Christoph Willibald Gluck: “Il trionfo di Clelia”

Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
La costruzione del Nuovo Pubblico Teatro di Bologna – il futuro Teatro Comunale – rappresentò un fatto di grande rilievo per la città che nel corso del XVIII secolo aveva sempre vissuto come placida capitale delle Legazioni pontificie in Romagna lontano dai fatti più stimolanti del proprio tempo nonostante l’ascesa al soglio di Pietro del bolognese Lorenzo Lambertini nel 1740.
Costruito su progetto di Antonio Galli da Bibbiena il nuovo teatro doveva rappresentare un’autentica gloria cittadina e non si badò a spese per fornirgli un’inaugurazione all’altezza; il conte Luigi Bevilacqua nel suo ruolo di responsabile del teatro riuscì a contattare a Vienna Gluck proponendogli una nuova opera da scrivere appositamente per l’occasione. Il compositore tedesco aveva nei decenni precedenti lavorato con frequenza in numerosi teatri italiani ma dopo il suo accasamento alla corte di Vienna una sua nuova opera in Italia rappresentava un elemento di sicuro prestigio visto che l’ultima occasione analoga risaliva all’ormai lontano 1756 con l’”Antigono” composto per il Teatro Argentina di Roma.
L’idea originaria prevedeva una nuova versione de “L’Olimpiade” il libretto più noto e amato di Metastasio banco di prova per tutti i compositori del secolo, la scelta venne poi spostata su un altro testo del cesareo poeta il più recente “Il trionfo di Clelia” andato in scena per la prima volta il 27 aprile 1762 a Vienna con musiche di Johann Adolf Hasse. L’opera venne scelta per la maggior presenza di scene spettacolari – su tutte la battaglia del ponte Sulpicio con l’abbattimento del ponte stesso in chiusura del II atto – ritenute più adatte all’occasione celebrativa inoltre non è da escludere una precisa volontà di Gluck di confrontarsi direttamente con il lavoro di Hasse che a Vienna era stato trionfalmente accolto. Bisogna per altro considerare che pur motivata la scelta non fu felicissima da molti punti di vista in quanto il libretto de “Il trionfo di Clelia” non è certo fra i massimi del Metastasio e non possiede né l’efficacia né la facilità poetica de “L’Olimpiade”.
Il testo di Metastasio venne musicato nella quasi integralità, le arie sono tutte presenti e si riscontrano limitati tagli nei recitativi (circa 125 versi su 990). L’opera terminata all’inizio della primavera del 1763 andò in scena per la prima volta il 14 maggio dello stesso anno. Gluck poteva contare per l’occasione su una serie di cantanti di sua fiducia che avevano già lavorato frequentemente con lui – Giuseppe Tibaldi (Porsenna), Giovanni Manzoli (Orazio), Antonia Maria Girelli-Aguillar (Clelia) – inoltre la grande dimensione dell’orchestra bolognese – ben cinquantotto elementi numero molto elevato per la prassi settecentesca – lo spinse ad insistere molto sulla ricchezza della parte orchestrale scelta che verrà solo in parte ripagata dall’orchestra stessa la cui qualità si rivelò alla prova dei fatti minore del previsto ed inferiore a quella delle orchestre viennesi cui Gluck era abituato.
La prima fu un evento mondano di notevole eco attirando pubblico da una vasta area dell’Italia centrale comprese alcune personalità di rilievo come il Duca di Modena Francesco III d’Este. L’opera non si rivelò però il trionfo sperato ed anzi divise notevolmente il pubblico suscitando reazioni contrastanti. Se alcuni limiti di esecuzione possono aver giocato un ruolo al riguardo – e lo stesso Gluck esprime nelle lettere di quel momento le sue perplessità sui complessi del teatro bolognese – fu l’opera stessa a suscitare divisioni che stando alle cronache dell’epoca acquisirono anche un carattere sociale con l’aristocrazia – soprattutto quella più aperta e vicina alla cultura illuminista europea – schierata a favore di Gluck mentre il clero e il terzo stato dai gusti più conservatori rimasti maggiormente perplessi.
