Parma della prima farsa di Rossini. Forse in un tentativo di richiamare pubblico (tentativo non riuscito: il vasto teatro Valli era pieno al 60% circa), la serata è stata introdotta dal noto scrittore Alessandro Baricco, piacevole divulgatore che ha ripetuto con molto garbo alcuni aneddoti rossiniani e una serie di ben noti luoghi comuni di sociologia della musica (il gioco d’azzardo nei teatri dal Settecento al primo Ottocento, la corrispondenza fra
il posto occupato nel teatro e il posto occupato nella società, ecc…), riuscendo nel difficile compito di non dire sciocchezze ma senza aggiungere alcunché all’ascolto dell’opera. La serata sarebbe stata piacevole se non fosse stata funestata dai contributi non necessari del regista e (incredibile dictu) del “continuista”. Per un regista il problema della Cambiale di matrimonio è che il libretto di Gaetano Rossi è insulso e non offre il minimo spunto comico. Il regista ha due strade: potrebbe accontentare di curare la recitazione dei cantanti, in modo che i personaggi prendano un po’ di corpo e il ritmo dello spettacolo sia sempre scorrevole o potrebbe cercare di farsi venire delle “idee”. Disgraziatamente Andrea Cigni ha tentato la seconda strada. Le scene di Dario Gessati e i costumi di Valeria Donata Bettella erano graziosissimi ed evocavano un idillico allevamento di vacche e caseificio (di parmigiano, naturalmente) del primo Novecento, una sorta di Blandings all’emiliana, forse per rendere evidente il parallelismo tra donna e merce istituito dal
rozzo Slook. La gradevolezza visiva lasciava sperare in uno spettacolo divertente. Purtroppo però il regista ha deciso di improntare la recitazione ad un registro puramente farsesco, nel suo senso deteriore e provinciale, con – ad esempio – un Norton molto effeminato che sarebbe stato fuori luogo perfino in un “cinepanettone”. Il ritmo, così essenziale alla commedia, è stato appesantito e distrutto da piccole gag senza senso che non sono riuscite nemmeno a far sorridere. La grande trovata è stata quella di mettere in scena il finale dell’opera come una parodia del Rinaldo di Pier Luigi Pizzi (che il pubblico di Reggio Emilia ha visto a più riprese, l’ultima nel 2012), in cui i personaggi duellavano in sella a umili vacche di resina (o simili), anziché a pomposi cavalli barocchi. In teoria sembra una citazione divertente. Ma nella pratica è stato solo un gran trambusto. Il colpo di grazia lo ha dato però Riccardo Mascia al fortepiano, che seguendo e moltiplicando la ridicola moda odierna del continuista con manie di protagonismo (una pratica assolutamente bandita all’unanimità da tutti i trattati settecenteschi e ottocenteschi) ha ritenuto opportuno disturbare e
interrompere i recitativi con inutili interpolazioni (contromelodie che sovrastano la linea del canto, cluster alla David Tudor, citazioni improbabili che dovrebbero divertire) mandando a quel paese il dramma. Sul podio Francesco Cilluffo (subentrato all’ultimo momento a un docente del Conservatorio di Parma, protestato dalla direzione artistica del Regio) ha fatto quel che ha potuto con un’orchestra che tradiva talvolta le sue origini studentesche (a partire dai soli di corno ed oboe nella Sinfonia). Fra i giovani cantanti si sono ascoltate alcune buone voci. La rivelazione della serata è stata senza dubbio il basso-baritono Marco Granata (Tobia Mill), voce scura, potente ed estesa. Il sillabato richiesto dalla
parte non lo ha colto impreparato, ma è chiaro che si tratta di una voce più lirica, che speriamo di risentire in teatro in ruoli di “basso cantante” mozartiano (Conte) e rossiniano (Alidoro). Il giapponese Fumitoshi Miyamoto (Slook), ancorché improbabile in ruolo buffo italiano, ha esibito un bel timbro da baritono leggero, dotato di un piacevole “squillo”. L’altra giapponese, Nao Yokomae (Fanny), non è sempre precisissima nelle colorature ma ha una voce di sopranino duttile e ben proiettata. Funzionale il tenore Lorenzo Caltagirone (Edoardo Milfort), dal timbro simpatico nonostante una tecnica disordinata. Completavano il cast il corretto soprano Federica Cacciatore (Clarina) e il baritono Andrea Pellegrini (Norton), dalla voce bella e presente, anche se occasionalmente ingolata. Speriamo di poter riascoltare qualcuno di questi giovani in una produzione “vera”. P.V.Montanari
Non capisco il tono offensivo del cronista. Quella a cui abbiamo assistito a Reggio Emilia è stata una vera produzione ed un’ottima regia. Peraltro teatro pieno almeno alla recita a cui ho assistito.
