Valentina Lisitsa e John Axelrod in vesti ungheresi a Torino

Valentina Lisitsa e John Axelrod (Torino, OSN RAI, 11 IV 2014)

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore John Axelrod
Pianoforte Valentina Lisitsa
Franz Liszt : Fantasia su temi popolari ungheresi per pianoforte e orchestra
Franz Liszt : Totentanz (Danse macabre), parafrasi sul Dies irae per pianoforte e orchestra
Zoltán Kodály : Danze di Galánta
Johannes Brahms : Danze ungheresi (n. 1 in sol minore, orchestrazione di Johannes Brahms; n. 2 in re minore e n. 7 in fa maggiore, orchestrazione di Andreas Hallén; n. 6 in re maggiore e n. 5 in sol minore, orchestrazione di Albert Parlow)
Torino, 11 aprile 2014

Forse il pubblico più smaliziato reagisce con qualche gesto di impazienza, ma è inevitabile che in una stagione sinfonica di ventiquattro concerti se ne manifesti qualcuno che ammicca vistosamente a un repertorio di facile presa, complici magari esponenti in auge dello star system più rampante. Per questo non deve stupire che i cascami pompier del mondo musicale ungherese, per come filtrato da Franz Liszt e da Johannes Brahms, siano stati affidati a una pianista talentuosa, avvenente, fortemente mediatizzata come l’ucraina Valentina Lisitsa (che dal proprio canale YouTube rende accessibili tutte le sue interpretazioni), e a un direttore d’orchestra americano dal porgere molto friendly come John Axelrod. Non c’è da rammaricarsi, dunque, se per una volta il Kitsch ha il sopravvento sul buon gusto, l’effetto plateale sulla riflessione, l’enfasi sull’espressività. Avvolta in un vaporoso abito color fucsia, tutto voiles e pieghe, la Lisitsa entra in scena insieme ad Axelrod per eseguire la Fantasia su temi popolari ungheresi di Liszt. Il suo tocco può anche essere delicato, ma non è mai privo di risonanze metalliche, spia del vigore, anche della violenza con cui la pianista si accosta al testo musicale. Dopo l’enunciazione del primo tema importante, molto forte e marcato, il momento migliore è nella sezione centrale, di dialogo con l’orchestra per piccole frasi: le sonorità sono fresche e contenute. Nella virtuosistica stretta finale viene meno lo sforzo muscolare, ma resta quel timbro metallico poco gradevole; e in un pezzo che oggi suona così stereotipato (non privo di dettagli davvero kitsch), non è il meglio che si possa desiderare. Axelrod, d’altra parte, a suo agio con le orchestrazioni reboanti, riesce a collegare bene le varie famiglie strumentali. L’errore consiste forse nell’eseguire tutto Liszt allo stesso modo, perché con la Totentanz lo stile della Lisitsa si rivela assai più adeguato (e lo stesso si può dire del sornione Axelrod); ora le lame di luce scabra del suono del pianoforte si adattano molto meglio al macabro evocato dalle danze. L’artista è molto abile a superare (quasi indenne) tutte le difficoltà tecniche e le acrobazie delle ultime tre variazioni, e al termine del brano è sommersa da un mare ondeggiante di applausi calorosissimi. Come se i due Liszt non bastassero a presentare le proprie predilezioni, la Lisitsa sceglie tre brani fuori programma ancora di forte impatto emotivo: dopo l’Ave Maria di Schubert nella trascrizione lisztiana (facile a prevedersi: è uno dei bis più proposti dalla pianista), fa capolino un doppio Chopin (tra cui quello “rivoluzionario” dello Studio op. 10 n. 12). Anche Chopin è reso con accentuazione esasperata del cromatismo e con sonorità molto asciutte; sebbene attenuato, il suono della Lisitsa non è mai dolce, e soprattutto non offre mai un apprezzabile ventaglio di colori. Ma il pubblico apprezza moltissimo, tributandole autentica ovazione.
La seconda parte del concerto è interamente orchestrale, e procede con le bellissime Danze di Gálanta di Zoltán Kodály: scritte nel 1953, sono esattamente di un secolo posteriori alla Fantasia lisztiana con cui il concerto si apre. Con la sua irruenza Axelrod coglie ancora di sorpresa l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, perché nell’avvio c’è qualche incertezza; ma per fortuna diventa quasi subito protagonista la voce solista del clarinetto (il bravissimo Enrico Maria Baroni), delicata e carezzevole. Nei numeri che seguono si apprezza la ricerca di colori diversi, anche se la trama e la grana orchestrali non sono sempre ben definite (Axelrod ha un po’ la tendenza ad appiattire i particolari del testo sinfonico). Il grande senso del ritmo appassiona comunque il pubblico, specialmente con l’antologia di Danze ungheresi di Brahms: è condivisibile la scelta di cominciare con la n. 1, perché si tratta dell’unica che sia stata orchestrata dallo stesso Brahms, a partire dalla versione originale per pianoforte a quattro mani. Nella celebre n. 6 il direttore gioca su contrasti ritmici anche troppo smaccati, in linea con quel tipo di effetti “facili” rincorsi già dalla pianista nella prima parte del concerto. Ma l’argomento più robusto sullo stile esecutivo si ha con l’avvio dell’ultima danza in programma, l’ancor più celebre n. 5: sempre più sornione, mentre dà l’attacco Axelrod rivolge ammiccante uno sguardo compiaciuto al pubblico, e allora è inevitabile il richiamo al cartoon di Bugs Bunny che fa lo stesso gesto quando attacca al pianoforte la Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt … Anziché richiamo è un presagio; perché dopo il grandissimo trionfo decretato dagli spettatori (si poteva attendere esito diverso?), il direttore concede un bis orchestrale, per completare degnamente la serata. Qual è il brano scelto? Appunto, la Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt …