“The Rake’s Progress” al Regio di Torino

Teatro Regio, Stagione lirica 2013-14
“THE RAKE’S PROGRESS
Opera in tre atti di Wystan Hugh Auden e Chester Simon Kallman
Musica di Igor Fëdorovič Stravinskij
Trulove  JAKOB ZETHNER
Anne Trulove DANIELLE DE NIESE
Tom Rakewell  LEONARDO CAPALBO
Nick Shadow  BO SKOVHUS
Mother Goose BARBARA DI CASTRI
Baba la turca  ANNIE VAVRILLE
Sellem  COLIN JUDSON
Il guardiano del manicomio  RYAN MILSTEAD
Una voce LORENZO BATTAGION
Attori  ENO GREVENI, GIUSEPPE LAZZARA, NICCOLÒ ORSOLANI, LUCA ZILOVICH
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia David McVicar
Scene e costumi    John Macfarlane
Luci  David Finn
Coreografia Andrew George
Nuovo allestimento in coproduzione con la Scottish Opera (Glasgow)
Torino, 14 giugno 2014       
Penultimo titolo della stagione 2013-14 del Teatro Regio di Torino – ultimo autenticamente operistico prima della chiusura dell’insegna dell’operetta con “La vedova allegra” – questa nuova produzione di “The Rake’s progress” mantiene pienamente tutte le promesse rivelandosi uno degli spettacoli più riusciti allestiti nel teatro torinese non solo in questa stagione ma almeno negli ultimi anni.  Il merito principale della riuscita di questa produzione spetta principalmente alla coppia Gianandrea NosedaDavid McVicar e all’evidente, perfetta intesa esistente fra i due che permette di siglare un’edizione che per molti aspetti resterà di riferimento per gli anni a venire.
Il regista scozzese offre di quest’opera per molti aspetti così sfuggente un’interpretazione di assoluta forza visiva. L’impianto scenografico – firmato da John Macfarlane è a suo modo essenziale formato da incorniciatura di elementi lignei all’interno della quale si dispongono fondali dipinti e prospettive architettoniche perfettamente rispondenti all’ambiente e al gusto della vicenda ma al contempo palesemente finti, volutamente non realistici nella loro innaturale bi-dimensionalità, elementi scenografici e non contesti reali di quel gran teatro che è il mondo dove ciascuno si limita a recitare la propria parte senza mai viverla fino in fondo. La natura che incornicia il mondo di Anne è solo apparentemente realistica richiamando piuttosto un certo gusto per il paesaggio romantico della fine del XVIII in cui il dato naturale è profondamente filtrato dal rifacimento pittorico; le architetture di Londra ricordano certi capricci scenografici alla Gillot a loro volta ispirati al mondo del teatro mentre il folle accatastamento di oggetti in casa di Tom dopo il matrimonio con Baba appare come una wunderkammer impazzita o una natura morta caotica e disorganizzata e riportata sul piano innaturale e meta-teatrale del fondalino dipinto. Su tutti domina però il senso ineluttabile della morte; un grande scheletro dipinto secondo il gusto tardo-barocco che già appare sul sipario e che ritorno a scandire con la sua inquietante presenza l’intera vicenda, unico elemento pienamente reale di questo gioco scenico altrimenti inconsistente ed anche quanto non compare in tutta la sua evidenza la morte è sempre presente, sempre avvertibile e dominante sia essa il macabro orologio a cucù del bordello di Mother Goose o la mano ossuta che scosta il sipario per mostrare la casa londinese di Tom. Pochi ma molto curati gli elementi d’arredo fra cui si segnalano le deliziose ricostruzioni di giocattoli settecenteschi con cui viene mostrato il racconto di Nik nel primo atto. I costumi firmati dallo stesso Mcfarlane richiamano senza forzature o stravolgimenti l’ambiente settecentesco della vicenda ma al contempo la reinterpretano con un gusto quasi da cartone animato nei loro tratti eccessivi e quasi caricaturali e nei loro colori brillanti.
