Sessantesimo Festival Puccini, Gran Teatro Puccini, Torre del Lago
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San MICAELA CAROSI
Suzuki RENATA LAMANDA
F.B. Pinkerton RAME LAHAJ
Sharpless GIOVANNI MEONI
Goro LUCA CASALIN
Il Principe Yamadori ANGELO NARDINOCCHI
Lo Zio Bonzo PAOLO BATTAGLIA
Il Commissario imperiale PEDRO CARRILLO
L’ufficiale del registro VELTHUR TOGNONI
Kate Pinkerton FRANCESCA ROMANA TIDDI
La Madre SANDRA MELLACE
La Zia ANNA MARIA STELLA PANSINI
La Cugina FEDERICA GRUMIRO
Orchestra del Festival Puccini
Coro del Festival Puccini
Direttore Josè Miguel Perez Sierra
Maestro del coro Stefano Visconti
Regia, scene, costumi Renzo Giaccheri
Luci Valerio Alfieri
Assistente alla regia dei movimenti mimici Hal Yamanouchi
Nuovo allestimento
Torre del Lago, 25 luglio 2014
“È notte serena!”, esclama Pinkerton nel duetto d’amore di Madama Butterfly, ma la placidità della notte, nonché le tante stelle contemplate dalla neo-sposa, sono rimaste confinate in palcoscenico, poiché nella vita reale Giove pluvio ha cominciato a farsi sentire pochi minuti prima dell’inizio dell’opera, dando inizio a un’ora di febbricitante attesa, in cui gli altoparlanti periodicamente rassicuravano il pubblico che il maltempo era soltanto passeggero. E così fortunatamente è stato. Era un’occasione troppo importante da annullare a causa di pochi schizzi. Si trattava in fondo dell’inaugurazione del 60esimo Festival Pucciniano, celebrato con ben quattro nuovi allestimenti e la prescelta a tale onore era appunto Madama Butterfly per commemorare i 110 anni dalla prima.
Dopo i vari riti onorifici di prammatica (inno nazionale, i saluti del Presidente della Repubblica, presentazione di targhe alle autorità locali) l’opera è iniziata in maniera da subito in sordina; già dalle prime battute, la celebre fuga dell’ouverture, si è capito che il direttore d’orchestra, il giovane José Miguel Perez Sierra, avrebbe diretto con mano eufemisticamente placida, e infatti così è stato per tutta la recita, tra cui ha girovagato, quasi bighellonato senza trasporto: non ci spingeremo a dire senza interesse, ma tale è stato il risultato. Un esempio a caso: le due scale ascendenti degli archi in orchestra mentre Suzuki controlla quanto sia rimasto in borsa, che dovrebbero risuonare come sferzate laceranti sulla carne e sull’anima della protagonista, qui risultavano poco più che ammutite carezze; o il secco e brutale accordo dopo la frase del console “s’ei non dovesse ritornar più mai?”, vero e proprio punto di svolta dell’opera, che dovrebbe stordire la protagonista e far sobbalzare il pubblico, nella direzione di Perez Serra era soltanto un tonfo sordo che non aveva certo l’effetto di destabilizzazione inteso dal compositore. In poche parole, la partenza in tutta fretta di Daniel Oren, il direttore originariamente previsto che nelle stagioni scorse aveva diretto una Bohème da manuale e una Turandot di tutto rispetto, si è fatta sentire enormemente.
Il cast si distingueva per l’oculata scelta delle parti secondarie fra cui vale la pena di rammentare l’appropriatamente tonitruante il Bonzo di Paolo Battaglia, e l’apprezzabile Renata Lamanda, ormai espertissima Suzuki. Giovanni Meoni (Sharpless), frequentatore abituale di ben altri ruoli baritonali, ha una voce chiara ma impostatissima, dall’emissione facile e liquida, ricca di armonici in acuto; ed infatti lui era l’unico, insieme al Goro squillante e perfettamente immascherato di Luca Casalin, a non aver problemi a sconfiggere l’acustica ingrata (e resa ancor più sorda dalle scelte registiche soprattutto nel primo atto) del Gran Teatro Giacomo Puccini. Problemi di proiezione vocali invece affliggevano la prestazione di Rame Lahaj, tenore kosovaro che molto probabilmente, dato che l’impostazione tecnica pareva esser tutto sommato corretta e dall’acuto facile (bello il do acuto nel duetto del primo atto), avrebbe potuto farsi meglio valere in questo ruolo in un teatro molto più piccolo. Lo spessore vocale infatti non era tale da uscire vittorioso dalla lotta con la densità dell’orchestrazione pucciniana, persino con un direttore che teneva il volume invariabilmente basso. Madama Butterfly è alla fin fine una di quelle opere che poggiano quasi esclusivamente sulle spalle della protagonista, che in questo, spiace dirlo, erano spalle piuttosto fragili. Micaela Carosi ha costantemente esibito un registro centrale intubato ed acuti perlopiù oscillanti: dopo un decennio speso ad affrontare le eroine più drammatiche del repertorio italiano (Abigaille, Tosca, tutte e tre le Leonore verdiane, Amelia per citarne solo alcune) non è impresa semplice quella di dar vita a un personaggio che ha indubbiamente molte pagine di intensità quasi ineguagliata, ma che deve plausibilmente presentare la crescita interiore dolorosa di una bambina che si ritrova repentinamente adulta nelle circostanze più angoscianti. Se si entra in scena già con un timbro matronale, diventa pressoché impossibile esprimere questa evoluzione, questa maturazione forzata.
Renzo Giaccheri, uno dei registi più presenti negli annali del Festival Puccini, ritorna con un allestimento semplice, rarefatto ma di enorme efficacia; qua e là si mostra intento alla ricerca del gesto di facile effetto, come ad esempio il piccolo colpo di scena quando Butterfly intona “Trionfa il mio amor, la mia fè trionfa in terra, Ei torna e m’ama!” allorché i pannelli fungenti da fondale che prima rappresentavano un desolato paesaggio invernale improvvisamente vengono girati a rivelare un giardino in piena primavera, il tutto mentre Butterfly e Suzuki si tolgono il mantello nero per sfoggiare una veste rosa abbagliante, effetto reso ancor più soggiogante dalle luci veramente magistrali di Valerio Alfieri. A parte pochissimi momenti come questo (che altro non fa che secondare la musica francamente manipolativa di Puccini in questo punto particolare), la regia di Giaccheri (destinata indubbiamente a numerose riprese nelle stagioni future) si distingueva per l’attenzione rivolta alla recitazione dei cantanti, in questo coadiuvato da Hal Yamanouchi, che ha impresso all’azione movimenti e posture autenticamente giapponesi. Unica pecca imperdonabile e francamente incomprensibile considerata la profonda familiarità del regista con gli spazi del Gran Teatro, è quella di lasciarne completamente scoperto il fondale nel primo atto, con gravissime conseguenze sull’acustica. Probabilmente un palcoscenico aperto non avrebbe permesso l’effetto magico di una gigantesca luna che sale dal basso, dal lago, a far da sfondo all’altrettanto magico duetto d’amore.