Verdi Danse al Teatro dell’Opera di Roma

Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione di Opere e Balletti 2013-2014
“VERDI DANSE”
Musiche di Giuseppe Verdi dai ballabili delle opere
Coreografia Micha van Hoecke
“Don Carlos”
Giovane ALESSIO REZZA
Lui-Don Carlo CLAUDIO COCINO
Lui-Philippe II PAOLO MONGELLI
Lei-Principessa Eboli ANNALISA CIANCI
Lei-Principessa di Valois MARIANNA SURIANO
Il violinista Bagasset FABIO LONGOBARDI
“I Masnadieri”
Musicista DENYS GANIO
Anima GAIA STRACCAMORE
“Macbeth”
Ecate ALESSANDRA AMATO
Due streghe MICHELA FONTANINI, CRISTINA SASO
Due streghe uomini EMANUELE  MULE’, GIOVANNI BELLA
“Jérusalem”
Premier danseur MANUEL PARUCCINI
Maestro di ballo RICCARDO DI COSMO
Pianista VINICIO COLELLA
“Arrigo”
Un uomo con maschera MANUEL PARUCCINI
Fisarmonicista MARIO STEFANO PIETRODARCHI
“I Vespri Siciliani”
Lui ALESSANDRO MACARIO
Lei GAIA STRACCAMORE
Una coppia ALESSIA GAY, CLAUDIO COCINO
Orchestra e corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore d’orchestra David Garforth
Scene Carlo Savi
Costumi Anna Biagiotti
Luci Agostino Angelini
Roma, 16 aprile 2014   

Da sempre affascinano, e non poco, i ballabili dalle opere di Giuseppe Verdi, scritti quasi tutti per il raffinato ed esigente pubblico parigino. La cultura teatrale francese infatti, a differenza della consuetudine tutta italiana di unire alla rappresentazione di un’opera lirica quella di un balletto o di una pièce mimica, prediligeva l’intima fusione tra le due forme d’arte. Del resto, se non si era famosi a Parigi, non ci si poteva definire degli operisti realmente affermati − Rossini docet… Dunque Verdi, fidando nell’agognata consacrazione francese, si adeguò alla moda del tempo: per le sue opere pensate in vista del circuito parigino compose o aggiunse successivamente (ove si trattasse di rifacimenti di partiture già eseguite in Italia) delle danze. Il coreografo stabile e direttore del corpo di ballo del maggiore teatro romano, Micha van Hoecke, propone una coreografia basata sulla reinterpretazione di un’antologia di ballabili tratti dalle opere verdiane parigine, eccezion fatta per il preludio de I Masnadieri (Her Majesty’s Theatre, Londra, 1847). La sua idea interpretativa è ben chiara: creare una sorta di dimensione narrativa che inglobi tutti ballabili in una sovrastruttura narrativa, fatta di scene, di bozzetti, sostanzialmente autonomi, che scaturiscono da un’idea di fondo, che si declina e si diversifica. Il risultato è altalenante. Convincono molto più le coreografia de Le quatre saisons (Les Vêpres siciliennes, 1855), di Jérusalem (1847) e quella già collaudata di Macbeth (1865, rifacimento francese della prima versione del 1847), assai ardita, piuttosto che quelle de Le Ballet de la Reine (Don Carlos, 1867), del preludio de I Masnadieri o di quella francamente più che discutibile definita Arrigo. Ma andiamo per ordine. Il sipario si apre con un espediente registicamente affatto interessante: poche note al pianoforte calano in un’atmosfera surreale, sul palcoscenico un sipario di velatino con una warholiana riproduzione del volto di Verdi in diversi colori. Verdi è diventato un’icona mondiale, e quindi è estremamente famoso: un ragazzo (Alessio Rezza) «vestito come ai tempi di Verdi» (come didascalicamente chiarisce Hoecke, nel programma di sala) guarda incuriosito le immagini verdiane e, d’un tratto, le luci interne svelano che dall’altra parte del sipario c’è un violinista (Fabio Longobardi). I due incominciano a ballare; si leva il sipario e inizia quella che sembra una fantasmagoria musicale sui loro pensieri. Il ragazzo guarda stupito una sorta di traduzione della trama dell’opera in danza: troviamo il quartetto Don Carlo (Claudio Cocino), Philippe II (Paolo Mongelli, sottotono rispetto al resto del quartetto), Principessa Eboli (Annalisa Cianci) e Elisabetta di Valois (Marianna Suriano). Le scene sono molto parche: fondali scuri, per acuire la tetraggine, e qualche manichino rappresentate gli invitati per la festa della regina di Spagna, sposa di Philippe II ma segretamente innamorata del figlio Don Carlo, cui era stata precedentemente promessa in sposa. Il divertissement, come di consueto, era a tema: in questo caso, rappresenta la storia fantastica di un pescatore che penetra in una grotta gremita di meraviglie marine, dove incontra una perla magica, anch’essa danzante. La coreografia ad hoc ideata da van Hoecke è stentoreamente fissata sull’opposizione dei due poli maschile-femminile: i protagonisti si incontrano e scontrano, incuranti del passare dei