Sul piano strettamente registico McVicar evita ogni forzatura o ogni sovra-interpretazione, a lui interessa prima di tutto raccontare una storia nel modo più chiaro e coerente possibile e lo fa con una sensibilità e con una cura per il dettaglio che è propria del miglior teatro britannico. Una regia fatta quindi di piccoli gesti, di elementi quasi puntiformi ma che illuminano i singoli quadri dando ad essi una nuova vita ed una nuova verità. Gli elementi sarebbero tanto ma basti ricordare il senso di gelo che investe Anne ogni volta in cui viene avvicinata da Nik già nel corso del primo atto e che la costringe a stringersi in se stessa o l’infinita umanità con cui sono tratteggiati i singoli folli nel manicomio di Bedlam per definire qual è l’approccio generale della regia. Va poi segnalato lo straordinario lavoro interpretativo fatto sui singoli personaggi capace di far risultare con inedita forza la profonda fragilità di Tom, la terribilità di Nik – veramente da brividi nella recitazione fatta di scatti violenti e attimi di stasi se possibile ancor più spaventosi nella scena del cimitero – o la verità umana di Baba privata di ogni tratto inutilmente grottesco o caricaturale per diventare semplicemente un essere umano, molto più umano della società che la guarda e la giudica dall’esterno essa invece caricaturale e grottesca.
Altrettanto compiuta in sé, ma soprattutto pienamente omogenea alla regia nel piano dell’approccio al testo, la direzione di Gianandrea Noseda è stato l’altro punto di forza di questa produzione. Una direzione che evita accuratamente gli eccessi in cui questa partitura rischia di cadere – la placida imitazione di un classicismo ormai senza vita o l’eccessiva caratterizzazione in chiave caricaturale e sarcastica a scapito della verità espressiva di cui molti momenti di quest’opera sono decisamente ricchi nonostante la vulgata che voglia fare di “The Rake’s progress” un mero gioco intellettuale incapace di parlare al cuore. Noseda riesce ad evitarli entrambi gli e al contempo ad evidenziare le due anime della partitura come complementari e non contrapposte. Una direzione capace di una forza ritmica trascinante – si veda il duetto fra Tom e Nik nella I scena del II atto – in cui il vetriolo della più mordace ironia corrode e come dissolve la linea musicale – ad esempio durante l’asta o nel bordello – ma senza che questo comporti mai l’abbandono di una ricchezza sonora, di una pulizia del suono e del fraseggio orchestra che potremmo definire sorta di bellezza riconoscibile seppur stravolta.
Una lettura di questo tipo non può che esaltare quei momenti – e non sono pochi – in cui la dimensione melodica diviene preminente e in cui l’orchestra è chiamata a cantare quanto nelle migliori opere tradizionali come l’intenso, dolcissimo preludio che apre la seconda scena del II atto con l’arrivo di Anne a Londra o la strepitosa scena della follia con la ninna-nanna che Anne-Venere canta per placare il delirio di Tom e che grazie alla forza espressiva della direzione di Noseda, alla profonda verità della recitazione voluta da McVicar e alle doti espressive mostrate dalla de Niese si è rivelato momento di autentica, profonda commozione capace di strappare più di una lacrima. I meriti della direzione di Noseda vanno condivisi con la compagine orchestrale che ha saputo risolvere senza apparente difficoltà la complessa partitura stravinskijana il cui instabile andamento tonale e il continuo variare degli elementi dinamici e ritmici presenta non poche difficoltà agli esecutori. Discorso analogo per il coro del Teatro Regio guidato da Claudio Fenoglio chiamata da Stravinskij a risolvere alcuni dei momenti più complessi sul piano contrappuntistico dell’intera partitura come la scena dell’asta del II atto.
Il cast è soprattutto un’autentica compagnia perfettamente affiata tanto sotto il profilo scenico quanto sotto quello vocale e che riesce a supplire in tal modo alle eventuali carenze dei singoli all’interno della prestazione complessiva. E’ il caso del Nik Shadow di Bo Skovhus, il cantante danese non è sul piano prettamente vocale interprete ideale per la parte, la sua è una voce essenzialmente da baritono lirico mentre il ruolo richiederebbe un bass-baritone se non un basso con buona sicurezza nel settore inoltre Skovhus non è certo un modello di ortodossia vocale ma in compenso si è di fronte ad un autentico artista pienamente calato nella visione complessiva dello spettacolo e il suo personaggio arriva pienamente al pubblico tanto nell’ipocrisia adulatoria del primo atto tanto nella sguaiata terribilità della scena del cimitero. Il fraseggio è mobilissimo, mercuriale, l’accento si piega alle ragioni espressive di ogni singola sillaba e l’attore è semplicemente eccezionale e dotato di un carisma assoluto capace di monopolizzare l’attenzione con il solo comparire in scena; il suo rabbioso scomparire fra le fiamme al termine della seconda scena del III atto è un momento che teatralmente lascia il segno.
Leonardo Capalbio è un ottimo protagonista. La voce pur non personalissima come timbro è però nel complesso molto godibile sia come timbro sia come colore; la linea di canto presenta buona omogeneità su tutta la gamma e al settore acuto sale con buone doti di squillo e proiezione. L’interprete è poi molto convinto e riesce benissimo a rendere la natura sostanzialmente fragile e insicura del personaggio incapace di cedere fino in fondo alla “carriera di libertino” perché comunque portatore di un ideale positivo incarnato dall’amore per Anne.
Suscitava curiosità ascoltare Danielle de Niese nel ruolo di Anne Trulove; la cantante australiana è specialista del repertorio barocco ed incuriosiva vederla alle prese con un personaggio che affonda le radici in quella tradizione ma la rilegge con un approccio musicale ormai in gran parte diverso. La prova nel complesso è superata in modo decisamente positivo, certo la voce è relativamente piccola e nei momenti di maggior espansione lirica si sentiva la mancanza di un corpo più ampio e sonoro; in compenso però la cantante sfoggia doti di grande musicalità, una naturale eleganza nel porgere ed un fraseggio molto curato, con una grande cura al valore espressivo della parola. La grande scena che chiude il primo atto “Quietly, night, O fim him and caress” riesce ad evocare tutto l’atmosfera notturna e malinconica richiesta ma è soprattutto nella struggente ninna-nanna finale “Gently, little boat” che la sincerità espressiva della de Niese giungere a commuovere pienamente.
Annie Vavrille è un mezzosoprano con buona proiezione in acuto mentre nel settore medio-grave la voce tende a perdere un po’ di consistenza e a risultare povera di suono ma la sua Baba è giustamente priva di eccessi caricaturali o grotteschi né interpretativi né vocali risolta nel canto e nel fraseggio senza facili scappatoie. La cantante mostra inoltre una forte presenza scenica e non trascurabili doti di attrice.  Imponente nel suo costume di sapore felliniano la Mother Goose di Barbara Di Castri e vocalmente solida e precisa nei suoi interventi vocali mentre l’imponente costume ne limitava ovviamente le possibilità di movimento compensate però dall’innegabile effetto dello stesso. Straordinario il Sellem di Colin Judson, tenore di carattere dalla buona presenza vocale e straordinario nell’altisonante prosopopea del banditore d’asta. Jakob Zethner è un Trulove ben presente vocalmente e paterno e affettuoso sul piano espressivo, non solo nel rapporto con la figlia ma anche nei rimproveri a Tom che dimostra di amare e che vorrebbe correggere nei suoi difetti.  Completavano il cast il Guardiano del manicomio di Ryan Milstead e la Voce di Lorenzo Battagion. Successo convinto per tutti gli interpreti ma – dispiace attestarlo – ampi vuoti in sala che questa produzione non meritava assolutamente e che testimoniano ancora le difficoltà di proporre al pubblico italiano titoli diversi rispetto a quelli del repertorio più conosciuto.