Giacomo Meyerbeer (1791-184):”Robert le diable”

Grand-Opéra in 5 atti, libretto di Eugene Scribe e Casimir Delavigne. Bryan Hymel (Robert), Martial Defontaine (Raimbaut), Carmen Giannattasio (Alice), Patrizia Ciofi (Isabelle), Alastair Miles (Bertram), Carlo Striuli (Alberti), Angelo Nardinocchi (primo cavaliere), Francesco Pittari (Un araldo, il maestro di cerimonie), Paolo Gloriante (secondo cavaliere), Elena Memioli (una dama). Coro del Teatro dell’Opera di Salerno, Orchestra Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi”.  Daniel Oren (direttore), Luigi Petrozziello (Maestro del Coro). Registrazione: Salerno, Teatro Verdi, 23 marzo 2012. T.Time:183’27. 3 CD 94604 Brilliant Classics

Meyerbeer iniziò ad interessarsi ad una figura semi-demoniaca presente nel mito normanno, nota come Robert “il diavolo”, nel 1826, come possibile soggetto di un’opera commissionatagli dall’Opéra Comique. In realtà il libretto alla fine non aveva molto a che fare con la leggenda che aveva prodotto un celeberrimo “mystère” (inteso come dramma teatrale medievale) in cui Robert vive nella dissolutezza, fra orge e delitti, e poi (un po’ alla Tannhäuser) si reca a Roma per ottenere l’assoluzione papale, per mettersi poi uno a capo di un contingente crociato. Al contrario, Scribe, il librettista più influente, nel bene e nel male, dell’opera ottocentesca francese, seguì la moda allora imperante di romanzi, drammi, e opere gotiche e sovrannaturali. Oltre all’esempio de La dame blanche di Boieldieu, furoreggiava a Parigi Der Freischütz di Weber, proposto con il titolo di Robin de bois all’Odéon in un adattamento che definire molto libero sarebbe un eufemismo.   In seguito ad un cambio di guardia ai vertici dell’Opéra Comique, Meyerbeer dirottò Robert le diable verso l’Opéra, e di conseguenza dovette adattarlo alle convenzioni proprie del massimo teatro d’opera francese: i tre atti originali divennero i canonici cinque, i dialoghi parlati furono sostituiti dai recitativi, e la trama venne sottoposta a drastici cambiamenti. La parte di Raimbaut fu quella che risentì maggiormente di queste modifiche; se nella versione precedente Raimbaut svolgeva un ruolo principale, fungendo insieme a Alice come contraltare comico alla coppia “nobile” formata da Robert e Isabelle, in quella nuova scompare a metà dell’opera, ed è proprio questa sparizione ad esser stata ritenuta sin dai primissimi critici e studiosi come una delle cause maggiori della debolezza strutturale dell’opera.
In ogni caso Robert le diable andò in scena nel 1831 con una compagnia di canto di primissimo livello, quasi tutti beniamini rossiniani e creatori di vari ruoli dei suoi capolavori francesi: Adolphe Nouritt nel ruolo eponimo, Laure Cinti-Damereau in quello di Isabelle, e Julie Dorus-Gras (Alice). Questa dicotomia fra soprano acutissimo di coloratura (Isabelle) e soprano “Falcon”, ossia un soprano che senza disdegnare ascensioni al registro acuto gioca le sue carte migliori nel registro medio, con un canto più lirico, se non proprio drammatico, e spianato, divenne una caratteristica del grand opéra, ripetendosi per esempio in Les Huguenots (Marguerite de Valois e Valentine) e La Juive (Eudoxie e Rachel). La stessa Cornélie Falcon, colei che acquistò tale fama da dare il proprio nome a quel tipo di vocalità sopranile, assunse il ruolo di Alice un anno dopo la prima, tenendolo in repertorio per tutta la (brevissima) carriera. Il ruolo di Bertram era stato pensato dal compositore per il celebre baritono Henri-Bernard Dabadie, ma poco prima dell’inizio delle prove Meyerbeer si lasciò convincere che un basso profondo sarebbe stato più idoneo, quindi l’altrettanto famoso Nicolas Levasseur finì per creare il ruolo. Il successo, anzi il trionfo fu immediato e duraturo, ma le rappresentazioni di Robert le diable iniziarono ad assottigliarsi drasticamente nel tardo Ottocento, insieme alle fortune di Meyerbeer in generale.