musicanti (di cui sono un’immaginazione) e del ragazzo. Forse esagerata è la scelta di inserire delle ragazze abbigliate in stile majorette, che vagano per il palco – ma allora il ragazzo ha poco a che fare con l’epoca di Verdi (?). Indi, si cambia scena: sul preludio de I Masnadieri, un anziano signore, un violoncellista, sta rimembrando forse un passato amore, un’immagine metaforizzata della musica. Entra uno spettro, generato dalla sua mente: incominciano a danzare e lui spesso ‘suona’ l’anima con un archetto: il tutto è sfibrato e poco intenso. Apprezzabili, però, le doti della Straccamore, che aggiunge un pathos particolare con la mimica del volto e ha, mentre danza, l’aspetto di una villi eterea, molto spettrale. Un’inversione di tendenza v’è con la coreografia del Macbeth, sul pastiche del preludio unito ai ballabili: la coreografia è una variante di un’idea coreutico-registica già collaudata in altre sedi (Ravenna e Cagliari, a mia memoria), e funziona molto meglio delle altre. La reinterpretazione giapponese è registicamente interessante e otticamente gradevole: si pensi al gioco tra un fondale a telo rosso, creante degli effetti di un sangue setato e ondulato, cui seguono fondali fissi simil muri giapponesi, con proiezioni di una luce verde fosforescente. La coreografia, sul preludio e l’inizio della pantomima, mostra Ecate (Alessandra Amato) in una tuta nera, con un serpente rosso che le scende verso il ventre a mo’ di monile: un’Ecate intensa, dalle movenze sensualmente luciferine, circondata dalle sue accolite inginocchiate in una perfetta posa giapponese, con tanto di ventagli. Quindi, la danse infernale in cui streghe maschi e femmine simulano coreografie satanicamente giapponesi, mentre due ballerini lottano fra di loro come fossero samurai (i bravi Emanuele Mulè e Giovanni Bella). La coreografia di Jérusalem è molto più classica – l’originale prevedeva dei ballabili dal gusto orientaleggiante, ambientati nell’harem dell’Emiro di Ramla: s’immagina una scuola di danza parigina, un tableau citante una tipica scena degassiana, in cui un premier danseur (Manuel Parruccini) balla assieme a allieve, non certo esenti dal suo fascino, accompagnati da un pianista (Vinicio Colella), che deve dare il ritmo e il tempo alle ballerine. Fra diverse gags (il maestro che ha particolari attenzioni per una danzatrice; la vanesia bravura del danseur; il pianista che rallenta per permettere alla ballerina di terminare in tempo una pirouette ecc) la coreografia scorre: qualche problemino di coordinazione, però, tra il maestro (Riccardo di Cosmo) e la ballerina. Molto in voga, l’uso di uno specchio in alto sopra un fondale riflette una citazione di una quadro di Degas. Il tableau successivo è, francamente, inspiegabile: si tratta di un fisarmonicista che intona la celebre melodia de Le Vêpres siciliennes («Arrigo! ah! parli a un core») mentre una maschera balla languidamente nascondendo il bastone che ne regge un’altra: sono, ovviamente, una metafora di Arrigo e Elena. (Comprendo la scelta di aver evitato i ballabili di Aida, strafamosi e troppo battuti, ma qui si potevano inserire, per esempio, i cortissimi ballabili, superbi, della versione parigina di Otello, le ultime musiche di scena scritte dal maestro, oltre che brani di una sensualità e bellezza, oserei dire, sconvolgenti; volendo optare per questa discutibile pantomima s’è falcidiata la tensione drammatica della successione dei ballabili). Il tutto è fuori luogo e francamente poco attraente: bravo però Pietrodarchi con la fisarmonica. Il secondo tempo è dedicato a Les quatre saisons da Les Vêpres: l’allegoria delle stagioni diviene di nuovo la storia dei Vêpres, ma questa volta con gusto accademico gradevole e azzeccato. Le scenografie prevedono dei pannelli rossi suggerenti un interno, un salone da ballo. Molto bella la coreografia sull’esotica e melancolica siciliana, dove la Straccamore danza con un velo arancione, e il pas de deux tra la medesima e Macario (Arrigo) – gradevoli i manèges e i fouettes di rito. Molto preparato, al solito, e esteticamente appagante l’intero corpo di ballo, nelle diverse figurazioni di danza, maschili, femminili e di coppia. David Garforth, già direttore per l’Opera di Roma di due edizioni di Giselle (2010 e 2011) e di una de La bayadère (2011), torna con la sua asciutta, neutra, sintetica, lettura di pagine che avrebbero (forse) potuto brillare di più: ma il suo mestiere lo sa fare. Tiepidi applausi, di una sala sfortunatamente poco gremita, ringraziano i ballerini. Foto Francesco Squeglia