Teatro di San Carlo di Napoli:”Pagliacci”

Napoli, Teatro di San Carlo, Stagione Lirica 2013 /2014
“PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda / Colombina ALEXIA VOLGARIDOU
Canio / Pagliaccio ANTONELLO PALOMBI
Tonio / Taddeo CLAUDIO SGURA
Beppe / Arlecchino MERT SUNGU
Silvio LUCA GRASSI
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli
Direttore Nello Santi
Maestro del Coro Sergio Caputo
Regia Daniele Finzi Pasca
Creative Associate Julie Hamelin
Coreografie Maria Bonzanigo
Scene Hugo Gargiulo
Costumi Giovanna Buzzi
Disegno Luci Daniele Finzi Pasca e Alexis Bowles
Allestimento del Teatro di San Carlo
Napoli, 22 maggio 2014
Una meraviglia continua e fluida inonda lo sguardo degli spettatori presenti alla prima sancarliana del capolavoro verista “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, che il Massimo napoletano ripropone per la regia di Daniele Finzi Pasca. Teatro gremito di un pubblico in tripudio ed estasi a fine rappresentazione, con maestranze soddisfatte, cast commosso e lunghissimi applausi per il Direttore Nello Santi. Esaltazione, soddisfazione e commozione legittimate da una performance di alto livello. L’acqua che il regista colloca sul pavimento della scena dopo l’Intermezzo, come catarsi, sublima, purifica e cancella “ciò che fu”, bagna tutti, ora come lacrima ora come guizzo. Come accennato, si tratta di un allestimento già presentato e accolto con toni entusiastici da pubblico e critica, nella stagione estiva del 2011 (al San Carlo le recite di “Pagliacci” sono state numerosissime durante il Novecento, fino al 1974). Sicuramente, gran merito del successo riscontrato va al disegno registico di Daniele Finzi Pasca, il quale riesce a trasformare in fantastico e surreale un dramma di stampo verista senza, tuttavia, snaturarne il senso intrinseco. Più che il tormento del tradimento o la riflessione sul valore ontologico del “pagliaccio” (riflessione abbondante in letteratura) la sua regia induce a cogliere l’ineluttabile fusione di finzione e realtà, qui portata alle estreme conseguenze con il “pubblico di scena” travestito da pagliacci e marionette e i pagliacci–attori vestiti da nobiluomini che si insinuano nell’impianto fiabesco. Un ribaltamento di concetti in cui l’espediente del metateatro è amplificato e ulteriormente legittimato. L’orchestra, come accennato prima, diretta da Nello Santi, presenta una condotta uniforme e apprezzabile  per sonorità, amalgama timbrico e equilibrio dei volumi. Una lettura, la sua, che rimane sostanzialmente fedele a una certa tradizione interpretativa chiaramente verista. Le scene, firmate da Hugo Gargiulo, essenziali e suggestive, presentano ampi spazi con tagli di luce netti e forti, il cui disegno è curato dallo stesso regista. Gli straordinari costumi portano la firma di Giovanna Buzzi, già collaboratrice del Finzi Pasca per le Olimpiadi invernali, e sono ulteriormente esaltati dal make-up curato da Chiqui Barbè. Stoffe multicolori abilmente accostate illuminano la scena e fanno splendere ulteriormente la buona prestazione del Coro di Voci Bianche diretto da Stefania Rinaldi e del Coro diretto da Salvatore Caputo.  Un plauso ed una considerazione a latere merita l’ensemble di acrobati provenienti dalla Compagnia Finzi Pasca e già protagonisti principali di lavori del Cirque du Soleil e  del Cirque Éloize. In qualche punto della messinscena i loro volteggi, di una bellezza e leggiadria disarmanti, distolgono “emotivamente” dalla vicenda, in altri la esaltano sublimandola e divenendo l’alter ego collettivo ed animato di Nedda, Alexia Voulgaridou, con la quale sono in continuo contatto scenico; contatto che si arresterà solo con la Morte. L’uccisione da parte di Canio di Nedda- Colombina vive, infatti, come un’eco di sangue attraverso il simbolico annientamento di tutte le sue “ombre” che trasformeranno lo specchio d’acqua in scena in mare di orrore. Il pur bravo soprano non brilla per smalto e risonanza e il risultato complessivo mostra un certo squilibrio fra il lirismo e l’impeto drammatico. La sofisticatezza gestuale riservatale dalla regia nella compenetrazione intima e complice con il coro di acrobati, la rende, in quest’allestimento, personaggio etereo e tuttavia “pura”. Il Canio di Antonello Palombi, forse il più emozionato fra i cantanti (almeno al momento degli applausi), regala una piacevole esecuzione, anche se scenicamente pecca di qualche vuoto emotivo in «Vesti la giubba». La corposità della sua voce oscilla in qualche momento soprattutto nella zona del “passaggio ”, riuscendo, però, subito a recuperare “i remi” di una vocalità importante come la sua e ad affrontare con maestria la zona acuta. L’interpretazione, come sottolineato, risulta però qua e là orfana di “visceralità”. Efficace scenicamente il Tonio, Claudio Sgura, nell’interpretazione del quid diabolico insito nel suo personaggio. Sul piano vocale si notano delle discrepanze tra il registro centrale corposo e risonante  e quello acuto, tendenzialmente teso e povero di smalto. Luca Grassi, nei panni di Silvio, appare scenicamente ed  emotivamente un po’ distaccato. Di certo, Grassi è un baritono elegante nel fraseggio, dalla voce facile, morbida, timbrata. Non convince del tutto  l’esecuzione vocale di Mert Sungu (Peppe), tenore leggero che, in qualche punto, è parso a disagio e messo  in difficoltà dalle sonorità orchestrali.  Uno spettacolo intenso, arricchito da due inserti musicali per pianoforte riportati in digitale ed eseguiti da Leoncavallo stesso su rullo meccanico Welte-Mignon nel 1905 (uno, Intermezzo dall’opera stessa prima del Prologo, l’altro, Flirt Waltzer composto sempre da Leoncavallo, prima che abbia inizio lo spettacolino in scena).  Settanta minuti intensi in cui la contaminatio dei linguaggi espressivi e caleidoscopici dell’Arte raggiunge un acme di bellezza, quella bellezza capace di annullare l’orrore della cronaca, quella bellezza del divertissement di cui si ha davvero bisogno e da cui ci si lascia volentieri attrarre ora che, ancora più di allora, finzione e realtà son una cosa.