“La vedova allegra” chiude la stagione del Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’Opera e Balletto 2013-2014
“LA VEDOVA ALLEGRA”
Operetta in tre atti su libretto di Viktor Léon e Leo Stein
dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac
Traduzione ritmica italiana di Ferdinando Fontana
Revisione del libretto a cura di Hugo de Ana. Revisione delle liriche a cura di Marco Melloni
Musica di Franz Lehár
Hanna Glawari, ricca vedova SVETLA VASSILEVA
Il barone Mirko Zeta, ambasciatore pontevedrino a Parigi NICOLÒ CERIANI
Valencienne, sua moglie DANIELA MAZZUCCATO
Il conte Danilo Danilowitsch, segretario dell’ambasciata pontevedrina ALESSANDRO SAFINA
Camille de Rossillon IVAN MAGRÌ
Il visconte Cascada DARIO GIORGELÈ
Raoul de St-Brioche MAX RENE COSOTTI
Bogdanowitsch PAOLO MARIA ORECCHIA
Kromow DONATO DI GIOIA
Pritschitsch, colonnello Pontevedrino STEFANO CONSOLINI
Sylviane MARTA CALCATERRA
Olga FRANCESCA ROTONDO
Praskowia FRANCESCA FRANCI
Njegus, impiegato di cancelleria dell’ambasciata pontevedrina ANTONELLO COSTA
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Christoph Campestrini
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Coreografia Leda Lojodice
Luci Andrea Anfossi
Allestimento Li. Ve. Lirica Veneto
Torino, 1 luglio 2014

È un clima già balneare quello in cui si muove e si svolge artisticamente La vedova allegra a chiusura della stagione del Teatro Regio di Torino: balneare e leggermente passatista, perché lo scintillio che accompagna l’ambientazione parigina ha molto dello stile degli anni Ottanta, nei costumi che rivisitano la belle époque, nelle coreografie compassate, nel modo di recitare sfrontato (e sempre troppo gridato) degli interpreti, perfino nella regia e nella scenografia, che pure vorrebbero essere innovative (risalendo soltanto al 2009). Ed è forse comprensibile che in tempi di crisi, in tempi molto difficili per l’arte e per lo spettacolo in generale, si cerchi inconsapevolmente rifugio un po’ nostalgico in anni in cui si stava assai meglio. L’operetta è di per sé una forma di nostalgia; rappresentata come andava di moda qualche decennio fa, La vedova allegra torinese è quindi la nostalgia di una nostalgia, a cominciare dall’allure della protagonista, Svetla Vassileva nelle vesti di Hanna Glawari: vesti, e acconciatura, e perfino stile di recitazione che guardano all’icona (a onor del vero oggi un po’ démodé) di Marilyn Monroe. L’allestimento di Hugo de Ana vorrebbe ricreare quelle opposizioni di grandezza e comicità tipiche di un film dei Fratelli Marx (in particolare, per l’ambientazione nel mondo della diplomazia, La guerra lampo dei fratelli Marx, ossia Duck Soup, del 1933; non a caso tre dei personaggi dell’operetta sono vestiti e truccati come Groucho, Chico e Harpo); il risultato è però una fisionomia da avanspettacolo, o peggio ancora da commediola cinematografica degli anni Trenta-Quaranta, con la grafica dei titoli in videoproiezione, il bianco e nero leggermente seppiato, il compiacimento dei frac e degli sparati (ancora un po’ e si vedrebbero i telefoni bianchi sul palco). Il blocco scenico, peraltro, è formato da strutture vitree e mobili a parallelepipedo, le cui rotazioni moltiplicano i riflessi e il gioco degli specchi, anche se l’effetto complessivo è quello di ingombro, di esagerazione di vetrine, luci e lampadari, di volumi troppo accentuati alla ricerca di una grandeur che comunque non si realizza. Anche a causa di scelte logisticamente sbagliate: nel corso dell’introduzione – per esempio – ha luogo una coreografia, resa però invisibile dalle videoproiezioni dei titoli e dei nomi degli interpreti. Ma quel che è peggio è la rivisitazione del libretto, divenuto un pastiche linguistico di gusto insopportabile. Dato che il buon esito di un’operetta è affidato anche alla qualità della recitazione e del testo recitato, sarà opportuno essere precisi: il testo tedesco di Léon e Stein fu ritmicamente tradotto in italiano da Ferdinando Fontana (il librettista pucciniano di Edgar e Le villi); la sua versione ritmica, non priva di goffaggini e forzature, è stata rivisitata da de Ana (ma probabilmente anche da qualche interprete dello spettacolo), con l’aggiunta di battute di argomento politico, di riferimenti all’attualità, di doppi sensi osceni o volgarotti, di gags banalissime, e soprattutto di interventi vernacolari che distruggono ogni pretesa di buon gusto e di raffinatezza. Per nulla necessarie, poi, le interpolazioni musicali da Bizet o da Offenbach inserite nella partitura di Lehár. A far le spese di tutte queste decisioni è, purtroppo, anche la resa musicale.