Nel dopoguerra, le riesumazioni più significative sono state quelle del Maggio Musicale Fiorentino (1968) in italiano con Renata Scotto, Boris Christoff e Giorgio Merighi, e ancor più quella parigina, in francese ovviamente, del 1985 con June Anderson, Samuel Ramey e Alain Vanzo e Rockwell Blake che si alternavano nel ruolo del protagonista. Il 2012 è stato testimone di un numero stranamente altissimo di allestimenti (Monte Carlo, Ginevra, Sofia, Enfurt, Salerno e Londra), ma tale fortuna non pare destinata a ripetersi in futuro soprattutto a causa del clamoroso insuccesso della produzione più prestigiosa, quel del Covent Garden, segnata da diserzioni (Flórez, per cui l’opera era stata inclusa in cartellone, decise poi di non aggiungere questo ruolo al proprio repertorio), e “licenziamenti” durante le prove, allorché il soprano americano Jennifer Rowland venne improvvisamente ritenuta non idonea al ruolo di Isabelle e sostituita da Patrizia Ciofi, causando spiacevoli recriminazioni pubbliche. Ma fu l’opera stessa ad esser bersagliata da critiche feroci, quasi scomposte. La presente edizione in CD edita dalla Brilliant Opera Collection riflette una esecuzione data in forma concertante a Salerno nel 2012, poco prima dell’allestimento londinese (pubblicato in DVD dalla Opus Arte) E in effetti vari artisti sono presenti in entrambe le esecuzioni: Patrizia Ciofi, Bryan Hymel (che fu poi chiamato a sostituire Florez), e il direttore, Daniel Oren. A Salerno Carmen Giannattasio interpretava Alice e Alastair Miles Bertram.

Già il fatto che l’esecuzione salernitana rientri in tre CD la dice lunga sui tagli operati, che sono moltissimi. Durante l’ascolto ho scrupolosamente segnato tutti i tagli apportati, che però sarebbe qui inutile riportare per intero, dato che investono in maniera più o meno estesa tutti ma proprio tutti i numeri chiusi, siano essi arie, duetti, terzetti o cori. Particolarmente dolorosi sono le eliminazioni delle riprese dei due couplets di Alice (primo e terzo atto), il taglio del daccapo della cabaletta di Isabelle nel secondo atto, di quello della cabaletta di Bertram nel terzo atto e due enormi falciature nei finali atto secondo e atto quarto, che rimangono poco più che moncherini. Veramente bizzarra è la soppressione di due numeri del balletto “delle suore”, piéce che nell’Ottocento fu sicuramente il più amato e atteso dell’opera. Solo la romance di Isabelle del quarto atto, probabilmente il momento artisticamente più alto di tutta la partitura, esce integro da questo atto di vera macelleria (o meglio quasi integro perché perde una manciata di battute alla fine). Non parliamo poi dei numeri chiusi completamente eliminati, come la preghiera dei monaci nel quinto atto. È indubbio che presentare ai nostri un grand-opéra di monumentale statura come Robert le Diable senza neanche toccare una virgola è impresa assai ardua (ma non impossibile, se pensiamo che Tristan und Isolde e Götterdämmerung per esempio adesso vengono proposti senza neanche toccare una nota), ma l’enormità delle potature rendono questi tre CD quasi una selezione dell’opera.
Detto questo, esaminiamo quanto è rimasto.   Daniel Oren, che non ha certo concentrato la propria lunga e versatile carriera sull’opera francese, per non parlare del grand-opéra, si rivela direttore molto attento ai dettami di questo genere musicale. Vaporoso e scintillante nei molti brani di carattere comico o quanto meno conviviale (il duetto buffo fra Bertram e Reimbaut è accompagnato con mano leggera come una piuma), patetico e partecipe in quelli lirici (“Robert, toi que j’aime”, e ancor di più la stupenda sentimentalità del cor anglais che accompagna la cavatina di Robert nel quarto atto “Ah, qu’elle est belle”), appropriatamente tenebroso e quasi sinfonico nelle parti che hanno a che fare con le creature demoniache e l’aldilà, gran parte del ruolo di Bertram insomma.   Soltanto nel finale atto quarto, una delle vette dello spartito, si avverte una certa fretta, e il risultato, anche a causa dei tagli, è abbastanza deludente. L’Orchestra Filarmonica Salernitana “Giuseppe Verdi” sorprende per il virtuosismo e l’accuratezza, di livello ben superiore a quello di un’orchestra cosiddetta provinciale, segno che la collaborazione con Oren sta dando i suoi frutti. Il Coro dell’Opera di Salerno, alle prese con una partitura in cui le masse corali hanno una presenza enorme, esce a testa alta per precisione e omogeneità sonora.
