Cronache del MITO 2014: inaugurazione a Torino con la Budapest Festival Orchestra

Torino, 4 IX 2014, Teatro Regio. Inaugurazione di MI.TO. con la Budapest Festival Orchestra diretta da Ivan Fischer

Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VIII Edizione – MITO Settembre Musica
Torino, Teatro Regio
Budapest Festival Orchestra
Direttore Iván Fischer
Baritono Roman Trekel
Johannes Brahms : Tre Danze Ungheresi WoO 1 (n. 14 in re minore; n. 7 in fa maggiore; n. 6 in re bemolle maggiore. Trascrizioni di Iván Fischer)
Franz Schubert : Sinfonia n. 8 in si minore D 759 “Incompiuta”
Gustav Mahler : da Des knaben Wunderhorn: «Wo die schönen Trompeten blasen»; «Der Tambourgesell»
Joseph Strauss : Sphärenklänge, valzer op. 235
Johan Strauss figlio : Vergnügungszug,polka op. 281
Antonin Dvořák : Leggenda op. 59 n. 10
Johan Strauss figlio : An der schönen, blauen Donau, valzer op. 314; Banditen-Galopp op. 378
Zoltán Kodály : Danze di Galánta
Torino, 4 settembre 2014

L’elemento comune della duplice inaugurazione di MI.TO. 2014 è la Budapest Festival Orchestra, diretta dal suo carismatico e schivo fondatore, Iván Fischer. Scelta felice, soprattutto se confrontata con quella dello scorso anno: nel 2013 il programma inaugurale, prima alla Scala e poi al Regio di Torino (ora si inverte l’ordine) era affidato alla Akademie für alte Musik Berlin, ed era assolutamente identico. Ora invece tutto varia, poiché il composito catalogo della serata torinese presenta un unico autore che si ascolta anche a Milano, ossia colui al quale è dedicato un filone del Festival, tra danze, opere sinfoniche e moltissima musica da camera, in risposta alla domanda Aimez-vous Brahms? Vietato rispondere negativamente, soprattutto se a dirigere Brahms (ma anche molti altri) è quel Fischer che già lo scorso anno aveva rivitalizzato un po’ l’esangue partenza di MI.TO., e proprio al Teatro Regio di Torino.
Va detto, peraltro, che l’ottimo esito del 2013 quest’anno non si è ripetuto, proprio a causa di un programma ragionato, ma eccessivamente frammentario. La serata si avvia con tre Danze Ungheresi di Brahms, grazie alle quali Fischer valorizza sin da subito gli archi, in una specie di esasperazione tzigana della musica. Al centro della prima parte è poi l’Incompiuta di Schubert: all’inizio dell’Allegro moderato i corni e i contrabbassi guidano la sonorità d’insieme, ma nel corso dello sviluppo sono sempre più gli archi a imporre il loro volume. Nell’Andante con moto si può dire che anche Schubert sia trattato come una danza ungherese: prima di lasciare spazio al tema dell’oboe e del clarinetto, gli assertivi colpi di timpano propongono un ritmo pacato, ma certamente cadenzato, su cui pesa una drammaticità indecifrabile. È molto bella la resa calligrafica del motivo degli archi prima della chiusa, nella sonorità trasparente dei violini; ma com’è anomalo questo Schubert! A tratti sognante, a tratti greve come una canzone da osteria canticchiata da una fanciulla aristocratica; e alla fine resta isolato l’enigma dell’incompiutezza.
Con un salto cronologico di quasi un secolo si agganciano a Schubert due Lieder di guerra, tratti dalla raccolta mahleriana Des knaben Wunderhorn, intonati dal baritono Roman Trekel. Dal bel timbro, anche se la voce è piccola, il cantante all’inizio dà l’impressione di voler imitare Fischer (Dieskau, non il direttore); per fortuna diventa se stesso nel canto doloroso del soldato che deve lasciare l’amata e tornare in guerra, appunto «dove squillano le belle trombe». Nel Lied del tamburino è vistosa la debolezza negli acuti della terza strofe, redenta soltanto dal finale in pianissimo.
Durante l’intervallo si ha modo di riflettere sull’originalità (o addirittura sulla bizzarria) del programma e dello stile esecutivo. E con la riflessione ci si accorge, oltre alla netta cesura tra prima e seconda parte, del doloroso senso storico e geografico che anima il concerto: protagonista è l’Austria-Ungheria, attraversata dal Danubio e dalla musica, che giunge alla prossimità della Prima Guerra Mondiale, ossia alla dissoluzione completa di tante civiltà riunite in un impero secolare; ci si accorge allora che Fischer ha interpretato addirittura l’opera incompiuta di Schubert come un repertorio di danze gioiose, attorniate però da sentori di crollo. L’Incompiuta, secondo il direttore, è un’opera d’arte contemplativa troncata a mezzo dal sopraggiungere dell’orrore, come Vienna, centro della Mitteleuropa, decapitata al termine del conflitto. Ecco perché il «Gute Nacht» conclusivo del secondo Lied di Mahler suona quasi un impressionante presagio di notte mortifera per tutta l’Europa, a partire dal suo cuore. «Labirinti sonori e apparizioni improvvise» a ricordo dell’evento secolare che ha scosso tutto il mondo, come suggerisce Enzo Restagno, direttore artistico del Festival, in apertura del programma generale.
La seconda parte del programma, tra valzer, polka e galop, si potrebbe intitolare alla “gaia apocalisse”, cioè alla definizione coniata da Hermann Broch nel saggio su Hofmannsthal a proposito della vita intellettuale della Vienna di inizio Novecento: soprattutto in musica il falso splendore dei valzer e dell’operetta è il segno di una saggezza malata, che presagisce la caduta eppure la accetta. Fischer sa certamente tutto questo, ma per fortuna non sottrae completamente alla musica degli Strauss la gioiosità, i colori, lo spirito vitale. Del resto l’inaugurazione torinese di MI.TO. non può trasformarsi nel Concerto di Capodanno; ecco perché è inframmezzata Leggenda di Dvořák (già presente nel concerto dell’anno scorso). Il direttore punta su forti contrasti agogici, affidando come sempre agli archi la resa cromatica più evidente, e alla progressiva accelerazione una riuscita finale di discreto effetto (la vecchia indicazione motus in fine velocior non tradisce mai …). Abbiamo ascoltato – per dire la verità – gli ottoni della Budapest Festival Orchestra in condizioni migliori: è abbastanza clamorosa la defaillance della prima tromba nella chiusa del Bel Danubio blu. Viceversa, è significativo che il brano meglio eseguito della serata sia quello finale: le Danze di Galánta di Kodály, risalenti al 1933, un periodo abbondantemente posteriore alla Grande Guerra, quando l’incubo sembrava ormai alle spalle. Ora l’intensità degli archi è eguagliata da quella dei fiati e dei loro colori (finalmente!). Al termine il pubblico scioglie infatti le sue poche riserve, tributando al direttore e agli strumentisti applausi vigorosi e prolungati. L’imprevedibile Fischer regala allora un bis, un brevissimo brano moravo di Dvořák per coro femminile e archi, intitolato La probabilità («… perché la ragazza magari si sposa, magari no», come spiega il direttore). Ma il coro dov’è? Tutte le componenti femminili dell’orchestra si alzano in piedi, e cantano un languido coro a due voci, di immacolata semplicità. Voci positive di speranza, dopo una sequenza cupa e contraddittoria.