Le reazioni rispondevano per molti aspetti alla natura stessa dell’opera che appare come un momento di transizione e sperimentazione nell’esperienza artistica del compositore tedesco. Concepita subito dopo “Orfeo ed Euridice” essa risente inevitabilmente di quell’esperienza e dei fermenti che stanno portando alla grande riforma che si compirà negli anni seguenti ma al contempo la struttura drammaturgica del libretto e l’occasione della committenza la tengono ancora ancorata alle forme dell’opera seria tradizionale. Questo dualismo è presente in tutta l’opera tanto nel suo complesso quanto all’interno dei singoli brani a conferma del ruolo di trapasso svolto da quest’opera nel catalogo glukiano.
La scrittura orchestrale è – come già accennato – particolarmente ricca e complessa; l’organico regolare è rinforzato da una significativa presenza di ottoni e percussioni che danno all’opera la sua caratteristica tinta “trionfale” già evidenziabile nei primi accordi dell’ouverture e che trova il suo punto più alto nella battaglia con la sua forza sonora e il suo insolito andamento ritmico.
Se la struttura del libretto impone ancora una netta separazione fra arie e recitativi Gluck tenta di smorzarne i contrasti, in ben sei momenti del’opera – tutti caratterizzati da centrale importanza drammaturgica od emotiva – il recitativo cede infatti il passo ad un declamato estremamente vario nei suoi sviluppi e sempre caratterizzato da una diretta forza espressiva. Momenti come la già citata scena della battaglia (atto II, scena X) o il dramma interiore di Orazio di fronte alle proposte di Tarquinio (atto I, scena X) vanno già oltre “Orfeo ed Euridice” e anticipano moduli che saranno della piena maturità gluckiana come l’ancor più la straordinaria scena di Clelia in apertura del terzo atto dove ad uno schema canonico con recitativo ed aria segue una ripresa del recitativo – con la lettura della lettera di Tarquinio – che poi prosiegue in una lunga struttura libera in cui recitativo, declamato e arioso si integrano e si susseguono in modo libero piegati solo alle esigenze drammatiche ed emotive del momento.
Le necessità celebrative e la stessa struttura dei testi impone alle arie solistiche – sono presenti solo due pezzi d’assieme, il duetto “Sì, ti fido al tuo gran core” (atto II, scena III) e il coro finale – presentano ampie proporzioni, una scrittura molto ricca e spesso un taglio virtuosistico con complessi passaggi di coloratura ma allo stesso tempo questi stessi elementi sono modificati alla luce di una nuova e più intensa verità espressiva e semplicità di espressione e si ritrovano linee melodiche – come nell’aria di Larissa “Ah! ritorna, età dell’oro” (atto III, scena) ma è solo un esempio fra i diversi possibili – molto prossime come gusto e impostazione al precedente “Orfeo ed Euridice”. Ma anche in momenti più canonici e di effetto spettacolare come l’aria marziale di Orazio “De’ folgori di Giove” (atto III, scena VIII) o la tradizionale aria di tempesta come quella di Clelia “Tempeste il mar minaccia” (atto I, scena VII) mostrano un’attenzione nuova al rapporto testo-musica e in chiave più generale alle ragioni espressive.
La freddezza con cui l’opera venne accolta alla prima è in gran parte da ascrivere a questa ambiguità, a questo essere in qualche modo a metà del guado ma questi elementi sono quelli che colpiscono maggiormente l’ascoltatore moderno perfettamente capace di leggere il ruolo di snodo fondamentale rappresentato da “Il trionfo di Clelia” nell’evoluzione del teatro gluckiano e lo conferma la stessa fiducia del compositore per molti momenti dell’opera destinati ad essere ripresi con frequenza negli anni successivi palesando ancor più la natura di laboratorio sperimentale che quest’opera avrà nello stesso sviluppo dell’idea gluckiana.
TramaAtto I
Un palazzo sule rive del Tevere occupato dagli etruschi e trasformato in quartier generale di Porsenna. Gli etruschi stanno assediando Roma, la patrizia Clelia è stato offerta come ostaggio fino al termine delle trattative ancora in corso per evitare la guerra. Tarquinio discendente del superbo si è infatuato di Clelia e cerca di conquistarla nonostante sia già stato promesso a Larissa, figlia di Porsenna. Il giovane cerca in ogni modo di far breccia nel cuore di Clelia – che considera anche uno strumento per agevolare la sua ascesa al trono di Roma – (scena II, “Sì, tacerò, se vuoi”) ma la giovane lo rifiuta sprezzantemente.  Uscito Tarquinio Clelia e raggiunta da Larissa, la principessa etrusca promessa a Tarquinio ma innamorata del principe veiente Mannio e annuncia alla prigioniera l’arrivo come ambasciatori romani dello stesso Mannio e di Orazio fidanzato di Clelia (scena III, “Ah, celar la bella face”). Orazio e Clelia si reincontrano, la giovane chiede di essere fatta fuggire ma Orazio le ricorda il suo ruolo di garante della fede pubblica e la consiglia di pazientare per non compromettere ancor più le sorti della patria (scena V, “Resta, o cara; e per timore”) mentre Clelia cerca in se la forza per resistere alla situazione (scena VII “Grazie, o dèi protettori; è vostro dono…Tempeste il mar minaccia”).
Una loggia da cui si vede l’accampamento etrusco sul Gianicolo. Porsenna riceve Orazio cercando di convincere il giovane romano ad accettare una tregua onorevole e l’amicizia con gli etruschi (scena VIII, “Sai che piegar si vede”) ma Orazio rifiuta sprezzantemente, i romani mai rinunceranno alla loro libertà e se verranno sconfitti Porsenna potrà solo vantarsi di dominare su morti e rovine. Uscito il re etrusco Orazio viene raggiunto da Tarquinio che confessa il suo amore per Clelia e offre al romano la salvezza della città in cambio delle sue nozze con la prigioniera pensando in realtà di approfittare dell’incertezza dei romani per un attacco a sorpresa. Orazio resta sconvolto e incredulo per la proposta, combattuto fra l’amore per la patria e quello per la fanciulla, quando ritrova Clelia non trova il coraggio di parlarle ma la congedo con un addio colmo di malinconia (scena X, “Saper ti basti, o cara”) che lascia la ragazza confusa e incerta sul futuro (scena XII, “Mille dubbi mi destano in petto”).
Atto II
Una galleria del palazzo. Orazio è in preda ai dubbi e le incertezze, combattuto fra l’amore e il dovere verso la patria (scena II, “Dèi di Roma, ah, perdonate”) quando viene raggiunto da Clelia, la ragazza è stata informata da Mannio dell’attacco portato dagli etruschi, i due giovani si decidono ad agire, Orazio porterà soccorso a Roma mentre Clelia avviserà Porsenna del tradimento di Tarquinio (scena III, “Sì, ti fido al tuo gran core”). All’interno del parco del palazzo occupato da Porsenna.
Clelia avvisa Porsenna di quanto sta accadendo ma il re non credo al tradimento di Tarquinio e pensa che la giovane si stia inutilmente preoccupando per voci infondate e tenta di calmarla (scena V, “Sol del Tebro in su la sponda”); giungono però Mannio e Larissa che confermano la versione di Clelia. Rimasti soli i due giovani si riconfermano nel loro amore ma Larissa frappone il suo dovere di principessa che deve prevalere su sentimenti personali (scena VIII, “Dico che ingiusto sei”) lasciando Mannio incapace di comprenderne l’atteggiamento (scena IX “Vorrei che almen per gioco”). Edifici antichi sulla sponda del Tevere con il Ponte Sulpicio ben visibile, da lontano il profilo di Roma.  Orazio si presenta solo sul ponte di fronte alle armate etrusche dando l’ordine ai suoi uomini di segate i pali che lo sorreggono. Il romano resiste quando il ponte crolla tagliando agli etruschi l’unica via d’accesso alla città; rimasto sulla sponda nemica Orazio si getta nel fiume e fugge a nuoto.
Tarquinio furente si scontra che Clelia, che rifiuta tanto il suo amore tanto le accuse di tradimento (scena XIII, “Io nemica! A torto il dici.”) a quel punto decide di precipitarsi da Porsenna per accusare i romani di aver tradito l’accordo e di fare di Orazio il capro espiatorio dell’accaduto rivolgendo a suo vantaggio la disfatta (scena XIV, “Non speri onusto il pino”).
Atto III
Giardini sulla riva del Tevere. Clelia è venuta in possesso tramite Mannio di una lettera di Tarquinio in cui si svelano tutte le trame dell’uomo (scena I, “Tanto esposta alle sventure”) ma conscia del pericolo che comporta il possesso di quella lettera decide di fuggire uscendo da un cancello secondario che si apre sul fiume e poi gettandosi nel Tevere sperando di attraversarlo a nuoto. Tarquinio e Larissa assistono increduli alla scena e mentre l’uomo è furioso per essere stato beffato la principessa teme sinceramente per la salvezza dell’amica (scena III, “Ah! ritorna, età dell’oro”). Un’anticamera del palazzo. Tarquinio cerca di convincere Porsenna della violazione della tregua da parte romana, indicando Orazio come colpevole unico, il re ingannato promette di compiere la giusta vendetta sul traditore (scena V, “Spesso, se ben l’affretta”). Viene annunciato un ambasciatore romano, questi non è altro che Orazio che accusa Tarquinio di aver violato o patti, ingannato Porsenna accusa il romano di mentire e minaccia di riprendere la guerra, Orazio non si lascia intimorire e giura la volontà di resistenza dei romani fino alla vittoria o alla morte chiamando gli Dei come garanti del patto (scena VIII, “De’ folgori di Giove”). Una sala del palazzo reale illuminata per la notte. Porsenna è rimasto colpito dal nobile sdegno di Orazio ed è incerto sul procedere, Tarquinio insiste nell’accusare i romani portando come prova la fuga di Clelia. Proprio in quel momento la giovane rientra, lei è fuggita per salvare il proprio onore da Tarquinio e ora ritorna per mantenere fede al suo ruolo di ostaggio pubblico, consegna allora a Porsenna la lettera di Tarquinio che svela la verità sugli intrighi dell’uomo; quest’ultimo fugge mentre il re giura eterna pace ed amicizia con il popolo romano.

La registrazione
“IL TRIONFO DI CLELIA”
Opera in tre atti su libretto di Pietro Metastasio.
Musica di Christoph Willibald Gluck
Prima rappresentazione: Bologna, Nuovo Teatro Pubblico, 14 maggio 1763
Clelia, nobile romana ostaggio nel campo tosco Hélène Le Corre (soprano)
Orazio, ambasciatore di Roma Mary-Ellen Nesi (mezzosoprano)
Tarquinio, esule della casa reale dei Tarquini Irini Karaianni (mezzosoprano)
Larissa, figlia di Porsenna Burçu Uyar (soprano)
Porsenna, re de’ Toscani Vassilis Kavayas (tenore)
Mannio, principe dei veienti Florin Cezar Ouatu (controtenore)
Armonia Atena
Direttore: Giuseppe Sismondi de Risio
Registrazione: Atene, Athenes Concert Hall, luglio 2011

Ritenuto a lungo perso il manoscritto de “Il trionfo di Clelia” è stato rinvenuto nel 2007 negli archivi bolognesi e successivamente l’opera ha goduto di alcune rappresentazioni prima a Lugo e poi in altri teatri non solo italiani. Proprio il manoscritto bolognese è servito per questa produzione discografica che resta l’unica esistente dell’opera e che permette di ascoltare in modo sostanzialmente attendibile quest’importante composizione.
