A volte tutto va bene. Scegli un cast che può effettivamente cantare una determinata opera, un direttore preparato e un regista che ha compreso il suo compito e ha gli strumenti per portarlo a compimento e il teatro d’opera non sembra più un’anticaglia museale senza speranza di redenzione.Il
Guillaume Tell con la regia di
Graham Vick a Pesaro è stato lo spettacolo più bello che ho visto nel 2013. Il
Guillaume Tell con la regia di Graham Vick a Bologna è stato lo spettacolo più bello che ho visto nel 2014. Senza alcun dubbio questo allestimeno rimarrà nella storia di quest’opera e rimarrà anche (almeno per chi scrive) un modello ideale di regia lirica, in special modo il superbo Terzo Atto. Non era un compito facile quello di portare ad un pubblico di oggi una versione integrale del
Tell, opera musicalmente ricca, originale e bellissima ma con un libretto piuttosto problematico, che tende insieme al farraginoso e al ridondante, con lunghe successioni di cori e danze drammaticamente molto poco necessarie che allungano fino all’inverosimile situazioni in sé semplici, con un uso massiccio di un elemento folkloristico (autentico o meno che sia) difficile da trattare, e con un “cattivo” (Gesler) scarsamente delineato (e si sa che “più riuscito è il cattivo, più riuscito è il film”, come diceva Hitchcock).
Vick non riesce a rendere dinamica la statica e lunga, ancorché bellissima, cantata politica del finale del secondo atto e non riesce a risolvere in qualche modo sensato le assurdità del quarto atto. Ricordiamone al lettore il contenuto: il tanto perfido quanto idiota Gesler vuole portare Tell in catene in un’isola in mezzo al lago dove lasciarlo in balia dei rettili (?), ma scoppia una tempesta sul lago. Gesler decide quindi di liberare Tell, dalle note abilità nautiche, affinché porti la barca in salvo a riva. Una volta attraccato, Tell uccide Gesler con una freccia senza tanti complimenti, mentre suo figlio Jemmy – evidentemente subnormale – dà fuoco alla propria casa, in mancanza di un altro materiale combustibile con cui dare il segnale per la rivolta ai
loro alleati. Le scelte di Vick per la scena della tempesta lacustre e l’incendio non sono particolarmente soddisfacenti, ma d’altronde non c’è proprio verso di dare un senso a questo imbarazzante scioglimento. Lasciando stare l’impossibile, questo spettacolo è veramente esemplare per il modo in cui rende drammatico significativo ogni dettaglio. Il “folklore” non è solo una decorazione ma un simbolo della lotta per la libertà di un popolo, che è il cuore del dramma. Da un lato infatti il colonizzatore (qui austriaco) vuole ridurre il colonizzato (qui svizzero) a cartolina turistica, di cui magari farsi anche un po’ gioco – e noi italiani questo meccanismo lo conosciamo da secoli meglio di chiunque altro. Dall’altro però la tradizione è motivo di orgoglio. Fin dal primo atto
viene impostata questa dialettica. La scena (che ha peraltro il merito non indifferente di agire da perfetta camera acustica, essendo chiusa da ogni lato, anche il soffitto) rappresenta proprio una sorta di strano museo contemporaneo con un diorama piuttosto kitsch di una catena montuosa e vediamo gli svizzeri agire da comparse per le foto-ricordo dei colonizzatori. Ma la lunga scena delle nozze fra contadini e della gara d’arco è resa con grande nobiltà e potenza attraverso l’invenzione di rituali quali quello di una strana danza con le scarpe in mano (mutuata forse da qualche tradizione popolare esistente?). Determinante è l’apporto del coreografo Ron Howell, compagno di vita di Graham Vick. L’integrazione fra cantanti, mimi e danzatori è assolutamente perfetta e le coreografie sono di grande bellezza, piene di fantasia e soprattutto sempre drammaticamente motivate. Il culmine viene raggiunto nel Terzo Atto, in cui un gruppo di danzatori viene invitato a celebrare il dominatore Gesler con danze popolari e viene continuamente deriso e molestato dai “padroni” per poi ritornare, al momento musicalmente opportuno, a ripetere la sequenza “folkloristica” col sorriso. Questa lunghissima scena è un vero capolavoro di regia e coreografia e riesce a motivare tutto il dramma dando una consistenza fisica evidentissima al personaggio di Gesler, che da un punto di vista vocale non ha molto da cantare. Il basso
Luca Tittoto incarna un personaggio indimenticabile, estremo ed istrionico, un potente narcisista e con un principio di follia: canta benissimo, salta e danza splendidamente. Solo per questo ruolo Tittoto merita di entrare nel pantheon dei grandi cantanti-attori della storia.
Tittoto, Simone Alberghini, Alessandro Luciano e Simon Orfila sono gli unici membri del cast che erano anche a Pesaro. La produzione infatti, nata a Pesaro, è stata poi ripresa a Torino, inspiegabilmente in italiano, e quindi a Bologna con cast completamente diversi ogni volta.
