Yuri Temirkanov e i Pietroburghesi all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014 
Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo
Direttore Yuri Temirkanov
Violino Leticia Moreno
Pëtr Il’ič Čajkovskij: “Francesca da Rimini”, fantasia per orchestra op. 32
Felix Mendelssohn Bartholdy: Concerto in mi minore per violino e orchestra op. 64
Igor Stravinskij: “Petruška”, scene burlesche in quattro quadri (versione del 1947)
Roma, 10 giugno 2014
L’ormai quasi leggendario Yuri Temirkanov, dopo i concerti cancellati per motivi di salute, torna all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con la sua orchestra, i Filarmonici di San Pietroburgo, e la violinista spagnola Leticia Moreno, novella stella dell’archetto. Il concerto fa parte di una
tournée che sta girando l’Italia: i programmi dei singoli concerti variano leggermente, ma con un occhio vigile – com’è ovvio – al repertorio russo. Per la piattaforma romana, Temirkanov sceglie brani celeberrimi e di sicuro impatto sul pubblico: la Francesca da Rimini diČajkovskij, il Concerto in mi minore di Mendelssohn e il Petruška di Stravinsij. I complessi pietroburghesi suonano divinamente: forti di interpreti veramente validi, creano una pasta sonora mirabilmente emozionante, argilla nelle mani, a loro familiari, di Temirkanov. Densissima la lettura della caravaggesca Francesca da Rimini; Temirkanov è un čajkovskijano nell’animo: risalta, all’inizio, il suono degli archi bassi doppiati dai vari strumenti, fintantoché la massa sonora, tempestosa, non si dipana e sfocia, lasciando una cupa bonaccia in cui emerge l’elegiaco recitativo del clarinetto, il tema di Francesca, che è magistralmente sviluppato dal russo, sempre perfettamente aderente alla texture ritmica, nelle varie declinazioni degli strumenti (particolarmente efficace la magnifica estasi dell’entrata delle arpe); infine conduce abilmente tutto lo sviluppo all’impressionante serie di dissonanze che preludono alla conclusione.   Già esplodono fragorosi applausi, che Temirkanov accoglie quasi restio. Va a prendere la violinista Leticia Moreno, ragazza bellissima, molto elegante nel suo abito lungo nero (dall’audace scollatura). Talento certamente conscio dei propri mezzi, ancora alquanto acerbo, senza contare pure qualche gesto troppo teatrale: il fraseggio c’è, comunque, e anche una solida intonazione nell’uso delle corde. Molto bello l’incipit del mendelssohnniano Concerto in mi minore, un tema malinconico, ma classicamente elegante, dove la Moreno fraseggia con respiro e arte; peccato solo abbia sbaffato in un passaggio: prosegue con gusto e elegante virtuosismo (filati, trilli, gruppetti ecc.), come si evince ascoltando la cadenza di passaggio fra il I e il II movimento. Ancora un buon virtuosismo, di qualità, si ascolta nella sezione irta di glissati; per il resto, l’Andante (II) culla la melodia del violino fra una ninnananna di pizzicati degli archi appoggiati su un delicato vapore orchestrale. E da questo notturno torpore ci desta il III, con la linea melodica ludicamente saltellante, con un ritmo spumeggiante. Temirkanov accompagna, esperto, tutta la partitura, permettendo alla giovane di evidenziare le sue doti. Applausi anche per la violinista.
La seconda parte del concerto è interamente dedicata all’enigmatica, ancestrale, partitura di Petruška: si presceglie la revisione che Stravinskij ne fece nel 1947 (la première del balletto, nato dalla stretta collaborazione con Diaghilev, s’ebbe al parigino Théâtre du Châtelet nel 1911). «L’idea delle emozioni imprigionate nel corpo di una marionetta suggerì anche a Stravinskij l’uso di materiali musicali di tipo meccanico, ripetitivi, il gusto per sonorità aspre, dissonanti, percussive, facendolo approdare a un linguaggio musicale assai più moderno e antiromantico rispetto a quello dell’Uccello di fuoco, e lontano da ogni suggestione esotica e favolistica» (G. Mattietti, dal programma di sala). Temirkanov, che ha già inciso la partitura, un vero e proprio polittico cubista, dà prova di conoscerla a menadito: con una lente d’ingrandimento, ne fa gustare ogni singolo particolare. Così conduce l’orchestra ai ritmi ostinati della festa di carnevale, dopo l’apertura dei legni; fa suonare con tronfia grazia lo squarcio melodico della chanson affidata ai legni; indi la cadenza del flauto (il Ciarlatano sta incantando i burattini), poi la famosissima danza russa (i burattini prendono vita e ballano). Fa impressione come Temirkanov riesca a gestire con tale armonia le asprezze e i continui giochi ritmici: come un pittore, dipinge accompagnando le sonorità del flauto e del pianoforte, preponderanti nella scena della camera di Petruška. Ma è autenticamente trascinante, e emozionante, durante la direzione del pas de deux tra la Ballerina e il Moro: riesce a esprimere tutto l’esotico machismo inquieto del Moro (una melodia del corno inglese, del clarinetto e clarinetto basso, marzialmente ritmata) e la civetteria della Ballerina (cornetta), i cui distinti temi si sposano nel loro valzer, con angosciosa sovrapposizione di un tema ternario su uno binario – una delle situazioni più difficili da gestire per un direttore d’orchestra (si pensi alla scena della festa del Don Giovanni di Mozart, alla fine del I atto, in cui si sovrappongono, con diversi ritmi, le danze intonate dalle orchestrine sul palco e l’orchestra). E termina con la miniaturistica espressione del diverso ethos delle danze, cambiando poi subito rotta nella cupa scena dell’uccisione del fantoccio e dell’apparizione del suo fantasma.  Grandi applausi accompagnano fuori il direttore, che può vantarsi certamente di avere un posto stabile nel parnaso delle migliori bacchette oggi in vita.