Christoph Campestrini dirige l’orchestra del Teatro Regio con sufficiente brillantezza, anche se in modo un po’ troppo “leggero”; i numerosi wagnerismi presenti nell’introduzione, per esempio, non emergono con il giusto rilievo. E la concertazione è sovente difettosa, specialmente negli attacchi dei cantanti nei numeri d’insieme.
Sulle tavole del Regio si avvicendano glorie dell’operetta italiana (e non solo dell’operetta), come Daniela Mazzuccato e Max René Cosotti, e artisti molto assidui nelle produzioni del Regio, come Svetla Vassileva, ottima interprete čajkowskiana e pucciniana. Ma tutti tendono al grido, al canto di forza, all’emissione muscolare; perché sentire l’esigenza di forzare a tal punto la voce, con inevitabili conseguenze negative? La Vassileva è credibile come personaggio, forse incline a qualche bamboleggiamento di troppo, ma non lo è come cantante: sottopone la propria voce a uno sforzo tale da rendere oscillante l’emissione. La stanchezza non tarda a manifestarsi, dunque, se già la romanza iniziale del II atto si apre con una filatura opaca, per proseguire con messe di voce malferme e stridule. Alessandro Safina, nel ruolo del conte Danilo, ha voce un po’ troppo leggera per il registro baritonale, e dunque non riesce a sostenere adeguatamente né le note basse né gli acuti («Tace il labbro», nel III atto, è l’unica pagina di vero impegno da parte sua, cui seguono applausi unanimi, ma non del tutto convinti). Daniela Mazzuccato, nel ruolo di Valencienne, è non solo colei che recita meglio di tutti, ma anche la più corretta a impostare la voce (che pure accusa qualche segno di cedimento). Ivan Magrì è il tenore che interpreta Camille de Rossillon, con voce generosa e piglio autenticamente “tenorile”, anche se non sempre educato e forbito sul piano dello stile: il duetto con Valencienne nel II atto è probabilmente il momento più riuscito della serata, grazie allo slancio che Magrì imprime alla sua parte. Tutti gli altri recitano cantando (anziché cantare recitando) con stile conforme a quello generale dell’esecuzione. Buono, come sempre, il coro del Teatro Regio istruito da Claudio Fenoglio.
De Ana è il responsabile di regia, scene e costumi; è suggestivo il fondo nero o bluastro in cui lo spazio del palcoscenico resta indistinto, lasciando appena scorgere bassorilievi bronzei con stilizzazioni Liberty; ma quando variano le luci e la disposizione dei volumi, i blocchi vitrei ricordano più le piranesiane e inquietanti Carceri d’invenzione che non gli spazi di un’allegra vicenda. Con il II e il III atto, ingentiliti da cascate di lillà e da piccole lanterne cubiche poste a terra, la scena migliora un poco. L’ultimo atto è poi il più ricco di colori e di numeri coreografici. Figuranti e ballerini sono molto bravi ma, come si è detto, le coreografie di Leda Lojodice dovrebbero essere aggiornate (e possibilmente con un tocco di glamour in più).
Il pubblico del Regio mostra, per lo più, di gradire lo spettacolo, con applausi abbastanza numerosi dopo i vari numeri, e a conclusione dei primi due atti; ma naturalmente le acclamazioni più prolungate giungono alla fine, e per tutti gli interpreti. Sia detto come umilissimo monito, o se si preferisce come semplice auspicio: terminare una stagione ricca di titoli e di belle produzioni con la ripresa di un’operetta può essere operazione plausibile e premiante per il teatro. Ma se l’accostamento stilistico riesce così antiquato, o decisamente “vecchio”, è da sperare che per il Regio essa non diventi una consuetudine.