(È forse un segno di speranza il fatto che si riescano a costruire tre cast diversi ma credibili di un’opera così impegnativa). E qui sta un po’ la debolezza di questo allestimento: un assistente, infatti, è obbligato a copiare quello che è stato creato per altri interpreti. Così, ad esempio, il rapporto familiare tra Carlos Alvarez (Tell) e Mariangela Sicilia (Jemmy) è molto meno tenero di quello che c’era fra Nicola Alaimo e Amanda Forsythe. Il momento in cui Nicola Alaimo vacillava dopo essere riuscito nell’impresa di non uccidere suo figlio nella famosa sfida della mela non è stato altrettanto toccante con Alvarez. Allo stesso modo, il terzetto di Mathilde, Hedwige e Jemmy a Pesaro era riuscito assai più commovente a causa del differente profilo delle interpreti, molto meno simpatico delle loro colleghe a Bologna: essendo Marina Rebeka (Mathilde) molto aristocratica, era evidente che Veronica Simeoni (Hedwige) non era tanto preoccupata per il marito o deliziata dai complimenti rivolti a suo figlio Jemmy quanto era invece preoccupata di non essere in grado di ricevere degnamente una principessa, un contrasto ironico che era molto commovente. Quando Marina Rebeka apparecchiava la tavola, era ovvio che si trattava di uno sforzo per fare sentire meno a disagio l’umile svizzera. Yolanda Auyanet è invece tutt’altro che snob e Enkeleida Shkoza è molto materna, caratteristiche che hanno dato alla scena un profilo molto più “standard”. In sintesi, bisognerebbe pensare e ripensare la regia sugli interpreti (e, nel caso sia economicamente svantaggioso avere il regista originale per le riprese, bisognerebbe dare all’assistente un campo più libero di azione). È bello comunque poter parlare di recitazione ogni tanto per il teatro d’opera. Se ne può parlare talmente poco che credo che i miei colleghi critici italiani pensino che il mestiere di regista lirico consista solo nel curare la realizzazione di scene e costumi. In ogni caso, la regia di
Guillaume Tell di Vick resta un capolavoro, specialmente l’indimenticabile terzo atto.
Il cast pesarese era eccellente. Il cast bolognese lo è forse ancora di più. Cercherò di evitare però i raffronti. La sezione che segue probabilmente annoierà molto il lettore perché è una sequenza di elogi sperticati, non trovando nel cast nessuna debolezza.
Il baritono
Carlos Alvarez (Guillaume Tell) è uno dei più grandi cantanti dei nostri giorni, dal timbro scuro e suadente. ricco nei gravi come negli acuti. La voce di un dio, verrebbe da dire. Sicuramente la voce di un eroe, di cui ha anche la fisicità possente. Il tenore
Michael Spyres (Arnold), che ho ascoltato qui per la prima volta dal vivo, mi ha lasciato a bocca aperta. È una voce
estremamente particolare, bella, duttile, precisa, insolitamente estesa nei gravi, da far invidia a qualunque baritono, ed estesa negli acuti, emessi con infallibile sicurezza. È vero che questi acuti risultano stranamente meno sonori dei centri, ma non sono certo privi di squillo (come altrove è stato scritto). Spyres arriva al termine di “Asile héréditaire” e relativa cabaletta (una lunga scena tra le più difficili mai scritte per la corda tenorile) come se avesse bevuto un bicchier d’acqua. Lodevolissima anche la sua pronuncia del francese. E da un punto di vista della recitazione, riesce a rendere il suo tormentato personaggio con grande vividezza. Un artista veramente completo. Di Luca Tittoto (Gesler) e della sua straordinaria prova di attore si è già detto. Aggiungo che anche vocalmente è la scelta ideale per questo ruolo che richiede un basso-baritono con una grande estensione. Il tenore
Giorgio Misseri rende con grazia il personaggio (odioso) del pescatore Ruodi e
Simone Alberghini tratteggia un Melcthal molto umano. Particolarmente adorabile il suo sorriso paterno nella videoproiezione che accompagna “Asile héréditaire”. Il tenore
Alessandro Luciano è un Rodolphe antipaticissimo e molto ben cantato.
Simon Orfila è un Furst sicuro. Ottima prova anche per il baritono
Marco Filippo Romano, che si fa notare per il bel timbro nel piccolo ruolo di Leuthold. Il soprano leggero
Mariangela Sicilia fa un ottimo Jemmy, ancorché un po’ generico nella recitazione. È un peccato che la sua aria, un numero tagliato da Rossini stesso ma eseguito con successo nell’allestimento pesarese dell’anno scorso, non sia stata inserita anche in questa occasione.
Yolanda Auyanet (Mathilde) conferma ancora una volta le sue doti: registro di petto presente, legato ammirevole, agilità (richieste occasionalmente da questo ruolo) e una grande umanità – anche se, come si è detto, forse un profilo leggermente più antipatico giova a questo personaggio, che conosce una vera trasformazione solo alla fine, quando rinuncia alle “false grandezze” e passa dalla parte degli insorti.
Enkeleida Shkoza è una Hedwige eccezionalmente materna, con una vera voce di mezzosoprano, scura e potentissima. Il coro è forse il vero protagonista di ques’opera e il
Coro del Comunale di Bologna ha dato in questo allestimento una delle sue prove migliori, non solo da un punto di vista vocale, ma anche teatrale.
Al termine della lunghissima serata gli applausi sono stati scroscianti ed interminabili per tutto il cast. Ma quando è apparso alla Yolaribalta il direttore Michele Mariotti il teatro, come si suol dire, è venuto giù. L’attenzione per le voci, la precisione ritmica, l’elasticità dinamica, la cura per il suono che abbiamo imparato ad apprezzare in questo giovane direttore di cui il pubblico bolognese è letteralmente innamorato hanno potuto rifulgere anche in questa occasione, donando levità e scorrevolezza ad un’opera lunga e non di rado “monumentale”.Per farla breve, un trionfo su tutti i fronti. P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci