La viola di Antoine Tamestit con l’OSN RAI a Torino

Antoine Tamestit (viola)

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2014-2015
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Viola Antoine Tamestit
Luciano Berio : Voci (Folk Songs II), per viola e due gruppi strumentali
Sergej Prokof’ev : L’amore delle tre melarance. Suite sinfonica op. 33 bis
Ottorino Respighi : Fontane di Roma, poema sinfonico – Pini di Roma, poema sinfonico
Torino, 17 ottobre 2014

Risale al 1984 Voci (Folk Songs II) di Luciano Berio, per viola e due gruppi strumentali: uno dei brani italiani più significativi della seconda metà del Novecento nella coniugazione di ricerca etno-musicale e di virtuosismo dello strumento solista, per di più con una specifica caratura regionale. Berio ha infatti raccolto e inanellato tredici canti popolari siciliani, frammentandone e ricomponendone i nuclei melodici, con la voce-guida della viola, che ora presenta il materiale sorgivo ora si concentra su elaborazioni originali del compositore.
Il giovane Antoine Tamestit, artista pluripremiato in ambito internazionale, suona la viola “Mahler” di Stradivari (del 1672: la prima viola costruita dal celebre liutaio), dalle sonorità delicatissime, e in effetti messa a difficile prova dalle immancabili asperità della pagina contemporanea. Nella prima parte del brano di Berio le risonanze dello strumento solista sono decisamente bartockiane, a riprova della notevole comunicatività del violista e del direttore d’orchestra nell’esecuzione di Voci. D’altra parte la scrittura stessa del lungo brano è estremamente chiara, basata com’è sull’alternanza dialogica tra viola e gruppi strumentali: quando, per esempio, il solista suona in pizzicato, ricreando l’effetto di un mandolino, anche gli archi della compagine riecheggiano la stessa modalità mimetica, con risultato molto espressivo.
Il suono dell’OSN RAI è semplicemente meraviglioso: omogeneo, netto, rifinito dall’architettura stereofonica delle percussioni collocate agli antipodi, negli estremi superiori dell’orchestra. Tutto sta procedendo benissimo, quando improvvisamente, a mezzo del brano, si rompe una corda della viola solista, e Tamestit è costretto a uscire per sostituirla; l’incidente è presto risolto, ma l’unità del brano è spezzata in due. Ed è un piccolo rimpianto che la coesione esecutiva venga meno, in quanto il solista s’impegna per differenziare lo stile di ciascun canto, in modo da rendere sempre perfettamente riconoscibili le linee melodiche delle singole fonti musicali. Di un canto animato da naturale concitazione, da autentico respiro, è esempio anche il fuori programma bachiano che Tamestit pensa di regalare al pubblico torinese al termine di Voci.
Nel resto del programma diventa protagonista Juraj Valčuha, il Direttore principale dell’OSN RAI, impegnato con la resa di massicce orchestrazioni risalenti al primo quarto del Novecento: la suite dall’opera di Prokof’ev L’amore delle tre melarance (1919-1925) e i due poemi sinfonici di Ottorino Respighi, Fontane di Roma (1916) e Pini di Roma (1924). Nella suite russa riesce ad alternare efficacemente sonorità robuste e brillantezza di colori; nella celebre Marcia, per esempio, si apprezzano quelle pennellate che alleggeriscono – anche se manca un po’ di ironia – e che rendono conto del lavoro svolto sui colori (e non soltanto sul ritmo, pure importantissimo). I due poemi di Respighi, da qualche anno a questa parte soggetti a forti critiche da parte del pubblico più esigente, in quanto troppo legati al gusto decorativo dell’epoca, accademici, artificiosi, spesso considerati esempio di Kitsch in musica, sono proposti da Valčuha uno di seguito all’altro, senza soluzione della continuità. La scelta è ottima, perché smorza l’effetto retorico del finale del primo, e fa scivolare l’ascoltatore dentro la sequenza del secondo poema: nella fattispecie dalla fontana di Villa Medici al tramonto ai pini di Villa Borghese. Ma la scelta funziona assai bene soprattutto per l’omogeneità di lettura condotta da Valčuha, contro ogni tentazione di abbandono al decorativismo sonoro; il direttore sin dall’inizio sottolinea anzi le tremule incertezze del flauto (nelle Fontane di Valle Giulia all’alba), la strutturazione wagneriana degli archi (con La fontana del Tritone al mattino il gioco dialogico di arpe, flauto e celeste si trasforma poi in un piccolo e meraviglioso Incantesimo del fuoco), il colore scuro di violoncelli e contrabbassi. Molto opportunamente, la magniloquenza è lasciata in secondo piano, tranne forse nel momento in cui non può mancare (con il finale tempo di marcia dei Pini della Via Appia), allorché fanno capolino in alto sul coro sei buccine dalle sonorità arcaizzanti e pizzettiane (due flicorni soprani, due flicorni tenori, due tube wagneriane, stentorei nell’emissione, corroborati dagli strepitosi timpani di Claudio Romano nella coda). Grandissimo – e più che meritato – successo; ma quale concentrato di gusto melenso il cinguettio dell’usignolo, amplificato in corrispondenza del finale dei Pini del Gianicolo! Un effetto veramente passatista (peraltro voluto dallo stesso Respighi, che nel suo programma annota «Un usignolo canta» …). Il melomane conosce bene le conseguenze, a volte deleterie, dei versi degli animali sulla scena, e ai più esperti tornerà alla mente il profetico canto del gallo nell’explicit di una delle opere più brutte di tutta la storia del melodramma: L’oracolo di Franco Leoni, non a caso risalente anch’esso ai primi anni del Novecento.