Antonio Caldara (1670-1736):”In dolce amore”

“Pensieri di amante” (“Scipione nelle Spagne”, 1722), Cantata:”Begl’occhi adorati” (1715), “In dolce amore” (“Scipione l’Africano,1735), “Numi, se giusti siete” (“Adriano in Siria”, 1732), Cantata:”Rotte l’aspre catene” (1715), “Se tutti i mali miei” (“Demofoonte”, 1733), “Figlia a Roma” (“Scipione l’Africano, 1735), “Chi mai d’iniqua stella” (“Temistocle”,1736), “Cantata:”Credea Niso (1712), “Una donna” ( “I disingannati”, 1729). Robin Johannsen (soprano) Academia Montis RegalisAlessandro De Marchi (direttore). Registrazione: Mondovì (CN), Sala Ghisleri, ottobre 2013. T.Time: 72.54 – 11 CD Sony Music- Deutsche Harmonia Mundi 8884011692 / 2014

Protagonista di questo interessante CD del giovane e promettente soprano statunitense Robin Johannsen è Antonio Caldara, figura di primario interesse nella musica italiana dei primi decenni del XVIII secolo e ancora pochissimo esplorato soprattutto per quanto riguarda le composizioni profane. Nato a Venezia nel 1670 e morto a Vienna nel 1736 dove si era definitivamente trasferito come compositore di corte dell’Imperatore Carlo VI, Caldara si era formato nel particolare contesto della cultura veneziana del tardo Seicento, ancora legata alla lezione portata in laguna da Monteverdi e lì fiorita con Francesco Cavalli. Coetaneo di Bononcini e forse allievo di Giovanni Legrenzi Caldara rappresenta forse l’ultimo autentico rappresentante della tradizionale opera veneziana i cui tratti risultano pienamente leggibili in tutti i brani proposti nonostante si assista ovviamente anche al tentativo di rinnovare questo linguaggio alla luce delle nuove esperienze provenienti dai centri più vitali della penisola – in primo luogo Napoli – sempre però all’interno di un universo espressivo decisamente coerente con la propria formazione.   Questo gusto tradizionalista e arcaicizzante lo rendeva particolarmente gradito agli ambienti di corte che per le loro esigenze rappresentative amavano richiamarsi a questo gusto nobilitato dalla tradizione. Caldara dopo un soggiorno mantovano iniziato nel 1699 presso Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers si trasferì a partire dal 1708 in Spagna lavorando per il sovrano Carlo III; rientrato in Italia è a Roma dal 1709 dove sostituisce Händel come Maestro di Cappella del Principe Francesco Maria Ruspoli – e in questo periodo viene a conoscenza dei lavori romani del “caro sassone” di cui si ritroveranno tracce nella sua produzione più matura – e infine dal 1716 il definitivo trasferimento a Vienna. Questa formazione ricca e cosmopolita ha sicuramente lasciato più di una traccia sull’arte di Caldara ma quello che colpisce nel compositore è la capacità di integrare le più diverse all’interno del proprio specifico linguaggio. Non manca quindi di interesse questa proposta discografica che ha il pregio di offrire all’ascolto una serie di brani sostanzialmente inediti e mai incisi prima di quest’occasione.
Alla guida della sua Academia Montis Regalis – una delle punte di diamante per l’esecuzione della musica barocca in Italia – Alessandro De Marchi fornisce una lettura estremamente puntuale sul piano filologico ma anche caratterizzata da una ricchezza e pulizia di suono sicuramente rimarchevoli e che contribuiscono ad evidenziare uno dei tratti migliori della scrittura di Caldara, l’uso sapiente delle componenti strumentali, la ricchezza e l’originalità degli accompagnamenti.
Ormai collaboratrice abituale di De Marchi – con cui fra l’altro ha affrontato in questa stagione il ruolo protagonista dell’”Almira” di Händel ad Hannover – Robin Johannsen è un interessante prodotto di quella scuola americana che non manca mai di talenti per il repertorio settecentesco e belcantista. Voce piacevole e molto musicale,  estremamente ferrata sul piano tecnico e stilistico con grande facilità nel canto di coloratura e acuti sicuri e squillanti cui unisce un’ottima pronuncia italiana e valide doti interpretative.   Da “Scipione nelle Spagne del 1722 su testo di Apostolo Zeno proviene l’aria posta in apertura del CD “Pensieri d’amante” si caratterizza dell’uso dall’uso dell’oboe obbligato; il gusto è leggero, galante, leggermente ironico e risente ancora pienamente della tradizione veneziana del secolo precedente – si pensi proprio a certe arie di Legrenzi – elementi che ritroveremo con frequenza nelle cantate. La coloratura è significativa e la Johannsen la dipana con sicurezza e pulizia.
Due arie sono tratte  dal “Scipione Africano” del 1735 su testo di Giovanni Claudio Pasquini. Si tratta di “In dolce amore” brano che da il titolo alla raccolta di carattere lirico e dolente caratterizzato da una bella linea armonica ripresa e variata con gusto e musicalità dalla Johannsen nel da capo e “Figlia o Roma” dall’andamento più mosso e variato seppure all’interno di un ambito espressivo prevalentemente lirico in cui si apprezzano la buona dizione della cantante e la sua convincente scansione declamatoria mentre nell’orchestrazione si nota una particolare ricchezza con l’uso del cembalo chiamato a dialogare con gli altri strumenti e non limitato alle funzioni di continuo.
Le altre due arie da opere serie “Se tutti i mali miei” da “Demofoonte” del 1733 e “Chi mai d’iniqua stella” da “Temistocle” del 1736 mostrano qualche suggestione di gusto vagamente händeliano forse conseguenza delle influenze avuto nel soggiorno romano. Sul piano espressivo si tratta sempre di brani di natura prettamente lirica e dolente in cui anche la coloratura si piegano all’atmosfera generale del brano. La Johannsen le canta con proprietà – da segnalare l’ottimo controllo del fiato in alcuni non facili passeggi dell’aria del “Temistocle” – ma sarebbe stata auspicabile la presenza di qualche brano di carattere più eroico o virtuosistico per dare maggior varietà agli ascolti proposti. Da questa linea si distingue “Una donna” da “I disingannati” del 1729 commedia per musica su testo di Pasquini ispirata a “Le misantrope” di Moliere, autentica di delizia di garbata ironia tutta in punta di forchetta in cui il canto si lega strettamente al testo esaltandone la componente quasi recitante secondo un gusto di derivazione ancora tutta secentesca.
Il programma è completato da tre brevi cantate per soprano solo. La scrittura orchestrale non si discosta in modo radicale da quelle dei brani operistici anche se l’organico si fa più trasparente e ridotto negli elementi previsti – verosimilmente variabili a secondo le disponibilità del caso – mentre il tono è più leggero e galante, non privo di garbata ironia. Lo schema compositivo è sostanzialmente il medesimo nei tre casi e consta di una breve sinfonia – in cui si riconoscono se non tre autentici movimenti almeno tre sezioni espressive; un recitativo d’apertura e due arie separate fra loro da un ulteriore recitativo. Le prime due cantate “Begl’occhi adorati” del 1715 e “Rotte l’aspre catene rientrano pienamente nel detto alveo espressivo, la seconda caratterizzandosi per una maggior ricchezza orchestrale – si vedano gli interventi del cembalo nella sinfonia – e per i veloci passaggi di coloratura della seconda aria mentreCredea Niso” del 1712 ha un taglio più prossimo a quello dell’opera seria con recitativi maggiormente scolpiti e una prima aria dal tono più serio e austero rispetto ai precedenti esempi mentre nella seconda pur tornando in un alveo più sentimentale si apprezza l’andamento della linea melodica che rende palpabile il senso d’attesa e di desiderio presente nel testo.