Christoph Willibald Gluck (1714-1787): “La clemenza di Tito” (1752)

Rainer Trost (Tito Vespasiano);  Laura Aikin (Vitellia); Raffaella Milanesi (Sesto); Arantza Ezenarro (Servilia); Valer Sabadus (Annio); Flavio Ferri-Benedetti (Publio).L’Arte del Mondo; Werner Ehrhardt (direttore). Registrazione: Erholungshaus, Kulturhaus der Bayer AG, Leverkusen, ottobre-novembre 2013. 3 CD DHM Deutsche Harmonia Mundi– Sony, 2014
La scrittura orchestrale di Gluck è particolarmente ricca e variata, con un uso molto sapiente di tutte le possibilità timbriche raggiungibili con un’orchestra del tempo seppur all’interno di uno schema compositivo di stampo tradizionale che affida alla sola orchestra solo l’ouverture in tre movimenti secondo il gusto italiano e variando gli effetti strumentali soprattutto nella funzione dell’accompagnamento ai cantanti con frequente ricorso a strumenti obbligati – l’oboe nella grande aria di Vitellia che chiude il primo atto – oppure associati secondo moduli per l’epoca decisamente originali su cui si tornerà in seguito. L’esecuzione è affidata al complesso “L’arte del Mondo” compagine tedesca specializzata in questo repertorio sotto la guida del fondatore e direttore stabile Werner Ehrhart. Si tratta di una lettura che evidenzia al meglio la ricchezza della scrittura gluckiana, il rigore filologico evita eccessivi appesantimenti e mette in evidenza le contrapposizioni agogiche e timbriche difficilmente rendibili con tanto nitore da parte di un’orchestra tradizionale, a volte certe sonorità suonano insolite e non necessariamente piacevoli ad un orecchio moderno abituato a principi di intonazione molto più rigidi di quelli del tempo – si vedano soprattutto i legni nell’aria di Servilia “ Almen, se non poss’io” – ma al contempo non si possono non apprezzare la vitalità e il senso del teatro che quest’edizione riesce a trasmettere.
La struttura drammaturgica e l’uso delle voci è assolutamente tradizionale, l’opera si compone di una continua serie di arie alternate a recitativi per lo più secchi – rari ma drammaturgicamente centrali e musicalmente di altissima fattura quelli accompagnati; l’uso del coro è estremamente parco mentre mancano pezzi d’assieme. Il libretto di Metastasio è seguito in modo puntuale e senza stravolgimenti salvo qualche riduzione nei passaggi di recitativo e l’esclusione di alcune arie di Servilia e Publio sopravvenuta in corso di lavorazione. La musica è in gran parte di nuova composizione anche se si ritrovano alcuni riusi dal precedente “Ezio” – le arie di entrata di Annio e Publio e alcuni passaggi della sinfonia – mentre l’ultima aria di Vitellia “Getta il nocchier talora” è una sorta di manifesto del riuso operistico settecentesco, nata per la “Sofonisba” del 1744 e passata per “Le nozze d’Ercole e d’Ebe” nel 1747 ritornerà ancora successivamente nel “Telemaco” del 1765 per trovare definitiva collocazione nell’”Armide” del 1777.
Nel ruolo del titolo si ha la fortuna di ascoltare un tenore semplicemente ideale per la parte come Rainer Trost. Voce molto bella, agile ma al contempo corposa e ricca di suono, dall’accento nobile e autorevole e dall’assoluta dimestichezza con la lingua italiana e le sue specificità prosodiche tratteggia al meglio la parte del nobile imperatore. Meno virtuosistica rispetto a Sesto e Vitellia la parte di Tito non manca però di momenti in cui al cantante è richiesta sicurezza e facilità nel canto di coloratura – “Tu infedel non hai difese”  (Atto II, scena 11) – anche se sempre tendono a prevalere le ragioni di un accento nobile e stilizzato, trasposizione vocale della nobiltà del personaggio e che si apprezza pienamente nella lettura che Trost fornisce della bellissima “Ah, se fosse intorno al trono” (Atto I, scena 9) dal raffinatissimo accompagnamento orchestrale e dalla perfetta fusione di tutte le componenti secondo la teoria metastasiana degli affetti. Momento centrale della parte e però il grande recitativo del III atto con la decisione di graziare tutti gli accusati. Si tratta di una delle pagine più alte dell’opera in cui tutte le possibilità espressive del recitativo accompagnato settecentesco sono pienamente sfruttate a fini drammaturgici in modo da far trionfare la virtù imperiale. Questo è uno dei pochi momenti di quest’opera in cui appaino più evidenti i sentori del Gluck che verrà, quello dell’opera riformata e insuperato maestro del declamato e della sua inesausta forza teatrale.
