Mikhail Pletnev e la “demolizione” di Schumann

Mikhail Pletnev all'Auditorium RAI di Torino (15 V 2014)

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Mikhail Pletnev
Robert Schumann: Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 54
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 Eroica
Torino, 15 maggio 2014

«Was bedeutet die Bewegung?», Perché il movimento, che cosa esso significa? La domanda di origine goethiana potrebbe sintetizzare la sfida con cui un grande interprete si accosta al concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 54 di Schumann, capolavoro eccentrico all’interno della letteratura pianistica, nato nel cuore dell’età romantica come fantasia sinfonica per l’amata Clara Wieck. La domanda introduce il problema fondamentale con cui Mikhail Pletnev si confronta: il ritmo, lo scorrere fluido del tempo musicale. A dirigere è Juraj Valčuha, direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, al suo ultimo concerto della stagione 2013-2014; non meritava certo di diventare involontario protagonista di un momento artistico piuttosto imbarazzante. L’avvio dell’Allegro affettuoso, con il primo dialogo tra solista e orchestra, restituisce qualche cosa di non mai udito prima: Pletnev frammenta le ampie arcate del testo di Schumann, come se volesse enunciare le singole cellule che lo compongono. Tutto questo avviene per mezzo di ritenendo e di pause particolarmente accentuate. Il direttore sostiene a stento lo slancio dell’orchestra contro una lentezza eccessiva che, se esalta quelle singole cellule, polverizza però il disegno strumentale; appena può, ossia con la sola orchestra, Valčuha recupera un poco di brio, per poi porgere la guida del ritmo – tornato rilassatissimo – a Pletnev, che evidentemente impone la sua visione agogica. Il I movimento del concerto, insomma, sembra l’Adagio di una sonata per pianoforte solo. Il suono è certamente nitido (ci mancherebbe altro …), si apprezzano tutti gli arpeggi e la costruzione armonica del discorso; ma è alquanto penoso ascoltare gli altri strumenti costretti a trattenere un’enunciazione che vorrebbero più spedita.
Difficile comprendere le ragioni di una scelta interpretativa così radicale; forse è un modo per rimarcare l’eccentricità del I movimento, nato nel 1841 come una sorta di fantasia sinfonica, lontana dagli stereotipi del concerto; oppure è una modalità per tradurre in preghiera la musica di Schumann, come lo stesso Pletnev ha dichiarato. Comunque sia, a lungo andare il rallentamento esasperato stanca il pubblico. Nell’Intermezzo. Andantino grazioso lo sforzo di Valčuha per sostenere il suono riesce meglio, perché più consono alla natura del pezzo. Ma per Pletnev il concerto schumanniano resta un mondo di bellezza astratta e immobile, in cui non c’è quasi mobilità, e in cui soprattutto non c’è alcuna drammaticità. Con il prosciugamento di ogni contrasto ritmico è raggiunta una atarassia, tanto più paradossale se si considera l’importanza di Beethoven quale modello ineludibile del II movimento e del finale (Allegro vivace). Lo slancio nervoso è invece stirato e appiattito, e anche sul piano tecnico Pletnev si dimostra anticonformista nei confronti delle convenzioni, con qualche sprezzatura nell’intonazione e in alcuni glissando, non sempre calligrafici. Quando l’orchestra è sola, la musica stessa sembra risvegliarsi dal torpore e affacciarsi su un mondo vivo e caldo. Neppure il movimento conclusivo è festoso o brillante, bensì scandito con una forza stentata, quasi spenta, comunque affaticata. Come forse, in ultima analisi, il talento di un artista che si sta ripiegando su se stesso, in un’incertezza esistenziale sempre crescente.
Dopo l’ultimo accordo il pubblico reagisce con applausi quasi unanimi, ma un poco imbarazzati; e si stupisce quando Pletnev porge un bis chopinniano di tutt’altra natura stilistica: il celebre Notturno n. 20 è tutta forza e intensità, struggimento e abilità tecnica (quei parametri esecutivi che in Schumann erano ridotti allo stremo). Straordinarie le mezze voci, tanto che l’uditorio applaude con più convinzione il brano fuori programma rispetto al concerto; come a dire che le interpretazioni sperimentali destano sempre forti perplessità, specialmente se applicate alla musica più che ‘classica’.
Dopo lo sconvolgimento interpretativo di Pletnev, dopo la “demolizione” (nel senso etimologico di frantumazione totale) di Schumann, il piglio esuberante con cui Valčuha attacca la Sinfonia n. 3 Eroica di Ludwig van Beethoven è addirittura balsamico. Franchezza, trasparenza, entusiasmo, afflato eroico, ça va sans dire; il direttore non ausculta i dettagli della partitura, ma ne offre una lettura positiva e godibilissima, che al pubblico piace sempre molto. La musica risplende, anche grazie alla valorizzazione di tanti piccoli camei: l’oboe di Carlo Romano nell’Allegro con brio, nella Marcia funebre il bellissimo timbro dei contrabbassi; nello Scherzo i corni, ovviamente; nel Finale il flauto di Giampaolo Pretto. Spande gioia e vitalità, il Beethoven di Valčuha; più che memoria di un magnanimo e del suo eroismo sembra l’auspicio di una nuova umanità, illuminata dal bene. Fotografie Michele Rutigliano