Il quintetto dei personaggi principali si mantiene sempre su livelli molto alti, talora eccellenti, tranne un’eccezione, fortunatamente non cruciale. Ho sempre ammirato il colore brunito, dotato di spessore quasi mezzosopranile nel registro medio-grave, di Carmen Giannattasio. Al contrario di altre occasioni in cui il registro acuto risultava un po’ fisso e non perfettamente immascherato (e talora calante), qui la Giannattasio emette acuti tutto sommato morbidi e pastosi. La tessitura centrale le calza come un guanto, anche se poi anche il ruolo di Alice prevede un numero non indifferente di Si naturali e Do naturali acuti, come nei couplets del terzo atto. Anche da un punto di vista interpretativo, il soprano avellinese riesce a evidenziare i molti stati d’animo di Alice; si presenta con modestia fanciulla di campagna nel primo atto, con angoscia e la trepidazione propria di chi è combattuto fra la paura e la speranza nel terzo, e consapevole determinazione nell’ultimo atto. Isabelle (ruolo più appariscente ma anche più monocromatico di quello di Alice) è Patrizia Ciofi, a proprio agio nelle agilità del secondo atto non meno che nei momenti introspettivi, lirici del quarto. Da esperta belcantista esegue scale, arpeggi, trilli con nonchalance, con soltanto qualche nota leggermente afona nel registro grave; l’aria del quarto atto è caratterizzata da un gioco di legati da manuale, e sollecita l’unica vera ovazione della serata.
Alastair Miles, un cantante piuttosto versatile ma noto ai più come interprete del belcanto italiano, e con una carriera ormai quasi trentennale alle spalle, non avrà forse il timbro scuro preferibile per Bertram, ma sopperisce a questo limite con una notevole varietà di accenti e un fraseggio intelligente. Il registro acuto è ancora saldo, sicuro e affidabilissimo, come dimostrano i Fa diesis del Valse infernale, in cui oltre tutto fa sfoggio di una coloratura precisa e sgranata; nel duetto con Alice esegue salti di ottava intonatissimi, ma il registro grave è spesso fioco, come dimostrano i Mi naturali gravi, uno dei quali interpolato poco saggiamente dal cantante stesso alla fine del duetto (“Voici Robert, tais-toi, sinon la mort!”).
Bryan Hymel (Robert) ha raggiunto in brevissimo tempo la tanto agognata “lista A” dei cantanti del giro internazionale, e anche da questa registrazione non è difficile intuirne i motivi. Il timbro non sarà particolarmente accattivante e seducente, ma la tecnica è ottima, e l’estensione prodigiosa.   Questo è un ruolo quasi impossibile (seppur facilitato dai tagli), con una tessitura che martella incessantemente sulla zona del passaggio di registro, sciabolate improvvise verso la stratosfera dei sovracuti, e con molti passaggi che richiedono una padronanza delle agilità. In più è preferibile una voce di una certa corposità che non sia sommersa dall’orchestra nei passi più drammatici e concitati. Hymel possiede tutto questo: se chiudiamo un occhio sul timbro poco ammaliante (ma neanche spiacevole, ovviamente), potremo ammirare la facilità in acuto, e la spavaldità con cui si lancia sui vari Do, Re bemolli e Re naturali, a cui spesso e volentieri è necessario arrivare bruscamente con intervalli ampi e di non facile intonazione. Tanto per dare un esempio, nella cadenza della Siciliana del primo atto, il tenore americano attacca un Re acuto e poi scende giù più di due ottave fino al Do grave, il tutto come se fosse la cosa più facile del mondo. Per non parlare poi del Gran Terzetto del quinto atto, che impegna seriamente tutti e tre i cantanti, ma in cui Hymel riesce a svettare con acuti quasi insolenti.
Per il ruolo di Raimbaut si è scelto Martial Defontaine, un tenore con una voce di scarso volume poco interessante timbricamente, con difficoltà in acuto (che qui arriva solo a un La naturale) e soprattutto intonazione spesso sospetta. Da questa incisione pare difficile comprendere come possa avere in repertorio anche ruoli come Jason in Médée e Don José in Carmen. Certo, è l’unico di madrelingua francese e si sente, ma ciò non sopperisce ai cospicui problemi di cui accennavamo sopra. In ogni caso il suo ruolo è abbastanza limitato (e con i tagli diviene ancor più marginale) e non inficia sul risultato più che positivo di questa registrazione, che pur con tutti i suoi difetti (e cioè principalmente il grossolano lavoro di taglia e cuci), vanta una buona direzione, ottime prestazioni solistiche e contribuisce a colmare le enormi lacune della discografia meyerbeeriana.