Ci sono recensori di professione e coristi rancorosi che si improvvisano cronisti e si vendicano sulle pagine delle riviste web specializzate. Il successo di questa produzione è stato giustamente raccontato su questa stessa rivista web dal vostro recensore Matteo Iemmi.
Gentile signor Montanari, non le piace la Cambiale di Matrimonio (“che non offre il minimo spunto”) e mi dispiace che l’abbiano costretto a presenziare a tale triste evento. Deve aver passato proprio una sgradevole serata e la compiango. Il mio apporto di continuista, che a lei, e per fortuna solo a lei fra i recensori, non è proprio piaciuto, è stato ampiamente concordato con un regista che apprezzo e stimo e ho ritenuto con la mia realizzazione di offrire un servizio allo spettacolo e non certo con manie di protagonismo. Accetto la critica che mi trovo appunto a condividere con una regia che lei, al contrario di me, non ha apprezzato, ma mi irritano il tono e l’ignoranza. Non è affatto vero che “tutti i trattati settecenteschi e ottocenteschi bandiscono tale pratica”. Se si riferisce allo Scaramelli (1811), che è l’unica voce rancorosa (come lei) contro i continuisti, tenga conto da chi e in che situazione è stato scritto, e comunque denuncia una pratica ampiamente seguita, quella appunto di fiorire i continui che lui non sopportava. Quanto al resto se vuole facciamo una gara di citazioni di trattati settecenteschi affinché lei si informi meglio e non condisca le sue per altro rispettabili personali prese di posizione con maldestre lezioni di storia della musica.
Personalmente, amo moltissimo le prime farse rossiniane. Anzi, fu proprio l’ascolto del Signor Bruschino, della Scala di seta e della Cambiale di matrimonio a indirizzarmi, quando avevo 11 o 12 anni, verso lo studio dell’oboe. Ho semplicemente notato che il libretto della Cambiale non offre al regista moderno particolari “spunti comici”, nel senso di situazioni dove inserire gag che possano far ridere apertamente, e ho osservato che sarebbe molto meglio preservarne la fragile grazia di commedia di caratteri anziché tentare di provocare risate. Inoltre chi non sia interessato solamente a leggere il pezzetto di recensione che lo riguarda personalmente potrà leggere che ho trovato molte cose da lodare in questo allestimento, in particolar modo i giovani cantanti.
Rispondo con un particolare piacere a questa sfida perché dà modo a me e ai lettori (se ve ne sono) di approfondire una questione interessante con qualcuno che sicuramente avrà fatto studi approfonditi su questo campo. Se il signor Mascia non tollera quelle che definisce le mie “maldestre lezioni di storia della musica”, io sarei invece molto lieto di ascoltare le sue. Nella mia esperienza di trattatistica antica mi sono imbattuto numerosissime volte in passaggi che invitano il realizzatore del basso continuo a porre una particolare attenzione a non interferire mai con la linea melodica principale. Mai invece mi sono imbattuto in incoraggiamenti a fare il contrario. Per la verità, non mi sarei mai aspettato che Mascia volesse difendere su una base filologica il suo massiccio apporto a questo spettacolo, che non si è limitato certo a qualche arpeggio o qualche mordente di troppo ma ha aggiunto interludi, controcanti e spesso ha volutamente sfiorato l’atonalità. Naturalmente ogni artista è libero di fare quello che vuole e può anche, in nome di una rielaborazione artistica personale, suonare Rossini con un’orchestra di chitarre elettriche. Ma non è questo quello che generalmente si intende con filologia o “performance storicamente informata”. Io posso citare diverse fonti antiche a sostegno dell’idea che la realizzazione del basso continuo debba essere il più discreta possibile. Ho sentito (con orrore) molti giovani continuisti riferire di lezioni di grandi continuisti i quali insegnano ad introdurre nella mano destra motivetti ad ogni piè sospinto nei recitativi. Non ho mai sentito però nessuna fonte antica citata a sostegno di questa pratica (per il mio gusto insopportabile). Sono molto curioso di sapere se ve ne sono e quali sono. La disfida accetto!
Faccio un riassunto della situazione dei recitativi oggi. (Non affrontiamo qui la questione delle appoggiature, che i cantanti e i direttori di oggi ancora non sanno applicare dovutamente secondo le chiarissime istruzioni della trattatistica, sconciando così tutta la musica del Settecento e primo Ottocento, specie i recitativi). La realizzazione del continuo di Riccardo Mascia in questo spettacolo ha costituito un esempio particolarmente estremo di una pratica corrente e diffusa. Oggi, infatti, sembra essere particolarmente in voga una realizzazione “interventista” del basso continuo nei recitativi delle opere, che non si limita ad affidare al cembalo o al fortepiano un sensibile sostegno armonico della recitazione dei cantanti, ma che si fa carico di “rendere più interessanti” i recitativi attribuendo alla tastiera una funzione drammatica di primo piano simile a quella dell’orchestra wagneriana, non solo introducendo all’inizio di ogni scena un interludio semi-improvvisato che richiamai magari motivi già ascoltati nell’opera (pratica tutto sommato innocua) ma anche interrompendo il canto con commenti musicali (magari buffoneschi) oppure creando vere e proprie contro-melodie superiori alla voce. È soprattutto quest’ultima pratica (che fa tornare in mente il Parisotti o certe realizzazioni del b.c. scritte tardo ottocentesche o primo novecentesche) che trovo di pessimo gusto e censurabile.
Come giustamente osserva il Mascia, si tratta innanzi tutto di una questione teatrale. (Non sospettavo minimamente che il suo contributo non fosse stato concordato col regista.) I recitativi secchi sono spesso una zona trascurata dei melodrammi, dai compositori che li tirano via (Rossini in primis, che spesso ne affidò la composizione a collaboratori), dai cantanti che non li studiano, dagli ascoltatori che non li soffrono e non di rado perfino dai registi (solo qualche settimana fa ho sentito una regista insegnare ad una cantante che i recitativi vanno detti alla massima velocità possibile altrimenti il pubblico si annoia…). È bello quindi che oggi molti vogliano occuparsene. Ma, a parer mio, quella del “continuista interventista” (se “con manie di protagonismo” non piace) non è una risorsa valida da impiegare. La forza dei recitativi secchi sta appunto nella possibilità che offrono ai cantanti di recitare – cioè di costruire da un punto di vista più prettamente attoriale i personaggi e l’interazione fra questi personaggi – lasciandoli liberi dalle costrizioni della “battuta”. Il ritmo della recitazione (i cosiddetti “tempi comici”) è assolutamente essenziale al genere comico, specialmente nella commedia italiana. Si alterino i tempi in una scena fra Totò e Peppino e la scenetta che risultava tanto brillante si rivelerà penosa. (Per questo i recitativi secchi si mantennero tanto più a lungo nell’opera buffa, quando dall’opera seria già erano stati quasi del tutto banditi. E si noti che la scomparsa del recitativo secco si accompagna anche alla scomparsa per un cinquantennio di opere comiche italiane degne dopo il Don Pasquale.) Ed è perciò che, soprattutto nell’opera buffa, il continuista dovrebbe stare molto attento ad assecondare i tempi della recitazione senza interferire. Eventuali interventi da parte del cembalo o del fortepiano sono da considerarsi anti-filologici ed estranei alla pratica musicale e teatrale dell’opera buffa. In questo allestimento della Cambiale, ad esempio, il fortepiano ha fatto alcuni interventi improntati a quello che al cinema si chiama mickey-mousing, la pratica di mimare nella colonna sonora le azioni fisiche dei personaggi, tipica dei cartoni animati degli anni ’30 e ’40 (ad esempio Tom e Jerry). Non nego che in una regia che voglia scegliere in maniera pervasiva una chiave “cartone animato” forse questo possa anche funzionare. Ma questa, a parer mio, dal momento che sarebbe difficile far cadere incudini o pianoforti sulla testa dei personaggi senza pregiudicare la resa della partitura del compositore o l’incolumità dei cantanti, non sarebbe un’idea totalmente percorribile, e sarebbe difficile da preferire rispetto ad una vera valorizzazione delle abilità attoriali dei cantanti. In ogni caso, la filologia non ci avrebbe molto a che fare.
Veniamo quindi alla simpatica ed istruttiva “sfida” filologica proposta dal Mascia per punire la mia ignoranza. Riporto ora alcune testimonianze di trattatisti che predicano la necessità che la realizzazione del basso continuo sia sempre discreta e valorizzi la linea del canto e (ove questa abbia elementi di particolare interesse, ad esempio contrappuntistico) la linea del basso, guardandosi bene dal rendere protagonista la mano destra.
Il “primo violino direttore d’orchestra” Giuseppe Scaramelli era veramente preoccupato (pro domo sua) che qualcuno potesse affidare la direzione ad un cembalista anziché ad un primo violino. Ma nessuno può accusarlo di “rancore” quando, nel suo saggio del 1811, prescrive la discrezione nella realizzazione del basso nei recitativi, un precetto noto da tantissimo tempo. “Da osservarsi è pure che vi sono Cembalisti e Violoncelli i quali amano suonando i recitativi di preambolizzare e sfioreggiare, cosa questa insoffribile quanto mai si può dire e che convien proibirla col precettar loro di dover dar esattamente le sole armonie co’ suoi giusti accordi unitamente col Contrabbasso e nulla di più.” (Notare che Scaramelli parla solo di semplici “preamboli” e “sfioreggiamenti”, non di controcanti superiori alla voce!) Si può anche decidere che Scaramelli e tutti gli altri trattatisti fossero un branco di idioti, ma se vogliamo sostenere che, se un trattatista mette in guardia contro una pratica scorretta, possiamo inferire che quella pratica esistesse e che quindi è possibile – non so – cominciare i trilli dalla nota reale o non applicare le dovute appoggiature o eseguire le appoggiature come acciaccature, ecc… allora quale è il senso della parola “filologia”? Ognuno faccia quello che vuole ma perché volersi poi anche arrogare l’aggettivo di “filologico”?
Non presupponendo di dover sostenere una tenzone accademica, non ho sottomano che pochi trattati. Ad una rapida compulsazione ecco che cosa ho trovato.
Quantz (1752): “Bisogna quindi biasimare quell’accompagnatore che adopera troppo la mano destra eseguendovi a sproposito delle melodie, o arpeggiando, o introducendo altre cose che si oppongono alla parte principale” (Quantz dà poi anche molte istruzione su come non sovrastare mai la parte principale, a volte anche trasponendo il basso un’ottava più sotto, specialmente nel caso in cui si accompagni un violoncello o un cantante tenore o basso.)
Mancini (1774): “A chiunque conosce la Musica son note le vecchie vecchissime regole che per accompagnare un Professore di canto devonsi adoperare sul Cembalo poche dita, non vi vogliono grazie aggiunte a capriccio, ma richiedesi il più sodo e semplice accompagnamento, acciò il cantante in verun modo non sia disturbato.”
Vincenzo Manfredini (1788): “Non v’è qualità di musica tanto semplice quanto il Recitativo, il quale non ha mai richiesto, né richiederà mai che qualche nota di basso (e, per conseguenza, pochissimo contrappunto), a riserva di quello che chiamasi “Recitativo obbligato” perché resta accompagnato da più strumenti. Ma ancor questa specie di Recitativo non esige gran contrappunto, stanteché gli strumenti non debbono esprimere contemporaneamente alla parte cantante una melodia troppo obbligata e varia, ma al più possano secondare la detta parte cantante con qualche melodia chiara e facile, come farebbe per esempio un arpeggio, o con eseguire solamente gli accompagnamenti del basso.”
Nella mia (forse troppo limitata) esperienza, da nessuna parte ho trovato frasi come: “Nei recitativi secchi il maestro al cembalo dovrà introdurre ogni nuova scena con un ritornello di sua composizione che anticipi o faccia risentire al pubblico melodie di alcune arie dell’opera (o anche di altre opere) e potrà sentirsi libero di commentare l’azione con melodie estemporanee, talvolta anche contemporaneamente e al di sopra del canto”. Riccardo Mascia sembra invece conoscere fonti antiche che sostengano opinioni simili. Sarei molto curioso di conoscerle anche io e, anche se, come ho scritto sopra, il mio senso del teatro sarebbe contrario a queste pratiche, nel caso che dovesse risultare “filologico”, mi dichiaro pronto a cambiare le mie idee e a riconsiderare umilmente un ruolo attivo del cembalo nella drammaturgia dei recitativi secchi.
Grazie.
Egregio signor Montanari,
apprezzo la sua competenza, ma sarebbe d’uopo accompagnarla con un po’ di discernimento. Il mestiere del critico non dovrebbe comprendere l’offesa del professionista criticato nemmeno quando il suo operato non è piaciuto. Lei dovrebbe chiedere scusa per la sua supponenza e il suo sarcasmo. Et de hoc satis!
Almeno sono lieto di avere a che fare con persona competente e sarebbe avvincente un confronto diretto. Se l’esecuzione musicale non fosse che una pedissequa applicazione dei trattati staremmo freschi, e sarebbe vietato anche eseguire La cambiale al teatro Valli, costruito successivamente al 1810 e troppo grande per le farse; i trattati sono tracce, indizi che prendono diverse posizioni riguardo ad una pratica musicale che è sempre stata estremamente variabile e mobile col mutare delle situazioni e del gusto e, soprattutto nel caso della pratica del continuo, impossibile da notare una volta per tutte. Le sue citazioni sono corrette, ma, se lei leggesse i trattati col discernimento di cui sopra, si accorgerebbe facilmente che l’unanimità da lei segnalata non esiste, i trattati non forniscono leggi immutabili ma posizioni che vanno valutate conoscendo chi ha scritto e per che scopo. Algarotti (1764) vorrebbe un recitativo vario, che piglia forma e anima dalla qualità delle parole. Che corra talvolta con rapidità uguale al discorso, tal altra proceda lentamente e faccia bene spiccare quelle inflessioni e quei risalti che la violenza degli affetti ha forza di imprimere nell’espressione. Planelli (1772) dopo aver condannato la poca cura del recitativo della quale fanno mostra gli odierni maestri di cappella insiste che ogni passione ha i suoi modi, le sue inflessioni, i suoi tuoni e un discorso medesimo, secondo le diverse disposizioni dell’animo, sarà diversamente pronunziato. Tali avvertimenti, rivolti ai cantori, non c’è ragione che non coinvolgano anche gli accompagnatori- lo vedremo presto- con evidente condizione che l’armonia non sia né troppa né poca, ma tale che regga il canto senza impedire l’intendimento delle parole (prefazione della Dafne di Marco da Gagliano, 1608). Anche Lorenzo Penna (1684) raccomanda di non lasciar voto l’istromento. E’ chiaro che qui entra in ballo il buon gusto e l’opinione personale. Nei recitativi bisogna avere attenzione alla parte che canta (dice Gasparini, 1708) e aggiunge che i suoi suggerimenti di arricchire gli arpeggi con “false”, cioè con dissonanze estranee all’accordo di base toccando tre o quattro tasti uniti uno appresso all’altro, particolarmente nei recitativi faranno mirabile effetto. Incoraggia quindi ad arricchire gli arpeggi pur avvertendo di non disturbare con tirate di passaggi in su o in giù, facendo pompa della velocità di mano. Quello che si fa deve essere funzionale alla scena e qui entriamo nel campo delle opinioni. Secondo lei io ho fatto troppo, secondo me, e molti altri, ho assecondato una scena che offriva e chiedeva molto.
Infatti anche il buon Carl Philip Emanuel Bach (1762) raccomanda di prestare molta attenzione alla varietà di quello che succede sulla scena, ascoltare costantemente il solista e, se al recitativo si unisce l’azione, deve pure guardare la scena e seguirla puntualmente con la realizzazione del continuo, senza mai abbandonare il cantante. Se il cantante declama velocemente l’accordo deve essere pronto non appena estinta la funzione dell’accordo precedente (…) se la declamazione è spedita il cembalista si asterrà dall’arpeggiare (…) ma nei recitativi lenti potrà sostenere il cantante con arpeggio prolungato. In opera buffa in cui si presentano situazioni chiassose si deve arpeggiare di continuo o almeno con frequenza (…). In relazione al significato delle parole il cantante può ritardare l’attacco dopo l’accordo, in tal caso il cembalista deve riprendere l’accordo prolungandolo finché la declamazione riprende. A volte il silenzio del cembalista darà spicco a certe parole, ma nelle modulazioni il cembalista farà bene a porre al soprano le note del cantante e a guidarlo; piuttosto che rinunciare a questo ci si consenta anche la possibilità di risolvere in una parte sbagliata o tralasciare la preparazione di una dissonanza.
Anche Mattheson (1732) precisa che il recitativo deve essere il più vario possibile ed esprimere cose nuove e sconosciute ad ogni cambio di tonalità. Deve essere perseguito ogni cambiamento immaginabile nel procedere e cadere (Gängen und Fällen) dei suoni, specialmente nel basso. E aggiunge questa perla: come se venissero per caso, e mai contro il senso delle parole.
St –Lambert (1707) si spinge più oltre: Si arpeggia anche nel caso non si raddoppino le parti, ripetendo più volte lo stesso accordo, verso l’alto e verso il basso. Questo modo di ripetere gli accordi non si può insegnare sui libri ma richiede molta abilità e deve essere appreso osservando come è praticato. Evviva la pratica! Addirittura, dopo aver descritto innumerevoli maniere di arpeggiare, dice: si ribattono le note una dopo l’altra ripetendole continuamente, facendo produrre al cembalo un effetto simile a una salva di moschetti, e dopo due o tre battute di questa piacevolissima confusione ci si arresta improvvisamente come per riposarsi dalla fatica sofferta dal far tanto rumore. Evviva!
Si guardi inoltre gli esempi (fra i pochissimi disponibili di continuo di recitativo realizzato) di Niccolò Pasquali (1757), che spalma accordi in tutte le direzioni, prima, dopo e durante la voce. Si veda le testimonianze (riportate nel Grove) di alcuni passi del Don Giovanni realizzati al violoncello e contrabbasso, ormai nell’ottocento) da Lindley e Dragonetti, amicissimi, tra l’altro, di Rossini. Tenga infine conto che Scaramelli scriveva in un momento di transizione in cui, se non proprio astio, almeno una vivace concorrenza con la figura del clavicembalista è il caso di riconoscerla. E che infine se un trattatista se la prende tanto calorosamente contro una pratica di “infiorettare” vuol dire che lo si faceva, eccome!
