La “Tragica” di Mahler letta da Vladimir Jurowski

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014 
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Vladimir Jurowski
Gustav Mahler: Sinfonia n. 6 in la minore “Tragica”
Roma, 1 aprile 2014      

Reduce da una tappa bolognese in cui ha diretto la Sinfonia n. 4, Vladimir Jurowski ─ figlio d’arte, del celebre Mikhail ─ legge a Roma, per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (di cui è ospite fisso da ben più di una decina d’anni), la Sinfonia n. 6 di Gustav Mahler. Ideata e composta nei primi anni del ‘900, questa poderosa sinfonia vuole assurgere, nelle intenzioni dello stesso autore, a metafora della tortuosa esistenza umana, vista attraverso la lente di un linguaggio semantico arcaicamente tragico: una sorta di musicale eclisse dell’essere umano, cui è tolta la Dämmerung di wagneriana memoria. Questo debordante bagaglio semantico viene estrinsecato in un altrettanto debordante linguaggio musicale: un’enorme orchestra è l’unico mezzo che Mahler possiede per descrivere ogni aspetto della ‘tragica vita’ dell’uomo, un’orchestra «di onnipotente ricchezza timbrica» dove «il suono acquista un valore autonomo» (Paolo Gallarati, dal programma di sala).
Jurowski inizia assai risoluto nel barbarico, energico, primitiveggiante motivo ritmico iniziale, quelle pulsazioni che tessono tutto il movimento; ma allo spuntare del motivo più sentimentale e dolce (che i critici sogliono attribuire alla raffigurazione della moglie di Mahler, Alma) potrebbe dirigere più lirico, e lasciar cantare di più il motivo; ecco così, poi, ritornare una schizofrenia ritmica caotica, insostenibile, dove il gesto ferreo di Jurowski trova la sua più completa agibilità, tant’è che risulta un po’ metronomico nello squarcio placido, campestre, del bozzetto di reminiscenze naturalistiche suggerito anche dallo scampanio fuori dal palco (buonissimi qui i vari solisti: peccato solo per qualche sfiatamento del corno, seppur fisiologico dello strumento); infine il rutilante e fulmineo finale I. In seconda posizione Jurowski scegli di collocare l’Andante: un’annosa querelle musicologica si arrovella per tentare di capire quale sia effettivamente la giusta sequenza dell’Andante e dello Scherzo, essendoci di fatto due versioni filologicamente più che valide, giacché avallate dall’autorialità di Mahler stesso. Senz’entrare nel dettaglio, Jurowski ha operato una scelta tranquillamente condivisibile, e nell’Andante finalmente palesa anche doti di cesellatore, con una massa sonora meno imponente, ma nient’affatto meno intricata: la melodia è un motus perpetuus di estetizzanti incrostazioni sonore. In terza posizione, Jurowski pone lo Scherzo, cui dà libero sfogo nel suo trascinante ritmo di tribraco: alla parte più ironicamente mefistofelica, dove il russo gioca bene con le dinamiche sonore, fa da contraltare il nucleo del Trio, di cui avrebbe potuto rimarcare ancor più il carattere leziosamente stridente, alla maniera antica. Inizia benissimo l’ultimo movimento, l’Allegro moderato, gestendo i flussi dell’arpa e i vari strumenti in entrata: le parti sono tutte in continua tensione deduttiva di motivi, sfaldati da perenni glissati, per poi essere ripresi. In questo magma, Jurowski si trova alquanto a suo agio, arrivando questa volta anche a una eccellente resa del ristagno melodico che rilassa il nervosismo del movimento e rimembra gli squarci lirici del I; s’avvia bene alle convulsioni epiche del finale IV, per terminare col tragico, inquietante passaggio in minore.
L’orchestra è, al solito, in forma autenticamente smagliante. La direzione di Jurowski ha il pregio di essere personalissima: il russo non cerca di arrivare solamente alla fine, ma sceglie sempre una soluzione che lo soddisfaccia a livello sonoro. Ha un notevole senso della ritmica e della gestione di grandi masse orchestrali, cui si affianca un qualche vago senso bozzettistico, spesso però eroso dai battiti del suo metronomo cerebrale, troppo scientificamente asettici ─ va da sé che una partitura come la Sesta è una riottosa puledra, quasi indomabile. Il peso, inoltre, di vedere che tale sinfonia è stata interpretata, in quest’istituzione, da geni del calibro di Maazel (1982), Sinopoli (1986), Bernstein (1988) e Pappano, al certo non rilassa. I movimenti che gli riescono meglio sono il II e il IV: il materiale è veramente abnorme, ma ha buon occhio nel saper tenere il tutto e il lavoro, accurato, paga certamente (se poi uno ha sotto la sua bacchetta gli orchestrali dell’Accademia di Santa Cecilia, il tutto è ancora più facile). Gli applausi ─ dunque ─ arrivano, e generosi.