Affidata al complesso ateniese “Armonia Atenea” – interessante esempio di come orchestre barocche di livello più che apprezzabile si stiano diffondendo in Europa anche fuori dai paesi di più sedimentata tradizione al riguardo –diretta dall’italiano Giuseppe Sigismondi de Risio la produzione si affida principalmente ad interpreti di area balcanico-anatolica, cantanti non particolarmente noti al grande pubblico ma nel complesso di buona qualità e soprattutto pienamente calati in questo progetto di riscoperta.
L’orchestra greca suona nel complesso molto bene e rende con precisione e puntualità la complessa scrittura orchestrale prevista da Gluck per quest’opera rendendo sia la purezza già neoclassica di certi accompagnamenti sia dando giusto rilievo ai momenti di virtuosismo orchestrale che il compositore dissemina nella partitura. Il direttore mostra un buon senso teatrale e ottime doti nell’accompagnamento dei cantanti.
Nel ruolo della protagonista troviamo la francese Hélène Le Corre unica cantante proveniente da un ambito geografico diverso da quello sopra ricordato. La parte di Clelia è decisamente impegnativa sul piano vocale, relativamente lunga e non priva di difficoltà fin dalla pagina d’entrata il recitativo e aria “Grazie, o dèi protettori; è vostro dono…Tempeste il mar minaccia” (atto I, scena VII) aperto da un recitativo accompagnato su una base orchestrale molto ricca e fortemente drammatica già pienamente rivolta verso i modi dell’opera riformata cui segue un’aria di tempesta capace di fondere la spettacolarità che la tradizione vuole per questi passaggi con una maggior attenzione al dato drammatico e al valore del testo. La Le Corre presenta una voce alquanto personale come timbro e colore, non immediatamente piacevole all’ascolto ma l’interprete ha buona autorevolezza riuscendo a ben valorizzare il recitativo e nell’aria i passaggi di coloratura sono superati con proprietà anche se in modo forse troppo meccanico. La grande scena finale che chiude il primo atto – affidata alla prima donna secondo uno schema altrove attesta stato nei libretti di Metastasio – “Misera, ah qual m’asconde…Mille dubbi mi destano in petto” (atto I, scena XI) conferma le impressioni già avute sulla cantante mettono maggiormente in evidenza le difficoltà visto la scrittura veramente impervia del brano per cui le salite in acuto risultano a tratti fisse e danno l’impressione di essere forzate mentre la coloratura pur sciolta con grande nitidezza e precisione rimane meccanica e poco attenta ai valori espressivi.
Punto culminante del personaggio è la grande scena che apre il terzo atto “Ma Larissa che fa?…. Tanto esposta alle sventure” (atto III, scena I) in cui la cantante si muove meglio vista la tessitura meno estrema e conferma le buone doti espressive nel grande recitativo-declamato, elementi che si ritroveranno anche negli interventi di Clelia durante il finale.
Nei panni di Orazio, console romano e fidanzato di Clelia troviamo il mezzosoprano greco Mary-Ellen Nesi, cantante ascoltata negli ultimi anni anche in Italia nel repertorio barocco e classico. La voce è autenticamente mezzosopranile con riverberi bruniti adatto ad un ruolo maschile ma si notano certe asprezze eccessive così come una tendenza ad allargare troppo i suoni nel settore grave rendendolo più povero di suono come ben si nota già nell’aria di entrata “Resta, o cara; e per timore” (atto I, scena V) pur di carattere lirico e caratterizzata da una linea melodica molto intensa vicina alle esperienze dell’Orfeo viennese caratteristiche che ritroviamo anche nella successiva aria di Orazio, la dolente “Saper ti basti, o cara” (atto I, scena X) preceduta da un intenso recitativo accompagnato di taglio ormai decisamente moderno.
Declamati che sono uno dei tratti caratterizzanti del personaggio e che trovano il loro momento più alto nella scena della battaglia del Ponte Sulpicio, autentico capolavoro di Gluck come orchestratore e creatore di evocazioni musicali di situazione e di fatti “No, traditori, in Ciel di Roma il fato” (atto II, scena X) dove la Nesi dimostra di trovarsi più a suo agio in questi momenti di grande concitazione drammatica rispetto a quelli lirici come conferma nella marziale aria che di fatto conclude la parte di Orazio “De’ folgori di Giove” (atto III, scena VIII) che per convinzione espressiva e autorevolezza d’accento risulta non solo il momento meglio contato dalla Nesi ma uno dei più coinvolgenti dell’intero ascolto nonostante non si possa negare la presenza di qualche difficoltà sul piano tecnico.
Porsenna è pensato da Metastasio e Gluck come figura nobile e cavalleresca secondo un modello frequente nel teatro del cesareo potere in cui le figure che incarnano la regalità sono comunque portatrici di specifici valori anche quanto si trovano sul fronte avverso rispetto ai protagonisti della vicenda. Vassilis Karayas ne da un’ottima lettura, è tenore decisamente leggero ma dalla buona presenza vocale, omogenea su tutta la linea e con buona acuti timbrati e con discreto squillo per il tipo di vocalità cui aggiunge un’ottima dizione italiana che gli rende possibile dare piena comprensibilità al testo. Il personaggio insiste su una scrittura nobile e cavalleresca che non viene abbandonata neppure nei momenti di furore come “Spesso, se ben l’affretta” (atto III, scena V) mentre la scrittura vocale presenta moduli spesso decisamente virtuosistici con rapidi passaggi di coloratura da sgranare con scioltezza e Karayas si mostra anche qui pienamente in linea con le richieste della partitura.
Figlia di Porsenna è Larissa, forse la figura più luminosa dell’intera opera nel suo lirismo squisitamente femminile in contrasto con il carattere marziale degli altri personaggi. Si presenta con un brano “Ah, celar la bella face” (atto I, scena III) pienamente in linea con questo carattere e arricchito da interessanti passaggi di coloratura; nella presente incisione si apprezza la bella voce del soprano turco Burçu Uyar dal timbro morbido e carezzevole unito ad una linea di canto molto elegante e da una buona predisposizione per il canto di coloratura non solo nitido e preciso ma anche dotato di buona espressività come si può ammirare in un brano di taglio decisamente virtuosistico come “Dico che ingiusto sei” (atto II, scena VIII) pienamente legato ai modi espressivi dell’opera seria tradizionale. In altri momenti il personaggio con il suo nobile lirismo si presta a maggiori sperimentazioni in direzione dei nuovo modelli riformati come in “Ah! ritorna, età dell’oro” (atto III, scena III) la cui atmosfera d’insieme si avvicina alle scene elisie dell’”Orfeo ed Euridice”.
Il perfido Tarquinio è Irini Karaianni mezzosoprano greco di timbro molto chiaro e dalla vocalità di impostazione decisamente sopranile. Espressivamente il personaggio si muove su un registro di sostanziale ambiguità dove un lirismo apparentemente nobile nasconde la vera natura manipolatrice e infida del personaggio secondo moduli anch’essi ritrovabili anche altro nel teatro di Metastasio e già l’aria di sortita “Sì, tacerò, se vuoi” (atto I, scena II) mostra questa ambiguità. Momento culminante del personaggio è la scena conclusiva del II atto, analoga a quella di Clelia alla chiusura del primo, anch’essa si compone di un lungo recitativo accompagnato “Ma qual mai sì possente” fortemente variato per rispondere ai mutevoli stati d’animo del personaggio ormai prigioniero delle sue stesse trame cui segue un’aria di impianto più tradizionale “Non speri onusto il pino” cantata dalla Karaiani con buona musicalità e precisione nei passaggi di coloratura nonostante gli acuti sia fissi e diano una sensazione di sforzo. Completa il cast il controtenore rumeno Florin Cezar Ouatu come Mannio, il cantante mostra un bel timbro scuro e robusto e un’emissione di buona naturalezza che non sempre si riscontra nei controtenori mentre la pronuncia è come spesso capita in queste vocalità un po’ ovattata ma nell’insieme la prestazione è pienamente funzionale al risultato complessivo.