Una situazione simile si ha con i trattati di canto che condannano il vibrato (inteso come vibrato caprino) e altri che lo consigliano (inteso come il naturale vibrato di una voce libera da costrizioni). Vanno letti con criterio: il gusto e l’espressione sono il metro e questi cambiano secondo esecutori e recettori.
Non intendo certo difendere il mio operato come “filologico” (perché la filologia in questo campo è semplicemente impossibile) ma arricchire le sue gradite lezioni con la semplice constatazione che la realizzazione “interventista” del continuo è sempre esistita. Compreso il metodo che lei chiama Mickey Mouse, almeno in opera buffa. Se ne faccia una ragione, anche se ha diritto di non gradirla. Il criterio è l’intesa col cantante e con la scena e questo, anche se a lei non è piaciuto, certo non mancava in questa Cambiale. Chiaro che mi trovassi in un opera seria e/o con altra regia, o ammettiamolo pure, alle prese con un libretto più “denso” di significati, agirei in maniera completamente diversa. Anch’io sono contrario a inserti o citazioni di altre opere, a anticipi di temi di arie (che il recitativo dovrebbe invece preparare), e sono contrario anche a quelli che lei chiama “controcanti” (che non è un termine “filologico” e nemmeno tecnico), che non so proprio dove lei li abbia sentiti. Prendere un cantante con l’arpeggio e portarlo sul nuovo accordo, sottolineare cambi di umore o di velocità, riempire adeguatamente scene silenziose fa parte di un normale scambio di energia fra la scena e chi accompagna. Può non piacerle, e mi dispiace, ma non mi parli di “condanna all’unanimità”.
Ah, dimenticavo! Le appoggiature e le cadenze richieste dai trattati c’erano tutte, spero se ne sia accorto.
Volentieri al seguito.
Sono piuttosto curioso di fronte alle posizioni sicuramente “anomale” del M° Mascia (che credevo essere perseguite dai più solo per ignoranza). Credo che un buon contributo alla discussione possa essere dato citando alla lettera certi passi dal “Thorough-bass made easy” di Pasquali (1757) e dal Gasparini, che lo stesso Maestro ha citato:
Il Pasquali sintetizza in tre parole le abilità necessarie per fare un buon continuo: “Judgment, taste, discretion”. Il buon continuo è “servant to respect the voice”, ed tra i consigli avanzati (il trattato si rivolge evidentemente a dilettanti) si trova la raccomandazione “the chords should never be easily brought much above nor much below the voice”.
Nel capitolo “How to accompany Recitatives”: “It consist in filling up the harmony as much as possible, and therefore the left hand strikes the chords in it as well as the right”. Per Pasquali è proprio l'”Harpeggio” a esaltare gli affetti: “sometimes slow, other times quick, according as the words expres either common, tender, or passionate Matters”.
Non ho trovato menzione di altri abbellimenti, né nessuna argomentazione calorosa contro il continuo “infiorettato”, a testimonianza della tesi “se viene vietato allora si faceva” sostenuta dal M° Mascia.
E ora il Gasparini: CPE Bach dirà pure di arpeggiare con frequenza e di continuare a sostenere il canto (comprensibilissimo, se fatto con buon gusto), ma Gasparini è molto chiaro: “Quando si è fatta sentir l’armonia della nota, si deve tener fermi i tasti, e lasciar che il cantore si soddisfi e canti col suo comodo e seconda che porta l’espressiva delle parole, e non infastidirlo o disturbarlo in un continuo arpeggio, o tirate di PASSAGGI in su e in giù”. Sarà pur vero che G. suggerisce le “false” (ma solo “alcune volte”!!), ma dagli esempi e dalla spiegazione è chiaro che i “tre-quattro tasti uniti insieme” non sono una giustificazione per sfiorare l’atonalità (come afferma il Montanari) bensì acciaccature, da eseguirsi eccezionalmente.
Lascio ad altri il commento delle altre fonti. NESSUNA di quelle citate mi sembra in ogni modo giustificare il “continuo interventista” (ma non è abbastanza chiaro che dobbiamo essere servi?) e men che meno il mickey-mousing.
Sarei molto interessato a citazioni più precise e soprattutto realmente a supporto della curiosa tesi del Mascia.
“In questo campo è assolutamente impossibile la filologia”: se le cose stanno così, rinunciamo in partenza alla discussione, optando però per qualcosa di veramente interessante (il continuo con la chitarra elettrica?). È forse stato l’animo del pianista che è nel M° Mascia a scrivere quella frase?
Sono assolutamente d’accordo. Sono al servizio della scena e tale mi sento. Anzi come diceva Quarenghi (ancora nel 1876) un amico che sussidi il cantante. Quando è necessario lascio che i cantori si soddisfino. Non fraintendiamo: le mie citazioni non sono un tentativo di giustificare alcunché. Non ho alcuna tesi da sostenere. Semplicemente far presente che le posizioni dei trattati non condannano un continuista che si muove “sometimes slow, other times quick, according to the words” ma quello che si muove troppo, che disturba. Per tanti trattati che ti dicono di star fermo ce ne sono altrettanti che ti incoraggiano ad attivarti. Le testimonianze di un continuo “attivo” e “pieno” sono tante quante quelle che, per altri motivi, lo invitano a fare il meno possibile. “As well as the right” , secondo il buon gusto, e lì si deve portare la discussione, non sui precetti dei trattati, che vanno benissimo quando ti dicono inequivocabilmente come si fa un trillo o dove si mette un’appoggiatura, ma non potranno mai dirti la realizzazione precisa di un continuo. Abbiamo anche esempi di continui realizzati (“Da sventura a sventura” di Alessandro Scarlatti) che vanno spesso al di sopra della voce accompagnata, alla faccia dei precetti generali. Che ha voluto fare Scarlatti? Scrivere per sé, fare un esercizio di contrappunto, indicare qualcosa? Abbiamo altri esempi in trattati italiani di continui infarciti di “false” con parti pienissime. Abbiamo altri continui (specie nei trattati francesi) con armonizzazioni perfettamente verticali e “scolastiche” a 3/4 voci: appunto, sono trattati scolastici che alla fine ti dicono che tutte le variabili e invenzioni possibili non si possono scrivere e dipendono dal buon gusto. Abbiamo testimonianze di recitativi fatti con gran dovizia di strumenti di continuo, altri col solo cembalo (così fece Piccinni a Versailles nel 1776, quando eliminò dopo qualche recita violoncello e violone per rendere più agili i recitativi delle sue Finte Gemelle). Le “fonti” sul continuo non fanno altro che ribadire che il musicista si trova ogni volta alle prese con situazioni diverse, spazi, acustica, strumenti a cui dovrà dare ogni volta soluzioni diverse. Nell’opera ancora di più. La filologia è indispensabile, ma utile se apre la mente e ti aiuta a risolvere problemi, e non se si usano trattati come clave facendogli dire solo quello che si vuole. Poi si può discutere se quello che uno fa è bello o no! (Utile, divertente, interessante, funzionale… o no).
Anche la voce piuttosto autorevole di Philip Gossett conclude che “esecutori di tastiera e violoncellisti ornavano parecchio le loro parti e non vi sono ragioni per cui i musicisti moderni non potrebbero fare lo stesso, sempre restando all’interno dei mutevoli confini del buon gusto”. Sono uscito da tali confini? Va bene. Ma se l’ho fatto non è perché non ho rispettato i precetti dei trattati. O perché non sono “storicamente informato”. Invento, spesso insieme con il regista, quello che la scena mi chiede e di solito i cantanti sono soddisfatti. Il pubblico pure. Anche se non tutti.