Scritta per un personaggio mitico della vocalità settecentesca come Caffariello – tanto popolare da essere citato da Rossini nel suo “Il barbiere di Siviglia” – la parte di Sesto si sviluppa su decisamente in chiave di soprano con spiccate connotazioni drammatiche e chiamata a muoversi su una tessitura di eccezionale ampiezza. Giusta quindi la scelta di affidare il ruolo ad una cantante come Raffaella Milanesi che è di natura soprano pur se dotata di un medium molto corposo e dotato di una presenza vocale difficile da raggiungere per un controtenore caratteristiche unite ad una naturale predisposizione per il canto di coloratura e a notevoli doti interpretative soprattutto nei passaggi più lirici e sofferti. Il personaggio entra subito con un brano che è un autentico cimento di bravura come “Opprimete i contumaci” (Atto I, scena 4) con la voce chiamata a rapidi passaggi di coloratura spesso su tessiture decisamente acute tanto che un autentico soprano come la Milanesi è costretta a tratti a forzare; caratteristiche che ritorneranno all’inizio del II atto in un altro pezzo di bravura come “Fra stupido e pensoso” (Atto II, scena 7) va però notato come in Gluck il virtuosismo – anche nei suoi passaggi estremi – non è mai mero esibizionismo vocale concesso ai cantanti ma strumento accuratamente ponderato nelle sue ragioni espressive. In questo senso si compone anche il gioco delle alternanze per cui ad un brano virtuosistico come la citata “Opprimete i contumaci” segue un’aria dal carattere decisamente più lirico e dolente come “Parto ma tu ben mio” (Atto I, scena 10) – molto più lineare rispetto all’analogo brano mozartiano – e poi nel II atto quello che è forse il brano più ispirato dell’intera opera e uno dei momenti più alti dell’arte di Gluck “Se mai senti spirarti sul volto” (Atto II, scena 13) aria accolta con trionfale successo fin dalla prima rappresentazione – e forse non è casuale che Mozart l’escluda dalla propria versione de “La clemenza di Tito” quasi a volerne evitare il confronto – e rimasta viva nella cultura napoletana fino ancora al secolo successivo. La scrittura orchestrale è fra le più singolari pensate da Gluck in quest’opera con la contrapposizione fra le sincopi dei violini primi che rappresentano il timore e l’incertezza che prendono possesso dell’anima di Sesto e che contrastano con la linea melodica principale raffermata da violini secondi e fagotti trasposizione sonora della costanza del suo amore. Questa particolarità suscitò vivace interesse dopo la prima rappresentazione, interrogato sulla correttezza di questa scrittura Francesco Durante – somma autorità musicale della Napoli del tempo – rispose che non poteva dire se fosse rigorosamente corretta o meno ma che sarebbe stato infinitamente fiero di aver potuto comporre una musica simile. Il pubblico moderno ha ben presente il tema melodico per la ripresa fattane dallo stesso Gluck nel 1778 nell’attacco di “O malheureuse Iphigénie”.
Altrettanto impervia è la parte di Vitellia anche se meno varia nei suoi registri espressivi muovendosi sempre il personaggio in una dimensione di esacerbazione espressiva in cui furore, ira e gelosia repressa sono le cifre caratterizzanti. La grande scena che chiude il primo atto si compone di un recitativo accompagnato di grande forza drammatica, fra i momenti più alti e originali del recitativo accompagnato “Che angustia è questa!” (Atto I, scena 12) anticipazione di quello che sarà il Gluck della piena maturità seguito da una lunga aria con oboe concertante “Quando sarà quel dì” caratterizzata da estrema tensione teatrale e da una vocalità ad un tempo virtuosistica e drammaticamente scandita. Il successo del brano sarà così duraturo a Napoli che sette anni dopo Hasse riprenderà lo stesso schema – chiusura di primo atto con grande aria per soprano e oboe concertante – per il suo “Achille in Sciro”. Punto culminante della vocalità di Vitellia è però “Tremo fra dubbi miei” ( Atto II, scena 15 ) autentica “scena di pazzia ante-litteram con la voce del soprano chiamata a svolgere iterati passaggi di coloratura di forma che rendono fisicamente palese lo stato di delirio in cui si trova la donna accompagnati da un organico strumentale molto ricco. Laura Aikin riesce ad arrivare in fondo alla parte con pieno merito, per chi la ricordava come soprano leggero è stato un vero piacere scoprire come la voce si sia irrobustita, senza perdere in proiezione e agilità e soprattutto come sia diventata interprete attenta ed autorevole, capace di dare al personaggio tutta la forza teatrale evocata dalla musica di Gluck.
Le parti degli innamorati Annio e Servilia sono pensate per castrato mezzosoprano e soprano, nella presente incisione la parte maschile è affidata al controtenore ungherese Valer Sabadus, cantante molto interessante con voce ampia e luminosa per la sua tipologia vocale ed ottima linea di canto mentre Servilia è il giovane soprano spagnolo Arantza Ezenarro, piacevole nella sua correttezza pur se priva di particolare personalità. Le due parti sono quasi speculari nella prevalenza di un registro caratterizzato da nobile lirismo e da un andamento della vocalità meno virtuosistico rispetto alla coppia Annio – Vitellia in cui prevale un senso di aulica metodicità, caratteristiche che emergono già nelle due arie gemelle del primo atto “Ah perdona al primo affetto” (Atto I, scena 6) e “Amo te solo” (Atto I, scena 7) – le stesse che Mozart condenserà in un unico, sublime duetto – e che si ritroverà nelle successive arie di Annio in specie “Ch’io parto reo lo vedi” (Atto II, scena 12) dal tono patetico e dal ricco accompagnamento orchestrale. Fa eccezione al riguardo l’ultima aria di Servilia “S’altro che lagrime” (Atto III, scena 10) dall’andamento ritmico instabile e caratterizzata da ripetute varianti agogiche e dinamiche. Sempre per castrato è scritta la parte di Publio anche se va riconosciuto che le sue arie risultino più funzionali allo sviluppo drammaturgico della vicenda che a quello musicale, presentando tratti di buon mestiere ma non particolari colpi d’ala. Questo aiuta almeno in parte il controtenore Flavio Ferri-Benedetti (Publio) che del cast è sicuramente il punto più debole limitandosi ad una generica correttezza nelle arie mentre nei recitativi il fraseggio appare alquanto confuso e opaco – cosa particolarmente grave per un italiano e probabilmente conseguenza di un’impostazione vocale piuttosto artificiosa.